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La ricerca di forme di vita extraterrestri non ha sinora fornito risultati probanti, ma l’ipotesi di essere soli nelle galassie deve renderci più responsabili.

di Nick Bostrom

Nel 2004, fece molto scalpore la notizia che Opportunity, il veicolo telecomandato della NASA, aveva scoperto su Marte le prove di una presenza dell’acqua in tempi remoti. Dove c’è l’acqua in genere si trova anche la vita. Dopo oltre 40 anni di esplorazioni umane, culminate nell’attuale missione Mars Exploration Rover, gli scienziati stanno pianificando nuove spedizioni per studiare il pianeta. L’atterraggio sul gelido versante artico di Marte di Phoenix, la sonda ideata da un consorzio scientifico affidato alla guida del Lunar and Planetary Laboratory dell’Università dell’Arizona, è previsto a giorni; il suo compito sarà quello di raccogliere suolo e ghiaccio che potrebbero ospitare forme di vita microbiche (si veda Missione su Marte, in “Technology Review”, edizione italiana, n. 1/2008 e su TechnologyReview.com). Per il prossimo decennio si annuncia la missione Mars Sample Return, che dovrebbe fare uso di sistemi robotici per raccogliere campioni di rocce, terreno e atmosfera di Marte per riportarli sulla Terra. Si potranno finalmente analizzare i campioni per stabilire se contengano una qualsiasi traccia di vita, ormai estinta o ancora attiva.

Una simile scoperta avrebbe un impatto scientifico enorme. Cosa potrebbe essere più sconvolgente della scoperta di forme di vita che si sono evolute in modo del tutto indipendente dalla nostra? Molte persone sarebbero inoltre sollevate dall’apprendere che non siamo completamente soli in questo vasto e freddo cosmo.

Ma io spero che le sonde su Marte non trovino nulla. Sarebbe un’ottima notizia se si scoprisse che il pianeta rosso è completamente sterile; niente altro che rocce morte e sabbia inerte. Musica per le mie orecchie.

Al contrario, se risultassero tracce di qualche semplice forma di vita estinta – batteri o alghe, per esempio – si tratterebbe di cattive notizie. Se poi si scoprissero fossili o qualcosa di più avanzato, come i resti di un trilobite o addirittura lo scheletro di un piccolo mammifero, saremmo di fronte a pessime notizie. Più è complessa la forma di vita che troviamo, più deprimente sarebbe la notizia. Non voglio negare che susciterebbe in me grande interesse, ma temo che sarebbe di cattivo auspicio per il futuro della razza umana.

Come sono arrivato a questa amara conclusione? A partire dalla riflessione su un fatto ben conosciuto. Fatta eccezione per i cultori degli UFO, come i seguaci del culto Raeliano, o per coloro che dicono di aver avvistato se non addirittura di essere stati rapiti da alieni, gli uomini non hanno finora visto alcun segno dell’esistenza di una civiltà extraterrestre. Non abbiamo ricevuto visite dallo spazio, né i nostri radiotelescopi hanno rivelato segnali trasmessi da altre civiltà. Il SETI (Search for Extra-Terrestrial Intelligence), un progetto per la ricerca di intelligenza extraterrestre, va avanti da circa 50 anni utilizzando telescopi sempre più potenti e tecnologie per la ricerca dei dati; finora non ha potuto fare altro che confermare l’ipotesi negativa. Per quanto ne sappiamo, la notte stellare è un guscio vuoto e silenzioso. La domanda “Dove sono loro?” è quindi pertinente oggi almeno quanto venne posta nel 1950 dal fisico Enrico Fermi durante una discussione con alcuni colleghi del Los Alamos National Laboratory.

Vorrei aggiungere ancora un altro fatto: l’universo osservabile contiene 100 miliardi di galassie e, almeno nella nostra galassia, ci sono 100 miliardi di stelle. Negli ultimi 20 anni abbiamo appreso che molte di queste stelle hanno pianeti che orbitano loro intorno; a oggi, sono state scoperte diverse centinaia di questi esopianeti. Molti sono giganteschi, perché non è facile rivelare gli esopianeti più piccoli con i metodi attuali (nella maggior parte dei casi non è possibile osservare direttamente i pianeti. La loro esistenza viene desunta dal loro influsso gravitazionale sulle loro stelle madri, che oscillano leggermente se attirate nelle orbite dei grandi pianeti, o da modeste fluttuazioni nella luminosità quando i pianeti oscurano parzialmente le loro stelle). Abbiamo seri motivi per credere che l’universo osservabile contenga un numero elevato di sistemi solari, tra cui molti con pianeti simili alla Terra, almeno nel senso di possedere masse e temperature vicine a quelle del nostro globo. Sappiamo anche che gran parte di questi sistemi solari sono più antichi del nostro.

Da queste due premesse si desume che il percorso evolutivo verso forme di vita in grado di colonizzare lo spazio indirizzi all’ipotesi di un “Grande Filtro”, che potrebbe essere interpretato come un confine di probabilità (il termine è stato usato da Robert Hanson, un economista della George Mason University). Il filtro consiste di uno o più passaggi o transizioni evolutivi da superare prima che un pianeta simile alla Terra possa esprimere una civiltà capace di esplorare sistemi solari remoti. Il punto è che si parte con la possibilità di miliardi e miliardi di punti di germinazione della vita e che si finisce con l’assenza totale di civiltà extraterrestri osservabili. Il Grande Filtro deve quindi essere sufficientemente potente – vale a dire che oltrepassare i punti critici deve essere sufficientemente improbabile – che persino con miliardi di tentativi casuali non si arriva a nulla: né alieni, né astronavi, né segnali. O perlomeno niente di visibile nei nostri paraggi.

In ogni caso, dove si può collocare questo Grande Filtro? Esistono due possibilità: può essere alle nostre spalle, da qualche parte del passato; o può trovarsi davanti a noi, da qualche parte nei decenni, secoli o millenni a venire. Consideriamo entrambe le possibilità.

Se il filtro è nel nostro passato , si deve essere verificato qualche passaggio altamente improbabile nella sequenza di eventi in base ai quali un pianeta simile alla Terra ha dato vita a una specie intelligente comparabile per la sua tecnologia avanzata alla civiltà umana contemporanea. Alcuni assumono come un dato di fatto scontato l’evoluzione di una forma di vita intelligente sulla Terra: un processo lungo, senza dubbio; complesso, sicuramente; tuttavia inevitabile o quasi. Ma questa visione potrebbe rivelarsi completamente errata. Le prove a suo sostegno non possono dirsi evidenti. La biologia evolutiva, ancor oggi, non permette di calcolare a partire dai principi primi quanto probabile o improbabile fosse l’emergere di una vita intelligente sulla Terra. Inoltre, se si guarda indietro alla nostra storia evolutiva, si possono rintracciare una serie di transizioni ognuna delle quali potrebbe essere compatibile con il Grande Filtro.

Per esempio, appare molto difficile che anche organismi, per quanto semplici, autoreplicanti emergano su pianeti simili alla Terra. I tentativi di creare la vita in laboratorio mescolando acqua con i gas che si presumono fossero presenti nell’atmosfera primordiale terrestre non sono mai riusciti ad andare oltre la sintesi di qualche semplice amminoacido. Nessun caso di abiogenesi (la generazione spontanea della vita dalla non vita) si è mai osservato.

I microfossili documentati più antichi risalgono approssimativamente a 3,5 miliardi di anni fa e alcuni indicatori suggeriscono l’ipotesi che la vita potrebbe essere comparsa centinaia di milioni di anni prima; ma non si sono trovati indizi di forme di vita precedenti a 3,8 miliardi di anni fa. La vita potrebbe essere presente da molto prima e non aver lasciato tracce visibili: ci sono poche formazioni rocciose che hanno mantenuto la loro configurazione originale nel corso dei millenni. Tuttavia, diverse centinaia di milioni di anni trascorsero tra la formazione della Terra e la comparsa delle prime forme di vita conosciute. I dati convergono quindi con l’ipotesi che l’apparizione della vita abbia richiesto una serie estremamente improbabile di coincidenze, milioni di anni di prove ed errori, di molecole e strutture superficiali che interagissero casualmente, prima che qualcosa in grado di autoriprodursi facesse la sua comparsa per un colpo di fortuna di dimensioni astronomiche. Per quanto ne sappiamo, questo primo passo critico potrebbe essere il Grande Filtro.

Stabilire con esattezza la probabilità di un qualsiasi sviluppo evolutivo passato è difficile, perché non possiamo ricostruire molti aspetti della storia della vita sulla Terra. Ciò che possiamo fare, invece, è cercare di identificare i passaggi evolutivi che hanno le carte in regola per diventare un Grande Filtro (passaggi che sono allo stesso tempo estremamente improbabili e concretamente necessari per la comparsa di una civiltà tecnologicamente avanzata). Il primo criterio per ogni possibile candidato è che si sia verificato una sola volta. Volo, vista, fotosintesi e deambulazione hanno subito varie evoluzioni sulla Terra e sono quindi da scartare. Un altro indizio che un passaggio evolutivo sia stato molto improbabile è il lunghissimo tempo necessario al suo compimento anche dopo che i prerequisiti sono stati già sviluppati. Il grande ritardo significa che sono accadute una serie ininterrotta di ricombinazioni casuali prima che una effettivamente funzionasse. Forse diverse mutazioni improbabili devono intervenire tutte insieme per determinare una svolta e mutazioni che singolarmente sono dannose potrebbero rivelarsi positive qualora subentrino contemporaneamente (l’evoluzione dell’ Homo Sapiens dai nostri antenati ominidi recenti, come l’Homo erectus, è avvenuta piuttosto rapidamente nella cronologia geologica; pertanto questi passaggi sono candidati piuttosto deboli per il ruolo di Grande Filtro).

La prima comparsa della vita dovrebbe soddisfare questi due criteri. Per quanto ne sappiamo, la vita è sopraggiunta una sola volta e potrebbe essere arrivata dopo centinaia di milioni d’anni, anche dopo che il pianeta si era raffreddato abbastanza per permettere a una lunga serie di molecole organiche di rimanere stabili. La storia evolutiva successiva offre nuovi potenziali Grandi Filtri. Per esempio, ci vollero 1 miliardo e 800 di anni per far evolvere i procarioti (il tipo più diffuso di organismi monocellulari) in aucarioti (un tipo di cellula più complessa con un nucleo racchiuso da una membrana). Si tratta di un tempo molto lungo, il che rende questa transizione un eccellente candidato. Altre proposte tirano in ballo la comparsa degli organismi multicellulari e lo sviluppo della riproduzione sessuale.

Se il Grande Filtro è realmente alle nostre spalle, il che significa che la nascita di forme di vita intelligente su qualsiasi altro pianeta è decisamente improbabile, ne consegue che siamo probabilmente la sola civiltà tecnologicamente avanzata della nostra galassia o addirittura dell’intero universo osservabile (il cosmo visibile contiene approssimativamente 1022 stelle. L’universo potrebbe estendersi infinitamente oltre la parte da noi osservabile e contenere un numero infinito di stelle. Se è così, si può virtualmente sostenere che esistano una quantità infinita di specie extraterrestri intelligenti, al di là delle scarsissime probabilità di sviluppo evolutivo su un qualsiasi pianeta. Del resto, la teoria cosmologica implica che, dal momento che l’universo è in continua espansione, tutte le creature viventi al di fuori dell’universo osservabile sono e rimarranno sempre inesorabilmente scollegate da noi: non possono visitarci, né comunicare, né farsi vedere da noi e dai nostri discendenti).

L’altra possibilità è che il Grande Filtro sia ancora al di là da venire. Ciò significherebbe che qualche grande imprevisto impedisce a tutte le civiltà che hanno raggiunto il nostro stadio di sviluppo tecnologico di progredire fino a intraprendere iniziative di colonizzazione spaziale su larga scala. Per esempio, potrebbe accadere che qualsiasi civiltà sufficientemente avanzata scopra alcune tecnologie – qualche arma estremamente potente – che finiscano per causarne l’estinzione.

Ritornerò brevemente su questo scenario, ma vorrei prima dire qualcosa su un’altra possibilità teorica: che gli extraterrestri siano intorno a noi in gran numero, ma nascosti ai nostri occhi. Credo che sia un’ipotesi francamente inverosimile, perché se gli extraterrestri fossero così numerosi almeno una specie si sarebbe già espansa per la galassia, se non addirittura oltre. La realtà è che non ne abbiamo incontrato nemmeno uno.

Sono stati proposti diversi schemi di colonizzazione dello spazio da parte di una specie intelligente. Potrebbero inviare astronavi con “equipaggio”, per fondare colonie e rendere idonei alle loro forme di vita nuovi pianeti, cominciando da mondi nei loro sistemi solari prima di avventurarsi per destinazioni più lontane. Ma, molto più probabilmente, almeno dal mio punto di vista, la colonizzazione avverrà con strumenti come le sonde di von Neymann, che prendono il loro nome dal genio ungherese John von Neumann, tra le cui numerose innovazioni in campo matematico e scientifico va annoverata l’introduzione del concetto di “costruttore universale”, vale a dire una macchina autoreplicante. La sonda di von Neumann è una sonda replicante senza equipaggio, controllata da un’intelligenza artificiale e capace di compiere viaggi interstellari. Una volta atterrata su un pianeta (o un satellite o un asteroide), scaverebbe alla ricerca di materie prime con cui ricreare copie di se stessa, magari utilizzando forme avanzate di nanotecnologie. Nell’ipotesi avanzata da Frank Tipler nel 1981, le copie sarebbero lanciate in diverse direzioni, mettendo in moto varie ondate di colonizzazione. La nostra galassia è vasta 100.000 anni luce. Se una sonda fosse capace di viaggiare a un decimo della velocità della luce, tutti i pianeti della galassia potrebbero essere colonizzati nell’arco di un paio di milioni d’anni (concedendo a ogni sonda sul luogo di atterraggio un po’ di tempo per organizzare l’infrastruttura necessaria e produrre le sonde figlie). Se la velocità di viaggio si limitasse all’un per cento della velocità della luce, la colonizzazione richiederebbe almeno 20 milioni d’anni. I numeri esatti non hanno grande importanza, perché la scala temporale è comunque ridotta rispetto ai tempi astronomici dell’evoluzione di forme di vita intelligenti.

La costruzione di una sonda di von Neumann è un’impresa difficile, ma non è qualcosa su cui dobbiamo lavorare da oggi. Piuttosto, è un’innovazione che si potrà introdurre con l’ausilio di qualche tecnologia futura estremamente avanzata. Anche se impiegheremo secoli o addirittura millenni a costruire sonde di von Neumann, si tratterà comunque di un battito di ciglia rispetto all’aspettativa di vita di un pianeta. Considerando che i viaggi spaziali erano materiale da fantascienza solo mezzo secolo fa, credo che dovremmo essere cauti nel definire qualcosa come tecnologicamente impraticabile per sempre, a meno che non esistano delle gravi limitazioni di carattere fisico. Le nostre prime astronavi spaziali sono da tempo in volo: Voyager I, per esempio, è ora ai confini del nostro sistema solare.

Rimane comunque in piedi l’ipotesi che una civiltà tecnologicamente avanzata in grado di espandersi in una galassia in un arco temporale abbastanza breve non sia effettivamente disposta a intraprendere questo tipo di iniziativa e che preferirebbe invece rimanere tranquillamente entro i proprio confini e vivere in armonia con la natura. Ma una serie di considerazioni rendono una spiegazione simile assai poco plausibile. Innanzitutto, è evidente nel caso della Terra che tutte le forme di vita manifestano una decisa tendenza a diffondersi dovunque sia possibile; hanno popolato ogni luogo che le possa ospitare: est, ovest, nord e sud; terra, acqua e aria; deserto, tropici e ghiaccio artico; rocce sotterranee, bocche idrotermali, depositi di rifiuti radioattivi; ci sono persino esseri viventi all’interno dei corpi di altri esseri viventi. Questa considerazione empirica è perfettamente in linea con quanto ci si potrebbe aspettare sulla base della teoria fondamentale dell’evoluzione. In secondo luogo, se consideriamo nello specifico la nostra specie, vediamo che si è diffusa in ogni parte del pianeta e ha anche stabilito una sua presenza nello spazio, con investimenti enormi, come la Stazione Spaziale Internazionale. In terzo luogo, se una civiltà avanzata dispone di una tecnologia relativamente economica per andare nello spazio, ha una ragione abbastanza ovvia per farlo: là fuori si trova la maggior parte delle risorse. Terra, minerali, energia abbondano, mentre prima o poi sono destinate a scarseggiare su qualsiasi pianeta di partenza. Queste risorse potrebbero essere usate per soddisfare i fabbisogni di una popolazione in crescita e costruire giganteschi tempi o supercomputer o qualsiasi struttura che possa avere valore per una società. In quarto luogo, anche se le civiltà più avanzate scegliessero di intraprendere per sempre una politica non espansionista, non farebbe alcuna differenza dal momento in cui un’altra civiltà decidesse di lanciare un’opera di colonizzazione; questa civiltà più aggressiva riempirebbe la galassia con sonde, colonie e discendenti. Basta un solo fiammifero per far scoppiare un incendio, e solo un popolo per colonizzare l’universo.

Per tutti questi motivi, sembra improbabile che nella galassia siano presenti esseri intelligenti che abbiano scelto volontariamente di rimanere confinati nel proprio pianeta d’origine. In effetti, si possono anche ipotizzare scenari in cui l’universo pullula di civiltà avanzate ognuna delle quali scelga di non farsi vedere da noi. Magari esiste una setta segreta di civiltà avanzate cha sa tutto di noi, ma ha deciso di non stabilire alcun contatto finché non saremo abbastanza maturi per entrare a fare parte della loro associazione. Forse ci osservano come se fossimo animali di uno zoo. Non vedo come potremmo scartare una possibilità simile. Ma credo sia meglio concentrarsi su quelle che mi appaiono le risposte più plausibili all’interrogativo di Fermi.

Un’ipotesi ancora più sconcertante è che il Grande Filtro consista in alcune tendenze distruttive connaturate a tutte le civiltà ad alto sviluppo tecnologico. Nel corso della storia, le grandi civiltà che si sono succedute sul nostro pianeta sono implose: dall’impero romano alla civiltà maya nell’America centrale e a molte altre. Tuttavia, un collasso sociale che si limita a ritardare la possibile comparsa di una civiltà colonizzatrice dello spazio di qualche centinaia o migliaia di anni non spiega perché non sia mai avvenuta la colonizzazione da parte di una civiltà di un altro pianeta. Un migliaio di anni sono un’eternità per un singolo individuo, ma in questo contesto sono una bazzecola. Esistono probabilmente pianeti che sono miliardi di anni più vecchi della Terra. Qualsiasi specie intelligente su questi pianeti avrebbe avuto tutto il tempo necessario per riprendersi da ripetute catastrofi ecologiche o sociali. Anche se avesse subito migliaia di insuccessi prima di ottenere il suo scopo, sarebbe arrivata sul nostro pianeta milioni di anni fa.

Il Grande Filtro deve quindi essere qualcosa di molto più drammatico di un semplice collasso sociale: un cataclisma globale, una catastrofe ecologica che rischia di annientare la vita intelligente o di limitarne drasticamente o permanentemente il suo potenziale di sviluppo futuro. Nel nostro caso, i rischi potenziali sono numerosi: un conflitto nucleare combattuto con armi molto più potenti di quelle attuali (forse il prodotto di future corse agli armamenti); un superbatterio geneticamente modificato; un disastro ambientale; un impatto con un asteroide; guerre o atti terroristici condotti con armi tecnologicamente avanzate; una superintelligenza artificiale con intenti distruttivi; esperimenti di fisica ad alta energia. Si tratta solo di alcuni dei rischi paventati e, considerando che molti di questi sono diventati reali sono negli ultimi decenni, si può desumere l’esistenza di pericoli altrettanto seri che ancora non abbiamo preso in considerazione. La valutazione dei rischi per il futuro della nostra esistenza è un settore di ricerca estremamente importante, anche se in buona parte sottovalutato. Ma perché un rischio per l’esistenza costituisca un Grande Filtro plausibile deve minacciare le fondamenta stesse di una civiltà avanzata. I disastri naturali come gli impatti di asteroidi e le distruttive eruzioni dei supervulcani, per esempio, non sono sufficientemente credibili nel ruolo di Grande Filtro, in quanto anche qualora riuscissero ad annientare un numero significativo di popolazioni, ci sarebbe sempre qualcuno in grado di sfuggire al pericolo e che potrebbe continuare a colonizzare il cosmo. Forse i rischi per l’esistenza più adeguati ad assumere il ruolo di Grande Filtro sono quelli legati alle scoperte tecnologiche. Non è azzardato immaginare che una qualsiasi civiltà avanzata possa imbattersi virtualmente nella scoperta di una tecnologia distruttiva, che quasi inevitabilmente la condurrebbe al disastro.?Ma allora dov’è questo Grande Filtro? Alle nostre spalle o nel nostro futuro? Se è nel nostro futuro, dobbiamo ancora confrontarci con esso. Se è vero che quasi tutte le specie intelligente sono condannate a estinguersi prima di riuscire a padroneggiare la tecnologia per la colonizzazione spaziale, allora dobbiamo aspettarci che anche la nostra specie vada incontro allo stesso destino, perché non abbiamo alcuna ragione di ritenerci più fortunati di altri. Se il Grande Filtro è nel nostro futuro, dobbiamo abbandonare ogni speranza di colonizzare la galassia, e trovare delle contromisure prima che la nostra avventura finisca presto, o comunque prematuramente. Meglio quindi sperare che il Grande Filtro sia ormai alle nostre spalle.?Che rapporto esiste tra queste riflessioni e la scoperta della vita su Marte? In effetti, se su Marte (o su qualsiasi altro pianeta del nostro sistema solare) la vita si è evoluta in maniera autonoma vorrebbe dire che la sua comparsa non è un evento improbabile. E se è successo due volte distinte solo nel nostro sistema solare, sicuramente si sarà ripetuto milioni di altre volte in tutta la galassia. In questo caso sarebbe assai poco probabile che il Grande Filtro si sia manifestato nei primi stadi di sviluppo di un pianeta, e quindi dovremmo aspettarcelo con ogni probabilità nel nostro futuro.?Se scoprissimo alcune forme elementari di vita su Marte, nel suolo o al di sotto dei ghiacci delle sue calotte polari, ciò dimostrerebbe che il Grande Filtro è un evento che giunge dopo quella fase dell’evoluzione. Non sarebbe confortante, ma nessuno ci vieterebbe di continuare a collocarlo nel nostro passato. Se scoprissimo delle forme di vita più evolute, per esempio alcuni tipi di organismi multicellulari, una nuova fetta di transizioni evolutive verrebbe esclusa dall’intervento nel passato del Grande Filtro. Per non parlare dell’eventualità in cui dovessero essere ritrovati fossili di forme di vita ancora più complesse, per esempio dei simil-vertebrati. Sarebbe la peggior notizia di tutti i tempi. Eppure molti, leggendola, ne sarebbero elettrizzati, perché non ne afferrerebbero le implicazioni. Se il Grande Filtro non è alle nostre spalle, è nel nostro futuro. La prospettiva è senza alcun dubbio terrificante. Ecco perché spero che le nostre sonde trovino solo rocce morte e sabbie inerti su Marte, su Europa, la luna di Giove, e ovunque gli astronomi si mettano a cercare. Solo in tal modo si terrebbe viva la speranza in un grande futuro dell’umanità.

Certamente, sarebbe un caso a dir poco sorprendente se la Terra fosse l’unico pianeta della galassia su cui si è evoluta una forma di vita intelligente. In effetti, se questo evento è accaduto sul nostro pianeta, l’unico pianeta che abbiamo avuto modo di studiare accuratamente, è lecito attendersi che lo stesso processo si sia verificato in numerosi altri pianeti della galassia, che non sono stati ancora esplorati. Una simile ipotesi si basa, però, su un presupposto errato, in quanto sottovaluta il cosiddetto “effetto selettivo dell’osservazione”. A prescindere dal fatto che forme di vita intelligenti siano comuni o rare, ogni osservatore può fare questa affermazione perché si trova nel luogo dove la vita si è manifestata. Poiché solo gli eventi che hanno avuto buon esito creano osservatori che si pongono domande sul loro significato, sarebbe un errore considerare il nostro pianeta come un campione casuale di tutti i pianeti (appare più corretto guardare al nostro pianeta come a un campione casuale della sottoclasse di pianeti su cui sono comparse forme di vita intelligenti, trattandosi di una cruda formulazione di una delle idee più ragionevoli deducibili dal variegato materiale riconducibile al “principio antropico”).

Vale comunque la pena di spendere ancora qualche parola sull’argomento, che spesso suscita una considerevole confusione. Da una parte si sostiene che l’evoluzione della vita intelligente è un processo del tutto lineare che si verifica su una frazione significativa di pianeti che presentano caratteristiche idonee. Dall’altra parte si dice che l’evoluzione della vita intelligente è estremamente complessa e compare forse su uno solo dei milioni di miliardi di pianeti esistenti. Per valutare la loro plausibilità alla luce delle nostre conoscenze, ci si deve chiedere: “Cosa si deve osservare per confermare queste ipotesi?” A una riflessione attenta, si può vedere che entrambe le ipotesi prevedono esplicitamente l’osservazione che una civiltà si origina nei luoghi dove si sono evolute forme di vita intelligente. Tutti gli osservatori condivideranno questa considerazione, a prescindere dal fatto che l’evoluzione della vita intelligente sia avvenuta su una frazione piccola o grande di tutti i pianeti. L’effetto selettivo dell’osservazione assicura che qualsiasi pianeta noi definiamo “nostro” sia stato una storia andata a buon fine. E anche se il numero complessivo dei pianeti nell’universo è grande abbastanza per compensare le scarse probabilità di veder comparire su uno di loro forme di vita intelligenti, non è sorprendente che esistano poche storie di successo.

Se – come spero sia il caso – noi siamo l’unica specie intelligente che si è evoluta nella nostra galassia, e forse nell’intero universo visibile, non ne consegue l’automatica certezza della nostra sopravvivenza. Nulla nel precedente ragionamento preclude che ci siano passaggi del Grande Filtro nel passato e nel futuro della nostra specie. Potrebbe essere estremamente improbabile sia che la vita intelligente compaia su un qualsiasi pianeta, sia che la vita intelligente, una volta evoluta, riesca con successo a svilupparsi fino al punto da colonizzare lo spazio.

Ma avremmo qualche motivo in più per essere fiduciosi che il Grande Filtro sia già intervenuto in tutto o in gran parte nella nostra storia passata, se Marte risulterà un pianeta completamente sterile. In questo caso, potremmo avere una discreta possibilità di svilupparci ben oltre i confini attuali.

All’interno di un simile scenario, la storia intera dell’umanità fino a oggi non è altro che un battito di ciglia rispetto all’eternità che ancora si para innanzi a noi. Tutti i successi e i fallimenti di milioni di persone che si sono succedute sul nostro pianeta fin dall’antica civiltà mesopotamica rappresenterebbero niente altro che il doloroso momento del concepimento in una vita che deve ancora dispiegarsi. Appare quindi perlomeno ingenuo pensare che con le tecnologie innovative già a disposizione – genetica, nanotecnologia e altre – e con migliaia di millenni ancora avanti a noi durante i quali perfezionare e sfruttare queste tecnologie e quelle che verranno, la natura e le condizioni umane rimarranno inalterate. In realtà, se sopravviveremo e prospereremo, presumibilmente svilupperemo modelli di esistenza postumani.

Tutto ciò non significa che dovremmo rinunciare alle nostre spedizioni su Marte. Se il pianeta rosso ha mai ospitato qualche forma di vita, è giusto scoprirla. Si potrebbe trattare di brutte notizie, ma allo stesso tempo potrebbe aprirci gli occhi su una serie di tematiche fondamentali: il nostro posto nell’universo, le prospettive tecnologiche future, i rischi per la nostra sopravvivenza e le possibilità di trasformazione dell’uomo.