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È vicino il giorno in cui Emmett L. Brown potrà alimentare la sua DeLorean con quello che trova nel cassonetto dell’organico.

di Luca Longo

Alle ore 7 e 28 – ora della California – del 21 ottobre 2015, il dottor Emmett L. Brown ha collaudato con successo un nuovo motore a fusione. Questo motore, alimentato con la frazione umida dei rifiuti solidi urbani, ha generato energia sufficiente per attivare il flusso canalizzatore installato a bordo della sua DeLorean DMC-12 e gli ha materialmente permesso di viaggiare nel tempo.

In questi giorni, numerosi media hanno confrontato la realtà attuale con quella immaginata 30 anni prima da Robert Zemeckis, quando girò il primo episodio della celebre trilogia cinematografica “Back to the Future”.

Volendo confinare le nostre osservazioni alle sole innovazioni appena citate, dobbiamo ammettere che incontriamo ancora qualche difficoltà a controllare efficacemente una reazione di fusione nucleare e che rimangono ancora alcuni dettagli da chiarire in fatto di viaggi nel tempo… Ma non altrettanto si può dire delle automobili alimentate con gli scarti che si possono trovare abitualmente nel nostro cassonetto dell’umido.

Occorre fare un passo indietro, nel tempo e nello spazio. In tutto il mondo, l’impoverimento delle fonti non rinnovabili di energia, combinato con le problematiche ambientali connesse con lo sfruttamento dei combustibili fossili, sta promuovendo la ricerca di carburanti potenzialmente alternativi. Particolare attenzione viene riservata a quelli rinnovabili e sostenibili dal punto di vista ambientale.

Tra questi, i biocarburanti (*) liquidi sono potenziali sostituti dei combustibili fossili nel settore industriale, nei trasporti e nella generazione di calore ed elettricità. Infatti, sono facilmente stoccabili e possono essere trattati e distribuiti con le infrastrutture già esistenti.

Per quanto riguarda la loro produzione, i rifiuti solidi potrebbero costituire potenziali materie prime. Tra questi, i più promettenti dal punto di vista del contenuto energetico sono la frazione organica umida dei rifiuti solidi urbani, i residui dell’industria alimentare e i fanghi di depurazione prodotti da impianti di trattamento delle acque.

Questi materiali di scarto rinnovabili sono per lo più formati da biomassa umida altamente deperibile. Quindi possono essere causa di problemi ambientali in assenza di investimenti adeguati per il loro smaltimento o successivo trattamento. Dal punto di vista della sostenibilità, costituiscono un prodotto di scarto certamente non in concorrenza con la produzione agricola di cibo. Infine, questi rifiuti sono già concentrati e resi potenzialmente disponibili attraverso gli esistenti sistemi di raccolta dei rifiuti.

Ogni anno, il nostro Paese produce e raccoglie più di 32 milioni di tonnellate di rifiuti urbani; circa 4,8 milioni di tonnellate sono costituiti da “organico” ottenuto nella raccolta differenziata. Si prevede un graduale aumento della frazione organica dei rifiuti urbani con l’estensione e l’aumento dell’efficacia dei sistemi di raccolta differenziata.

Attualmente, la maggior parte di questa frazione viene mandata in discarica o, nel migliore dei casi, inviata a impianti di digestione anaerobica (per la produzione di biogas), compostata (per produrre fertilizzanti) o incenerita dopo essiccamento (per produrre energia).

Dal punto di vista di Eni, questa costituisce una biomassa da valorizzare per la produzione di energia rinnovabile.
In alternativa alla discarica, infatti, può essere trattata come materia prima per produrre bio-olio da impiegare direttamente come combustibile oppure per convertirla in biocarburanti da autotrazione.

Fino ad ora, uno dei problemi che hanno ostacolato il loro sfruttamento è costituito dall’alta percentuale di acqua (60-80%) che li caratterizza. I processi di sfruttamento tradizionali richiedono il trattamento del residuo secco per la produzione di energia, ma l’essicazione stessa comporta un consumo energetico tale da rendere questa classe di processi ben poco interessante dal punto di vista commerciale.

La reazione termochimica che Eni ha scelto per trasformare la biomassa in bio-olio è la termoliquefazione. Questa avviene riscaldando la biomassa in presenza della sua stessa fase liquida e permette di concentrare nel bio-olio ottenuto il contenuto di carbonio presente nella biomassa di partenza senza necessità di essicazione.

Il Centro Ricerche Eni per le Energie Rinnovabili e l’Ambiente di Novara studia e sviluppa tecnologie che producano vettori energetici rinnovabili dai rifiuti. Qui nel 2011 è stato identificato un processo di liquefazione dei rifiuti che è stato integrato dalla raffinazione del bio-olio prodotto in biocarburanti e dalla purificazione della fase acquosa residua grazie alla fermentazione con microorganismi.

A Novara, Eni sta ottimizzando i parametri di processo in un impianto pilota dove la Frazione Organica dei Rifiuti Solidi Urbani (FORSU) è omogeneizzata e immessa in un reattore di termoliquefazione, dove viene trattata termicamente a 240-310°C alla pressione di 40-100 bar per 1-2 ore.

Dopo la purificazione dei prodotti, il bio-olio ottenuto, che contiene carbonio per circa il 70-75% del suo peso, è utilizzato direttamente come olio combustibile (per esempio per la produzione di elettricità) oppure è trasformato in benzina e diesel per autotrazione, ovvero in biocarburanti, mediante un trattamento di raffinazione o upgrading. I prodotti finali hanno le caratteristiche adatte – sia dal punto di vista delle prestazioni motoristiche, sia da quello delle emissioni di CO2 – per essere utilizzati direttamente dalle automobili.

La fase acquosa ottenuta dalla liquefazione, che contiene ancora una quota significativa di sostanze organiche non facilmente gestibile in un normale impianto di trattamento delle acque, può subire un ulteriore passaggio di fermentazione con microorganismi. Ciò consente di diminuire il contenuto di materiale organico disciolto nelle acque – con minori problemi nel trattamento a valle – e di produrre una quota aggiuntiva di biomassa da riciclare nella sezione di termoliquefazione, con il conseguente aumento della resa in bio-olio.

I principali vantaggi di questa tecnologia sono:

• il processo utilizza una materia prima per la quale esiste già un collaudato sistema di raccolta e offre una soluzione alternativa alla gestione dei rifiuti/fanghi delle aree urbane rispettando l’ambiente;
• valorizzando rifiuti e scarti, la tecnologia non è in competizione con la produzione agricola, ma la completa, offrendo una via sostenibile alla gestione degli scarti di lavorazione;
• la biomassa umida è trattata così come si trova, evitando i costi di essiccamento;
• il processo usa condizioni più blande (250-310 °C) rispetto ad altri processi di conversione, come la pirolisi (400-500 °C) o la gassificazione (800-1000 °C);
• il bio-olio prodotto ha un elevato contenuto di carbonio (70-75% in peso) e un elevato potere calorifico (circa 35 MJ/kg rispetto ai 40 MJ/kg caratteristici dell’olio fossile);
• il processo recupera il 30% della sostanza secca d’origine, ma ha una resa energetica quasi doppia (arriva all’80%) rispetto alla valorizzazione dei rifiuti in bio-gas (ovvero la trasformazione dei rifiuti in gas da bruciare; caratterizzata da una resa che non supera il 40%);
• in relazione agli obblighi nazionali per le energie rinnovabili imposte agli operatori, la tecnologia produce biofuel con valore doppio rispetto ad altri biocarburanti.

(*) I biocarburanti sono prodotti di origine biologica che sostituiscono e/o integrano la benzina e il gasolio prodotti dalle tradizionali fonti fossili (petrolio); sono utilizzati per l’autotrazione, la navigazione e il trasporto aereo. La progressiva sostituzione dei carburanti tradizionali con i biocarburanti è prevista e favorita da impegni internazionali (protocollo di Kyoto e Direttive della Comunità Europea) e dalla legislazione italiana. Ad oggi (Direttiva 2009/28/CE), l’obiettivo sul consumo complessivo della Comunità entro il 2020 è la sostituzione del 20% dei carburanti di origine fossile con biocarburanti da fonti rinnovabili.