Isola.Catania

Impatto. Nasce la rubrica di Isola sul social impact

Dall’osservatorio etneo, nasce “Impatto”, la nostra nuova rubrica sui temi dell’impresa sociale. Ne parliamo con Antonio Perdichizzi, presidente di Opinno Italia (e non solo).

Antonio Perdichizzi è un imprenditore sociale, education activist e startup mentor. Founder di Isola Catania, Presidente di Junior Achievement Italia, Presidente di Opinno Italia.

Qual è stato il percorso che ti ha portato all’impresa sociale?

Ho sempre avuto passione per l’impresa. Sono diventato imprenditore sui banchi di scuola e ho fondato la mia prima azienda, di fatto, mentre ero ancora al liceo quando, come premio per aver superato gli esami di maturità con il massimo dei voti, i miei genitori mi hanno regalato l’apertura della prima partita IVA. Già in questa breve storia degli albori emergono due parole chiave che mi hanno sempre accompagnato: scuola e imprenditorialità. Quello è stato il primo passo. Con il tempo e con l’esperienza acquisita ho avviato altre imprese, attraverso errori e successi. Riguardando indietro a più di 20 anni di carriera imprenditoriale e manageriale, un dato mi appare chiaro: in cuor mio, pur non avendone ancora preso coscienza, sono sempre stato un imprenditore sociale. E questo è dimostrato da alcune scelte che ho fatto. Tree è nata con l’obiettivo di creare opportunità, impatto positivo sui territori e sulle comunità in cui operava, attraverso programmi di formazione, in cui l’innovazione era vista come una leva per sviluppare questo impatto. È sembrata naturale, quindi, l’idea di confluire in un gruppo internazionale come Opinno, nel 2020, che ha come payoff la frase “We deliver impact through innovation” e aveva già avviato un percorso che l’ha poi portata a diventare B-corp. Indizi come questi fanno ben comprendere come la direzione è sempre stata quella rivolta all’impatto e al sociale.

Inoltre, pur avendo fatto impresa for profit, ho sempre dedicato una porzione rilevante del mio tempo e delle mie risorse ad esperienze associative, prima nei Giovani di Confindustria; ora nella Piccola Industria e, soprattutto, in Junior Achievement – la più grande organizzazione al mondo dedicata all’educazione imprenditoriale nei banchi di scuola, per due volte candidata al Nobel per la pace e tra le 10 realtà al mondo con maggiore impatto positivo sui giovani.

Si tratta di una serie di elementi, di cui probabilmente all’inizio non avevo piena consapevolezza, che però razionalmente mi hanno spinto ad avviare il progetto di Isola che, grazie allo stretto legame con il territorio, mi ha mostrato gli enormi problemi che Catania, la Sicilia e le sue città stanno affrontando e, allo stesso tempo, la necessità di disegnare un nuovo paradigma. Quest’ultimo prende spunto dagli studi di Sir Ronald Cohen, teorico e pragmatico fondatore dell’impact investing, che stravolge la tradizionale relazione tra rischio e rendimento, che ha governato l’economia fino a oggi, introducendo, in questa equazione, la dimensione dell’impatto. Quindi rischio, rendimento e impatto sono tre elementi che non solo possono, ma devono stare insieme. E ce ne stiamo rendendo conto globalmente. Basti pensare agli SDGs che dettano una serie di parametri non soltanto ambientali ma anche sociali che devono guidare il cambiamento. Tutto questo mi ha fatto prendere sempre più consapevolezza e per fortuna ho trovato una forma giuridica adatta: quella dell’impresa sociale che è realmente un ibrido tra profit e no-profit. È un’impresa a tutti gli effetti che, quindi, segue tutte le regole delle imprese nazionali, ma afferisce anche al terzo settore. In definitiva, ho messo pienamente a frutto la mia dedizione da imprenditore rivolto all’impatto con lo strumento giusto che oggi è Isola, per dimostrare anche in Sicilia l’equazione dimostrata in UK da Cohen.

Cos’è, dunque, un’impresa sociale?

L’impresa sociale è un ponte fra due mondi e modi diversi di fare impresa che, per la prima volta, si toccano in maniera chiara: l’impresa tradizionale, dedita esclusivamente al profitto, e l’ente del terzo settore. Questa forma ibrida è ovviamente soggetta a una serie di regole che la rendono possibile. Inoltre, si tratta di una forma totalmente innovativa e all’avanguardia perché, in realtà, anticipa dei fenomeni che stanno già accadendo. Mi riferisco alle imprese tradizionali che oggi guardano in modo strutturato all’impatto, alla responsabilità sociale, alla possibilità di generare qualcosa di positivo per la società. Per questo si dotano di una serie di strumenti, come il bilancio sociale, il bilancio d’impatto e complessi schemi di governance e rendicontativi. Dal punto di vista opposto, il terzo settore ricerca costantemente meccanismi per poter raggiungere la sostenibilità economica perché altrimenti si è costretti a rimanere solamente nell’ambito della filantropia e della donazione. E questo non è più possibile perché per crescere c’è la necessità di stare sul mercato. Ecco che quindi l’impresa sociale diventa una straordinaria ibridazione di questi due mondi perché consente, allo stesso tempo e nell’ambito del medesimo modello organizzativo, di seguire i due grandi obiettivi del mondo profit e del no-profit.

Antonio Perdichizzi durante un evento a Isola.Catania

Qual è l’obiettivo, il sogno che vuoi realizzare attraverso la tua impresa sociale e come intendi realizzarlo?

Io sono convinto che il futuro guardi in maniera molto chiara verso il Sud. I fatti a cui stiamo assistendo ci dicono che l’espansione a Est, su temi prettamente energetici e di assetto dell’Europa, per via del conflitto in Ucraina, generano temi molto complessi. Saranno i governi a farsi carico della ricostruzione nei prossimi anni e solo successivamente si potranno aprire nuovi scenari. Credo che l’Europa possa e debba guardare nuovamente a Sud e avere un’attenzione particolare all’area del Mediterraneo dove certi fenomeni accadono prima che in altre parti del mondo, sia dal punto di vista climatico sia da quello sociale. Il Mediterraneo è un laboratorio molto interessante per tutto il mondo. In mezzo c’è il nostro Paese, l’Italia, il Sud e, ovviamente, la Sicilia. Se a causa di fattori esterni, la posizione e il ruolo di questi territori, in primis la Sicilia, sono importanti, c’è sicuramente l’opportunità di fare qualcosa.

Come?

L’idea è quella di attrarre costantemente investimenti, persone, attività che possano insediarsi al Sud. Partiamo da alcuni fattori: il Sud, essendo una zona depressa (e questo l’Europa lo sa da tempo) beneficia di grandi risorse; c’è in atto, inoltre, una congiuntura internazionale per noi positiva; infine stiamo vivendo un’evoluzione post-pandemia che consente a persone e organizzazioni di immaginare un diverso bilanciamento tra vita personale e professionale, consentendo il lavoro da remoto per alcuni periodi dell’anno, magari proprio al Sud, dopo anni di fuga dei cervelli. Tutti questi fattori possono rappresentare un’opportunità concreta. L’obiettivo è quindi attrarre affinché il Sud possa diventare uno straordinario polo di produzione nel settore digitale secondo le tecnologie più all’avanguardia. Uno dei luoghi più interessanti in Europa in cui si trovano competenze di eccellenza e un equilibrio ottimale fra qualità della vita, opportunità di lavoro e risorse per attrarre nuovi investimenti.

Qui ci vorrebbe un esempio, una prova…

Certo! Il vino. I vini siciliani venivano utilizzati per ‘tagliare’ i vini francesi, quindi con un valore aggiunto minimo. Successivamente, grandi gruppi hanno deciso di investire in Sicilia e le persone che collaboravano con questi gruppi, pian piano, hanno avviato le proprie piccole realtà imprenditoriali. Così è nato un distretto di straordinario valore che compete in tutto il mondo con prodotti di qualità eccelsa come sono, per esempio, i vini dell’Etna. Ecco, io credo che si possa fare la stessa cosa nel settore digitale: professionalità e talenti prima costretti ad andare via; poi assunti da grandi realtà che si localizzano qui grazie ai vantaggi fiscali ed economici; infine, realtà nuove che nascono da queste professionalità in loco che decidono di scommettere sul proprio talento e sulle proprie idee innovative ad alto valore aggiunto. Con l’economista Enrico Moretti, potremmo dire che un posto di lavoro nell’innovazione ne crea altri 5 in altri settori. Investire nell’high-level job produce sviluppo perché offre occupazione di alta qualità e dignità del lavoro.

Come persegui il tuo obiettivo?

Immaginando quale potesse essere il ruolo di un’organizzazione come Isola – che non è nata per misurare il proprio impatto ma per creare direttamente impatto – abbiamo pensato di creare una comunità di attori diversi: settore pubblico e privato; realtà profit e no-profit; grande e piccola realtà, locale e globale. Lo facciamo attraverso un meccanismo di coalizione. Mettiamo insieme questi soggetti diversi, comprese università, istituzioni, terzo settore, imprese, singole eccellenze e professionalità, attraverso un processo strutturato di lavoro congiunto. Ad esempio, per fare analisi, studio, approfondimenti, cercando di costruire progetti insieme. Perché è chiaro che puntiamo a uscire da una condizione di disagio sfruttando i fondi europei, servirà fare economia di scala e poter attingere a misure importanti. Le piccole e medie imprese italiane, ancora di più di quelle del terzo settore nel Sud, non possono pensare di affrontare queste progettualità da sole. Per questo ci sforziamo di farlo insieme ad altri, con Isola e decine di realtà diverse che collaborano con questa missione.

Il concept di Isola è replicabile o lo vedi come un caso isolato?

Non solo è possibile replicarlo ma è anche auspicabile. La nostra idea è favorire la nascita di altri soggetti come Isola perché sono tante le sfide da affrontare. Di sicuro c’è bisogno di maggiore densità nei territori del Sud che bisogna infrastrutturare adeguatamente. Alcune realtà già esistono. C’è anche un tema di specializzazione. Noi, per nostra vocazione, lavoriamo sul tema dell’impatto e con realtà a grande impatto. Ci vorranno anche realtà che si occupano di alta tecnologia, con settori verticali come la salute, l’agroalimentare ecc. La diversità e la densità sono molto importanti.

Come vedi il fenomeno della fuga dei cervelli?

Su questo vorrei essere molto chiaro. Non possiamo prima lodare e poi lamentarci dell’elevata mobilità della cosiddetta “generazione Erasmus”, che è e resta una grande conquista dell’Europa e abilita a infinite opportunità per i nostri giovani. Una domanda che mi capita spesso di ricevere quando incontro gli studenti universitari: “Perché dovrei rimanere, quando altrove ho molte più opportunità?”. La mia risposta è stata: “Per nessun motivo, la scelta è solo tua”. La scelta attiene al singolo e riguarda aspetti troppo personali. Per questo non vedo niente di male nel decidere di andare fuori, a formarsi in giro per il mondo (che è poi quello che accade nelle culture anglosassoni, dove c’è una grande abitudine alla mobilità). La cosa secondo me rilevante è, prima di tutto, dare l’opportunità affinché quella di andare via sia una scelta e non un obbligo. Poi bisogna considerare che oggi è possibile lavorare dalla Sicilia anche per realtà fuori dal territorio siciliano ma anche è possibile lavorare per la Sicilia. Basti considerare le tante professionalità ed eccellenze che ci sono in giro per il mondo. Basterebbe creare rete e farle lavorare assieme per produrre qualcosa di meraviglioso per la Sicilia. Il problema non è quindi andare via o meno; il tema è creare l’aspettativa e l’opportunità di poter tornare, una volta acquisito un bagaglio di competenze importante, tenendo vivo il proprio territorio di origine, le proprie radici. Oggi questo meccanismo funziona solo in una direzione. L’obiettivo è frenare questo processo e lavorare per avviare il meccanismo opposto.

Perché Catania?

In passato Catania è stata etichettata in diversi modi: “la Milano del Sud”, “Etna Valley”. Io semplicemente l’ho scelta perché per me è casa e credo sia abbastanza naturale per ognuno partire dalla propria comunità per cambiare le cose. Ci sono ovviamente anche altre motivazioni. Credo che tutto il Sud abbia problemi comuni ma sono sicuramente le città metropolitane e i grandi centri, dotati di aeroporti ma soprattutto di università e, quindi, anche di aziende e strutture di ricerca, quelle realtà che meglio di altre possono innescare certi processi. Abbiamo bisogno di iniziare dai grandi poli per poter raggiungere tutto il territorio. Prima della pandemia si dibatteva sul fatto che, nel 2050, gran parte della popolazione mondiale si sarebbe spostata verso le grandi città e i grandi centri urbani. La pandemia ha messo in luce un aspetto profondamente diverso, la riscossa dei piccoli centri. Passata questa emergenza, mi sembra di capire che tutti i dati ci confermano che il trend evidenziato in precedenza sia quello più realistico e che i grandi centri continueranno ad attrarre sempre più persone e che avranno quindi la responsabilità di guidare i cambiamenti. Catania ha queste caratteristiche: scalo internazionale, università importanti, presenza di grossi player industriali come STMicroelectronics ed ENEL che, pur presenti da tanto tempo nel territorio, stanno rilanciando con investimenti da miliardi di dollari in settori di frontiera come la mobilità elettrica e le energie rinnovabili. Questo è indice di un ecosistema che ha qualche chance in più rispetto ad altri.

Qual è il ruolo della tecnologia nel creare impatto e perché è importante raccontarlo?

La tecnologia è fondamentale per creare impatto. In primis il digitale e le infrastrutture in questo sono abilitanti. Fortunatamente il Sud non è così indietro come si potrebbe pensare. Anche la tecnologia in senso stretto, quindi la ricerca, i materiali, la tecnica, il bit e l’atomo che si incontrano, il rapporto tra le intelligenze artificiali e la robotica. C’è un mondo in grande evoluzione e chi riesce a padroneggiarlo ha opportunità immense davanti a sé per generare benessere. C’è grande spazio di sviluppo in settori come l’education, l’orientamento e l’empowerment dei giovanissimi. Sappiamo quanto si sta cercando di fare in questi anni nella promozione di una cultura STEM, ma siamo ancora lontani dai numeri necessari per riabilitare una classe di persone che lavorano, che oggi non hanno competenze e strumenti e che per questo rischiano di essere tagliati fuori non soltanto dal mercato del lavoro ma in generale dalla società. In questo contesto credo che la divulgazione, l’ispirazione e la condivisione di conoscenza siano più importanti della tecnologia in senso stretto.

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