Il mistero dei metalli di transizione

Un gruppo di ricerca internazionale svela in che modo un gruppo di ossidi metallici chiave per la prossima generazione di batterie agli ioni di litio riesce ad immagazzinare più energia di quanto si credeva possibile.

di Lisa Ovi

Lo sviluppo di batterie con una maggiore capacità e longevità è fondamentale per l’introduzione di automobili elettriche, smartphone e prodotti elettronici più economici e dall’autonomia più elevata, ma non solo. L’ostacolo principale ad un passaggio alle energie rinnovabili è la difficoltà di immagazzinare l’energia prodotta da fonti incostanti come il solare o l’eolico per garantirne una distribuzione uniforme.

Da quasi due decenni un gruppo di ossidi metallici si presenta come la potenziale chiave per lo sviluppo una nuova generazione di batterie agli ioni di litio in virtù della loro inspiegabile capacità di accumulo di energia, di molto superiore a quanto ritenuto possibile. Ora, un gruppo di ricerca internazionale, co-diretto dalla University of Texas at Austin, ha decifrato il codice di questa anomalia scientifica, aprendo la porta ad un significativo passo avanti verso la realizzazione di sistemi di accumulo di energia costituito da batterie ultraveloci. I risultati dello studio sono stati pubblicati da Nature Materials.

Protagonisti dello studio sono gli ossidi dei metalli di transizione, composti che vedono molecole di ossigeno legate a metalli di transizione come ferro, nichel e zinco. L’energia può essere immagazzinata all’interno degli ossidi di metallo, a differenza dei metodi tipici che vedono gli ioni di litio entrare e uscire da questi materiali o convertire le loro strutture cristalline per l’accumulo di energia. I ricercatori hanno dimostrato in che modo la capacità di carica aggiuntiva può essere immagazzinata anche sulla superficie delle nanoparticelle di ferro formate durante una serie di processi elettrochimici convenzionali.

Uno dei leader del progetto è Guihua Yu, professore associato presso il Dipartimento di ingegneria meccanica Walker della Cockrell School of Engineering. Yu descrive lo studio condotto come una delle primissime prove sperimentali condotte per dimostrare come la carica aggiuntiva sia immagazzinata fisicamente all’interno di questi materiali. L’esperimento è stato condotto monitorando e misurando le alterazioni degli elementi nel tempo. Hanno partecipato al progetto ricercatori della UT, del Massachusetts Institute of Technology, dell’Università di Waterloo in Canada, dell’Università cinese di Shandong, dell’Università di Qingdao in Cina e dell’Accademia Cinese delle Scienze.

La tecnica chiave impiegata in questo studio, denominata in situ magnetometry, è un metodo di monitoraggio magnetico in tempo reale che studia l’evoluzione della struttura elettronica interna di un materiale. È in grado di quantificare la capacità di carica misurando le variazioni di magnetismo. Questa tecnica può essere utilizzata per studiare l’accumulo di carica su scala molto piccola che va oltre le capacità di molti strumenti di caratterizzazione convenzionali.

I metalli di transizione dotati di un eccezionale potenziale di immagazzinamento dell’energia sono molti, accomunati dalla capacità di raccogliere un’alta densità di elettroni. Ad oggi, la scienza ha più domande che risposte sulle loro qualità, ma per quanto i ricercatori non siano pronti a farne uso in prodotti veri e propri, la nuova scoperta rappresenta un passo avanti verso la realizzazione delle centrali di stoccaggio dell’energia fondamentali alla transizione energetica.

Immagine: Stoccaggio dell’energia, UniEnergy Technologies

(lo)

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