Il futuro del libro

Jason Epstein ha lavorato nell’industria dell’editoria per oltre 40 anni. è stato direttore editoriale di Random House e ha fondato Anchor Books, la «New York Review of Books», la Library of America e il Readers Catalog.
Ormai in pensione, Epstein si dedica allo sviluppo dell’editoria digitale, sulla falsa riga della digitalizzazione dell’industria musicale.

di Jason Epstein

Jason Epstein vuole una macchina che possa stampare tutti i libri esistenti.Sono diventato un editore per caso. Quando entrai al Columbia College nel 1945, avevo solo 17 anni, ma mi ritrovai circondato da veterani che ne avevano più di 20, molti ancora con le loro divise da aviatori e marinai, alcuni sposati, altri con figli. La maggior parte aveva fretta di intraprendere una carriera e dare un senso concreto alla loro vita. Una piccola parte, tuttavia, era costituita di studiosi in erba e le loro erudite dissertazioni su Marvell e Donne, Pascal e Voltaire, James e Proust, Joyce ed Eliot esercitavano su di me un’attrazione sconfinata. Con alcuni dei miei compagni di corso più grandi coltivai un’intensa amicizia. Per quattro anni ci frequentammo con continuità; io ero il principale beneficiario di questo stretto legame perché le mie conoscenze erano limitate e la loro vicinanza mi permise di sviluppare i rudimenti della futura educazione. Il lavoro non rientrava nei miei pensieri, né accarezzavo l’idea di una carriera nel mondo aziendale, meno che mai nell’industria editoriale. Finchè non accadde che i miei amici, grazie al GI Bill, si ritrovarono a far parte di un grande mercato, fino allora inesplorato, di libri importanti; si trattava di un nuovo fenomeno nella vita culturale e commerciale degli Stati Uniti.

Nel settembre del 1950, dopo aver perso un anno all’università, mi misi in proprio finanziariamente. Per elaborare una strategia migliore e con solo una vaga idea di cosa un editore facesse realmente (avevo da poco visto un film intitolato The Scoundrel, con Noel Coward, sul fallimento di un affascinante, ma dissoluto editore), mi rivolsi al programma di formazione di Doubleday, che prometteva di creare i futuri editori attraverso un meccanismo di rotazione tra i vari dipartimenti della casa editrice. Anche se il responsabile del personale di Doubleday insisteva nel dire che non ero adatto per il programma, il redattore capo dell’azienda, Ken McCormick, mi volle con loro.

In quel periodo, l’editoria dei paperback era un ramo della distribuzione dei periodici. Ogni mese un pacco di romanzi popolari in edizione economica, dal costo di 25 centesimi l’uno, veniva consegnato insieme con le riviste mensili agli empori e alle edicole. I paperback invenduti del mese precedente erano raccolti, mandati al macero per rinascere come pulp fiction del mese successivo. Mi trovavo a Doubleday da sei mesi, un periodo sufficiente per capire come funzionava il settore commerciale, quando prospettai a Ken l’ipotesi di un nuovo tipo di paperback. Un pomeriggio di febbraio, mentre passeggiavamo per Central Park, gli chiesi perché non vendevamo i paperback nelle librerie invece che nelle edicole. Avremmo potuto pubblicare quei libri seri che io e i miei amici leggevamo al Columbia College, ma che erano disponibili solo in edizione rilegata e a costi proibitivi. Questi paperback, continuai a dire, avrebbero potuto essere più cari e di qualità migliori dei romanzi popolari stampati su carta scadente: avremmo raggiunto il pareggio con sole 20.000 copie invece di 100.000. Non avrebbe avuto più senso vendere 20 copie di L’urlo e il furore a un dollaro che un libro rilegato a 10 dollari?

Ciò che proponevo era un programma di sviluppo dei paperback che avrebbe allargato il mercato per le backlist dell’editore, vale a dire i titoli pubblicati anno dopo anno e che complessivamente raccontano tutto quello che pensiamo di sapere su noi stessi e il mondo. Negli anni 1950 le backlist erano la linfa vitale dell’editoria: i libri avevano recuperato i loro costi e le loro vendite garantivano agli editori un flusso stabile di profitti.

Ken acconsentì e mi suggerì di parlare agli esperti di produzione e vendite e di elaborare un piano aziendale. Decidemmo di chiamare la nuova serie Anchor Books, dopo il colophon Aldine di Doubleday, con il suo delfino saltellante che circonda una pesante àncora. Provammo a sondare il mercato con 20.000 copie di 12 titoli con una robusta rilegatura cartacea, a un prezzo tra i 65 centesimi e il dollaro e 25 centesimi. La prima serie includeva Joseph Conrad, Edmund Wilson, D. H. Lawrence, André Gide e Stendhal. In un anno o due quasi tutti gli editori di New York e Boston avevano una linea di «paperback di qualità, che le librerie vendevano a milioni di copie. La «rivoluzione del paperback», come sarebbe stata chiamata, era cominciata.

I fattori essenziali del successo di questo formato (nuovo negli Stati Uniti, anche se gli editori europei stavano pubblicando già da anni paperback di qualità) erano un pubblico di lettori impegnati creato dal GI Bill e i 3.000-4.000 librai indipendenti che costituivano il mercato al dettaglio per i libri. Molti di questi erano poco più che negozi di articoli da regalo che vendevano cartoline d’auguri, pubblicazioni locali e qualche bestseller, ma probabilmente le poche migliaia di librai nelle città e nelle grandi periferie hanno garantito una presenza costante dei titoli delle backlist e alimentato lo sviluppo di interessi eclettici nei lettori sofisticati che facevano riferimento a questi negozi situati generalmente nelle aree più povere. La nostra strategia commerciale era semplice: esibivamo gli Anchor Books ovunque era possibile sperando che i lettori li trovassero e ne parlassero con i loro amici. I libri si vendevano da soli.

Il desiderio della rivoluzione

In sostanza tutto andò per il verso giusto. All’inizio non mi accorsi che il commercio dei libri, insieme a molti altri aspetti della vita americana, stava subendo un cambiamento rilevante per il passaggio demografico dalla città alla periferia, legato al dopoguerra. Con il venir meno dei clienti, nelle città scomparvero anche centinaia di librai con migliaia di titoli di backlist. Oggi, negli Stati Uniti, non si arriva a 50 rivenditori indipendenti che detengono 100.000 titoli o più. A metà degli anni 1960, il nuovo mercato al dettaglio era basato in gran parte su centri commerciali di periferia dove le catene dominanti di librerie pagavano lo stesso affitto del negozio di scarpe che avevano accanto e non si potevano permettere di riempire i loro costosi scaffali con titoli di backlist invenduti. Il turnover era essenziale per questi punti vendita delle catene librarie che prediligevano i libri pubblicizzati in televisione da personaggi celebri o i thriller e i romanzi popolari di scrittori famosi. Molto rapidamente migliaia di titoli di backlist andarono esauriti ogni anno.

L’effetto di queste nuove condizioni di mercato fu di capovolgere la tendenza industriale. Mentre fino allora il mondo editoriale si era affidato alle backlist, ora molte case editrici sopravvivevano in modo precario, ammesso che non fallissero, correndo dietro ai bestsellers. Celebrità effimere erano messe all’asta dai loro agenti in cambio di garanzie vertiginose, mentre le potenti catene al dettaglio domandavano e ottenevano condizioni sempre più vantaggiose da parte delle case editrici, obbligando i piccoli editori a concentrarsi e infine a essere assorbiti dalle conglomerate che dominano oggi l’industria. Gli editori continuarono a produrre libri di valore come sempre ma, come sostiene Calvin Trillin, la gestione della attività quotidiana non si differenziò granchè da quella di un venditore di latte o yogurt. L’editoria dei libri cominciò sempre più ad assomigliare al commercio delle riviste a grande tiratura.

Nel 1958 lasciai Doubleday per Random House. La mia decisione era insolita. Per molti anni sono stato il direttore editoriale dell’azienda, ma ero anche libero di prendere iniziative personali. A metà degli anni 1980 intrapresi alcune iniziative di successo per gli stessi lettori per i quali avevo creato Anchor Books. Cominciai a cercare nuove strade per aggirare le forze di mercato che stavano erodendo le backlist degli editori. Nel 1986, allo scopo di risolvere questo problema, creai il Readers Catalog, una directory di circa 40.000 titoli di backlist che potevano essere ordinati attraverso un numero verde (Internet non era ancora stata commercializzata). L’idea era di ricreare un negozio di libri indipendente di medie dimensioni sul modello di un catalogo stampato simile a una guida telefonica di una grande città. Le vendite furono confortanti, anche se il mio piano commerciale dimostrò alcune crepe. Il ricavo medio per ordine fu di circa 35 dollari, più costi di spedizione e trasporto interno, ma le spese di movimentazione per i piccoli ordini non potevano essere recuperate. Nel periodo in cui Internet si stava affermando, decisi di non mettere online il Readers Catalog, ma di metterlo all’asta tra Amazon.com e Barnes and Noble, avvertendoli che i loro margini non avrebbero coperto il costo della movimentazione dei piccoli ordini di singoli clienti. Essi hanno da allora perso milioni di dollari, pur garantendo un servizio inestimabile a editori, scrittori e lettori.

«Io immaginavo un sistema automatico simile a uno sportello del bancomat per stampare un libro»

Fu proprio a causa del fallimento del Readers Catalog che intravidi la soluzione al problema dei costi proibitivi del trasporto fisico di migliaia d’articoli a basso costo. I libri, come la musica, sono tra i pochi prodotti commerciali che possono essere ridotti a file digitali, memorizzati, posizionati e trasmessi elettronicamente a costi quasi virtuali. Gli editori hanno provato a vendere versioni elettroniche dei loro titoli online sin dai primi anni 1990, ma non hanno avuto successo perché i programmi erano di scarsa qualità e perché molti lettori resistevano all’idea di leggere libri sullo schermo del computer o su apparecchi tascabili. La carta stampata, ripiegata, raccolta e rilegata è ancora lo strumento più durevole, leggibile, portabile ed economico per i libri che si vogliono conservare. Eppure, pensai, deve essere possibile trasformare un file digitale in un paperback di buona qualità. Ciò che immaginai era l’equivalente funzionale di uno sportello del bancomat, un apparecchio che avrebbe velocemente stampato, rilegato e rifinito un libro a partire da un file digitale, consegnandolo al lettore a basso costo.

Una tecnologia rudimentale di stampa a richiesta già esisteva. Si trattava di una stampante duplex, un fascicolatore e una rifilatrice tra loro separati, ma l’attrezzatura era costosa e ingombrante e richiedeva la presenza di operatori specializzati. Essa venne progettata per funzionare con l’esistente sistema di consegna dell’industria editoriale, ma per pubblicazioni troppo piccole per una tradizionale stampante ad alta velocità. Io volevo qualcosa di diverso, una macchina indipendente, completamente automatica che avrebbe reso obsoleto l’intero sistema di stampo gutenberghiano. Nella mia mente vedevo un lettore che selezionava un file, che veniva trasmesso attraverso una rete sicura ed entro pochi minuti una macchina nelle vicinanze stampava una singola copia, in qualsiasi lingua, a un costo minore per il lettore di un libro prodotto con sistemi tradizionali. Eliminando la catena fisica dei passaggi per la consegna, con i costi di magazzinaggio e trasporto e il margine di profitto del negoziante, la nuova tecnologia avrebbe offerto ai lettori una selezione molto più ampia di titoli rispetto alle tecnologie esistenti.

La «rivoluzione del paperback» degli anni 1950 alla quale ero stato profondamente legato non era affatto una rivoluzione, ma semplicemente l’introduzione di un nuovo formato all’interno della catena tradizionale di passaggi per la consegna del libro. Volevo una vera rivoluzione, una che avrebbe esaltato il mercato editoriale mondiale e creato livelli d’efficienza mai visti tra editori e autori.

Nel 1999, tenni tre conferenze alla New York Public Library duranti le quali presentai la mia visione del futuro elettronico e predissi che, prima o poi, una macchina simile avrebbe fatto la sua comparsa (ho rielaborato queste riflessioni nel mio libro del 2002 Book Business: Publishing Past, Present, and Future).

Allora le catene di centri commerciali avevano raggiunto i limiti della loro espansione. Di conseguenza, nei primi anni del 1990, vennero rimpiazzate dai cosiddetti grandi supermercati, come Barnes and Noble e Borders, strutture indipendenti di dimensioni ragguardevoli la cui promessa di incrementare le scorte di backlist si sono scontrate in molti casi con i costi per garantire i libri più richiesti, la musica, le riviste, gli oggetti da regalo e i bar interni. Un canale alternativo di vendita al dettaglio era più urgente che mai.

Lo sguardo oltre Gutenberg

Ciò che non sapevo nel 1999 era che la macchina per libri che immaginavo già esisteva. L’anno successivo, una delle mie conferenze venne pubblicata dalla «New York Review of Books»; il mio amico Michael Smolens, un imprenditore interessato alla tecnologia della stampa su richiesta, lesse l’articolo. Egli mi disse che anche in quel momento una macchina simile a quella di cui parlavo stava stampando libri in un piccolo laboratorio in Missouri. Il suo inventore, Jeff Marsh, ci avrebbe incontrato volentieri (Io, Smolens e altri abbiamo dato vita a una società per diffondere la tecnologia di Marsh).

Al laboratorio di Marsh ci trovammo di fronte a una macchina lunga due metri e mezzo e alta la metà che ingoiò il file digitale, lo tarò sulle dimensioni del libro desiderato e lo trasmise a una stampante duplex. Le pagine stampate vennero poi raccolte e rilegate con una copertina prodotta da una diversa stampante quadricromica. L’intero processo richiese circa due minuti. Il libro rilegato di 256 pagine fece un ultimo passaggio su una rifilatrice e fu completato, senza la presenza di un solo operatore.

Un’esperienza mistica! Nel futuro elettronico tutti i testi pubblicati saranno recuperabili con una semplice ricerca su Google o su siti simili (si veda l’articolo Google. Uno sguardo dietro l’angolo, nel numero 2/2005 di «Technology Review», edizione italiana). Librai, editori e gli stessi autori invieranno file digitali di testi ai loro siti o a quelli che si occupano di argomenti simili. Sui loro computer i lettori selezioneranno libri da una biblioteca pressoché universale e li trasmetteranno, qualsiasi sia la lingua, alla più vicina stampante per libri, dove poi potranno comodamente andare a prendere il libro stampato.

Questo sistema post-gutenberghiano potrebbe vedere la luce già ora con le tecnologie attuali. Ma, mentre le tecnologie esistono, è assente l’infrastruttura commerciale che le sostiene. Gli editori di musica vendono direttamente su Internet ai consumatori che suonano un’aria su apparecchi come gli iPod. Ma, prima che gli editori di libri possano vendere direttamente ai lettori, sarà necessario dispiegare migliaia di macchine per libri. Una possibile soluzione a questo dilemma della gallina e dell’uovo è legata alla capacità di queste nuove tecnologie di raggiungere mercati precedentemente inaccessibili: per esempio, i 47 milioni di americani per i quali l’inglese è la seconda lingua e che non trovano opportuno comprare libri nella loro stessa lingua. La base di una reale infrastruttura alternativa di vendite al dettaglio potrebbe consistere nel fornire un servizio a questo mercato nazionale. Una volta messa in piedi una simile infrastruttura, gli editori potrebbero cominciare a vendere libri anche ai lettori in lingua inglese.

Gutenberg pensava di porre rimedio allo scisma del XV secolo distribuendo un messale uniforme a tutte le chiese d’Europa. Invece, egli contribuì a dar vita alla Riforma Protestante.

L’impatto delle più potenti tecnologie attuali è realmente difficile da immaginare. Ciò che mi appare certo è che queste tecnologie sommergeranno rapidamente l’obsoleto sistema gutenberghiano e ci esporranno ancora una volta a rischi e opportunità prima sconosciuti.

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