Il tempo del frattempo

Tra le terribili immagini di un presente che si ritrova inopinatamente in guerra, e alcune recenti narrazioni mediatiche di un passato di oppressione, di riscatto e di speranze spesso tradite, uno dei più autorevoli studiosi italiani dell’immaginario collettivo si interroga sulle prospettive di crisi e di riscatto nella società dei consumi.

di Alberto Abruzzese

C’è da vedere una “favola” televisiva che scava dentro la falsa coscienza che in questi giorni è venuta alla luce quando tanti “umani dalla pelle bianca” si sono giustamente commossi assistendo alle sofferenze dei cittadini ucraini in fuga, mentre in altre occasioni non si sono altrettanto commossi di fronte alle infelici migrazioni di “umani dalla pelle nera”.

Nel film Batman Begins, diretto da Christopher Nolan nel 2005, si accennava a una “Ferrovia sotterranea” consistente in una rete di abolizionisti, percorsi nascosti e case sicure, che nella prima metà dell’Ottocento ha aiutato gli schiavi afroamericani a fuggire dagli Stati schiavisti del Sud. 

Alla stessa vicenda storica si ispira ora The Underground Railroad (2021), una mini-serie (10 episodi) diretta da Barry Jenkins e tratta dell’omonimo romanzo del 2016 scritto da Colson Whitehead. Tutte le informazioni sulla serie sono in Rete, ma è difficile trovarvi ciò che più conta per apprezzarne il significato. Cioè che quegli schiavi fuggiti – nella inquietante vicenda di un ininterrotto esodo verso una patria più benevola, di un “cammino senza speranza” verso la Civiltà e i suoi “premi” – incarnano la sofferenza e la disperazione dell’intero genere umano in perenne conflitto con la violenza intrinseca e inemendabile della società e delle sue leggi. O peggio delle sue dialettiche.

Il racconto si muove su due piani: quello realistico di una giovane schiava, Cora, che fugge di Stato in Stato dalla persecuzione schiavista e dalle violenze dei proprietari terrieri bianchi; quello invece – letteralmente, simbolicamente, metaforicamente, “sottotraccia” – di una strada ferrata sotterranea che dà modo a Cora di fuggire e la salva o le fa credere di potersi salvare dalle violenze degli stessi luoghi e della stessa comunità in cui ha sperato di riuscire a diventare una donna libera.

Si tratta di una invenzione narrativa in cui si trovano intrecciati tutti i temi individuati dalle antropologie dell’immaginario: i diversi regimi del giorno e della notte; della vita diurna dei legami sociali e della vita notturna del sottosuolo; della razionalità e dell’irrazionale. Delle interdizioni socioculturali e della loro rimozione.

Della strada ferrata e della sua corsa lungo oscure caverne nella roccia non vengono indicate le stazioni di partenza, ma solo la meta desiderata dal passeggero e il buio del suo desiderio di risvegliarsi in un altrove sconosciuto e però desiderato (fuga uguale desiderio; desiderio uguale fuga).

Si tratta di una geografia onirica del dolore umano, il suo viaggio dentro le proprie tenebre, la loro assenza di linguaggio, di immagini e parole. A viaggiare è l’isolamento della persona in sé stessa. Il credere/non credere di conoscere la propria meta; il sentire soltanto la urgente necessità di evasione dalla paura in cui tale meta è comunque costretta. Come fine e come inizio, perché in ogni caso si tratta di ritmi di vita uniformemente seppure diversamente tra loro interconnessi, con ramificazioni infinite: sentieri, strade, piazze, porte e porti utili o necessari per andare o per tornare.

«L’esigenza di “libertà”», scriveva Jean Baudrillard, «è sempre e soltanto quella di andare più lontano del sistema, ma nella stessa direzione». Una promessa o una condanna? Comunque una sollecitazione a riprendere in mano il proprio destino, a fare in modo che questo destino “possa” realizzarsi, ma che non “debba” realizzarsi.

A quali valori e strumenti affidarsi per non “eternamente tornare” (magico slogan nietzschiano), per rinascere, per rivedere la luce del sole? Per non ricadere nel Principio Speranza che – complice l’ostinato culto del Rinascimento, la fiduciosa confidenza umanista nell’essere umano, lo scientismo tecnologico – ci induce a restare prigionieri della Ferrovia Sotterranea, salendo e scendendo senza però mai trovare una via d’uscita dalla colpa umana di esistere a spese della esistenza degli altri.

Non a caso nel destino di chi è pienamente responsabile di questa persistente reclusione sono trascinati anche i tanti non garantiti e abbandonati al mondo dal mondo stesso: una stragrande maggioranza in continua crescita rispetto agli eletti, prescelti dalla globalizzazione finanziaria. Della moneta senza più qualità.

Il fatto è che le condizioni di vita del genere umano si sono più che mai divise, lacerate, tra quanti – culture, ideologie, narrazioni, scienze, politiche, persino economie – stanno lanciando allarmi di ogni genere sulla sopravvivenza del pianeta (sul suo sfondamento di ogni sorta di linea di sicurezza per la vita dell’ambiente e delle persone che lo abitano, lo vivono) e – ecco il paradosso! – la vita quotidiana, ordinaria, dei sistemi sociali, delle loro forme di governo, delle loro politiche industriali e economiche, istituzionali, amministrative. Dei loro consumi, voluti o accidentali.

Da questo punto di vista drammaticamente pervasivo, ci sarebbe bisogno di uno sforzo sovrumano di allargamento dei nostri vecchi orizzonti. Tuttavia, di fronte alla continua accelerazione degli eventi, si ha la sensazione che non ci sia più tempo. Ma proprio questa sensazione può aprire le porte, quanto meno tentativamente, a un tempo del “frattempo”: un “frattempo” di luoghi di vocazione personale che si faccia infine “tempo”, avendola vinta – sia pure in tempi lunghi – su quello precedente.

Un modello di socializzazione che, annidandosi in quello dominante, tuttavia se ne separi, lo ripensi, lo trasformi, mentalmente ed emotivamente, per contagio e simpatia tra persona e persona, conferendo alla “persona” una esile, ma concreta capacità di incidere sul proprio e sull’altrui destino.

(gv)

Related Posts
Total
0
Share