Il valore sociale della ricerca

Matteo Bovolenta

di Massimiliano Cannata

Matteo Bovolenta, trentenne medico e biotecnologo, da vari anni si muove tra Ferrara, dove è nato e ha conseguito il dottorato di ricerca in genetica medica, e l’Università Federico II di Napoli, dove ha maturato un’esperienza importante presso i laboratori di ricerca genica di Telethon. Frequenti e numerosi i suoi contatti scientifici in Europa e in Giappone.

Rimane comunque uno scienziato italiano doc nella mentalità, nell’entusiasmo, nella sensibilità. Porta avanti le sue ricerche operando su una tecnologia promettente, che dovrebbe a regime aiutare a correggere le distorsioni del DNA, permettendo di affrontare una particolare forma di distrofia muscolare, comune nell’età infantile.

«Ho sempre avuto presente», spiega Bovolenta, «la sofferenza delle famiglie, le cui difficoltà innescano in me una voglia di lottare contro il tempo, che mi spinge, nei limiti del possibile, ad accorciare sperimentazione e risultati».

Rispetto alla apparente “impersonalità” della ricerca, la finalità personale è stata dunque per lei decisiva?

Non potrebbe non essere così per un ricercatore che opera nel campo della medicina. I pazienti che vengono da noi pieni di speranza sono un appello al senso di responsabilità. Per me è stato decisivo il contatto con una famiglia di Messina che mi ha dato fiducia, consentendomi, con un iniziale finanziamento, di portare avanti lo studio pilota.

Cosa si aspetta dalla concreta applicazione di quanto sta sperimentando?

Un cambio di passo sia a livello di conoscenza generale della patologia sia a livello terapeutico. La strategia che ho preso in considerazione nei miei studi concerne una serie di mutazioni, i cui meccanismi sono in larga parte ancora sconosciuti. Riuscendo a intervenire con interruzioni mirate del DNA si dovrebbe riuscire ad “aggiustare” la sequenza incriminata, distruggendo il gene correlato alla malattia. Una vera rivoluzione, possibile.

Quando ha deciso di occuparsi di un ambito così importante, ma anche particolarmente problematico e delicato?

L’idea viene da lontano. è nata da una prima considerazione di ordine applicativo. Mi occupo di distrofia muscolare da circa sei anni. Conseguita una borsa di studio in genetica medica, all’indomani della laurea ho cominciato in quest’ambito a occuparmi di talassemia. Il secondo movente è scaturito dalla lettura di un articolo, apparso su “La Repubblica”. Era il 2005, veniva pubblicizzata la scoperta di alcune molecole in grado di modificare il DNA.

Quali difficoltà ha dovuto superare lungo il cammino della sua ricerca?

Si sa che la strada italiana della ricerca è sempre impervia. In questo caso, lo è ancora di più perché le molecole che utilizzo per la strategia terapeutica non sono ancora molto conosciute in Italia. Una multinazionale in California ha brevettato questa particolare tipologia di molecole. Oggi cominciamo a disporre di alcuni dati clinici sulle patologie geniche più diffuse, mentre siamo in attesa dei primi risultati sul trattamento terapeutico.

Quando si uscirà dalla fase pilota della ricerca per passare alla sperimentazione?

Il percorso richiede tempo. Stiamo studiando le cellule del bambino messinese che abbiamo in banca dati, tenendo anche sotto osservazione alcuni modelli animali, da cui trarremo dati clinici di prima, seconda e terza fase. Tutto questo è preliminare alla produzione del farmaco vero e proprio, che richiederà fondi molto importanti.

Il premio consisterà in un viaggio a Boston, per conoscere studiosi e gruppi di ricerca con interessi affini ai suoi. Potrebbe risultare utile per accelerare i tempi della sua ricerca?

L’opportunità di andare al MIT di Boston sarà per me decisiva. Conoscerò direttamente ricerche fondamentali e, al tempo stesso, potrò portare il mio lavoro a conoscenza di altri gruppi, promuovendo il mio progetto. Spero che ne possa scaturire una proposta di collaborazione, foriera di risultati positivi.

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