I paesi del Vecchio Continente devono affrontare uniti la sfida

Le difficoltà economico-finanziarie, la concorrenza dei paesi asiatici, la “voracità” delle grandi compagnie petrolifere russe hanno colpito duramente la raffinazione europea. Nei prossimi anni sono a rischio 40 impianti.

di Guido Gentili (Fonte OIL)

Chi l’avrebbe mai detto che un certo spirito del leggendario JohnD. Rockefeller, classe 1839 (l’audace fondatore nel 1870 della Standard Oil, che a sedici anni investì i suoi primi guadagni nell’acquisto a Cleveland di una raffineria) sarebbe in qualche modo rivissuto negli anni Duemila nel cuore dell’Europa orientale, a 800 km da Mosca? Parliamo del mega impianto di raffinazione, il primo costruito dopo la caduta del regime sovietico, nella Repubblica autonoma del Tatarstan, dove viene estratto il 70 percento di tutto l’heavy oil russo. Oppure, chi l’avrebbe mai detto, cinquant’anni fa, che il Venezuela avrebbe costruito tre raffinerie in Cina? E chi avrebbe mai previsto che la foto della King Peleus, la prima petroliera che attraccò nel 1961 in Sicilia, al pontile della Raffineria Mediterranea, tra le maggiori allora d’Europa, sarebbe rimasta solo nell’album dei ricordi di un passato irripetibile, visto che nella vecchia Europa le raffinerie, per un secolo uno dei simboli del capitalismo industriale, rischiano di chiudere i battenti? Soprattutto in Europa, che incide per il 17 percento sulla produzione mondiale, le cose cambiano. Perché cambia il mercato, innanzitutto.

UN ORIZZONTE CUPO

Uno studio molto recente dell’agenzia statunitense Bloomberg spiega che il panorama nel settore della raffinazione del greggio è attraversato da nuvole nere. La domanda di carburanti in Europa sta scendendo al minimo degli ultimi 20 anni e si stima che nel decennio in corso verrà perduto oltre il 10 percento della capacità di raffinazione. Tradotto in numeri: su 98 impianti operanti nel 2009, a metà 2012 cinque avevano chiuso la produzione (tredici cambiato la proprietà) ed una decina, se non molti di più, potrebbero seguire la stessa sorte entro il 2020. Del resto, ormai da cinque anni il consumo del greggio scende e l’AIE (Agenzia Internazionale dell’Energia) calcola un ritorno ai livelli del 1994. Circa due terzi delle raffinerie europee presentano margini in rosso: l’ultima stagione buona (che i tecnici definiscono “Golden age of refining”) è stata quella iniziata nel 2003 e terminata nel 2008. Margini di raffinazione da 20 dollari al barile sono solo un ricordo scolorito. L’impennata dell’export statunitense di diesel, il gasolio per autotrazione, è stata una lama che si è infilata nel cuore della raffinazione europea, orientata perlopiù alla produzione di benzina, a fronte di una domanda europea di carburanti costituita per il 75 percento da diesel. E poi, è vero che ancora oggi quasi il 95 percento dell’energia dei trasporti deriva dal petrolio, ma in prospettiva crescerà il peso dei cosiddetti prodotti non-refinery, a partire dai biocarburanti. La crisi ha colpito duro, ma anche la concorrenza dei paesi asiatici (che rappresentano circa il 30 percento della produzione mondiale) ha contribuito in modo decisivo a cambiare il contesto, ridisegnandone il perimetro geo-strategico anche per accorciare, in termini di trasporto e logistica, il tragitto tra domanda trainante (oggi localizzata nelle economie emergenti) e offerta. Quando sono in campo sistemi – a partire dalla Cina- in grado di lavorare e produrre con i loro impianti 2 milioni di barili al giorno (e nella sola Arabia Saudita si stanno edificando tre impianti, ciascuno capace di lavorare 400 mila barili al giorno

per utilizzare greggio di bassa qualità e trasformarlo in combustibili pregiati), con maggiori economie di scale e standard, costi del lavoro e ambientali molto inferiori a quelli europei, la lotta si fa impari. Inoltre, la vecchia Europa della raffinazione, sulla quale pesa un’Europa in crisi da “debiti sovrani” e a corto di risorse, è divenuta l’oggetto del desiderio (molto possibile) delle grandi compagnie petrolifere russe dotate di immense disponibilità finanziarie (e di un sistema fiscale alle spalle che ne incentiva l’espansione) che acquistano oggi impianti in crisi a prezzi molto bassi, accontentandosi di bassi margini in questa fase di recessione per poi come ha spiegato Vladimir Socor della Jamestown Foundation di Washingtonm “investire per riconvertire gli impianti in modo da poter lavorare il greggio russo, in attesa della ripresa europea e di nuovi profitti nel settore della raffinazione.

LA SICUREZZA DEGLI APPROVVIGIONAMENTI

In questo comparto, ramo portante dell’industria petrolifera e non solo (dato che impatta su molte altre industrie che rifornisce, come i lubrificanti per i macchinari industriali o i solventi per inchiostri e vernici) l’Europa, che occupa direttamente e indirettamente circa 600mila persone, di cui 100 mila circa in Italia, è dunque alle prese con crisi strutturale. Una crisi sulla quale si discute poco nonostante -come ha osservato Alessandro Bartelloni, responsabile del settore trasporto e prodotti petroliferi di Europia (European PetroleumIndustry Association), i prodotti petroliferi non siano solo i carburanti, ma rappresentino anche una fondamentale materia prima per l’industria. Soprattutto per quanto riguarda la petrolchimica, in Europa su 58 impianti di steamcracking, l’impianto base per la petrolchimica, 41 sono integrati con le raffinerie e “in conclusione si può affermare che la raffineria è importante dal punto di vista della sicurezza degli approvvigionamenti dell’Europa”.

Ma tant’è, con la crisi della raffinazione l’Europa deve fare i conti. Come? Innanzi tutto facendo leva sulla realtà dei fatti, a cominciare dal problema della competitività (tema vivissimo in particolare in Italia con una capacità di raffinazione pari a 100 milioni di tonnellate distribuite sui 15 raffinerie dove si prevede un eccesso di capacità di più di 20 milioni di tonnellate per i prossimi anni), se è vero che è diventato più conveniente importare i prodotti raffinati invece che produrli e se la produzione non trova comunque sbocco sui mercati internazionali.

IL CASO ITALIANO

L’indagine parlamentare svoltasi in Italia nel 2012 si è conclusa con un documento finale che non lascia dubbi. Costi di produzione notevolmente più alti a causa degli oneri connessi alle normative in favore dell’ambiente e a tutela del lavoro. Carico fiscale molto elevato. Mancato rinnovo tecnologico degli impianti obsoleti(anche se non mancano piani e progetti di punta). Costi di trasporto alti. Oneri amministrativi esorbitanti (gli oneri burocratico-amministrativi connessi ai procedimenti autorizzativi, anche per dismissioni o riconversioni industriali, rappresentano un freno potentissimo).

Tutto questo, mentre le raffinerie americane acquistano petrolio a prezzi più bassi, quelle mediorientali godono di costi di approvvigionamento minori e non hanno costi di trasporto, quelle asiatiche trattano greggi a basso costo e fruiscono di sussidi. E con quasi tutti i paesi di raffinazione del mondo che hanno “politiche sociali ed ambientali molto meno restrittive di quelle europee”.

Tagliare gli impianti – ipotesi sul tavolo dei governi- fa paura dappertutto, in Europa. Che però dovrebbe svegliarsi.

Samuele Furfari, alto funzionario della direzione generale Energia della Commissione Ue, ha osservato che “gli stati membri devono prestare attenzione ai rischi e alle opportunità del settore raffinazione, ma devono ad ogni costo evitare di concedere delle sovvenzioni che non fanno altro che ritardare l’inevitabile.

Piuttosto, devono permettere al mercato di essere totalmente operativo e a livello europeo è la Commissione ad offrire la dimensione necessaria per affrontare un problema globale, visto che nessuno Stato o nessuna società è in grado di affrontare la sfida da solo”. Mentre è in discussione la direttiva sulla qualità dei carburanti (Fuel Quality Directive) si è riconosciuto il valore strategico della raffinazione e lo stato di crisi del settore.

Ed è stato aperto un forum di discussione, nel quadro generale del nuovo obiettivo per il 2020 di alzare dal 16 al 20 percento la quota dell’industria nel Prodotto interno loro europeo. Inoltre, si promette un miglioramento del quadro normativo “con lo scopo -ha spiegato Furfari- di garantire che le legislazioni dell’Unione Europea siano a vantaggio delle persone e delle imprese”. Il problema è che non c’è più tempo per i dibattiti. “In assenza di decisioni puntuali, urgenti e condivise -conclude il documento approvato dal Parlamento italiano- la raffinazione europea sarebbe esposta ad una crisi gravissima con la chiusura di altri 40 impianti nei prossimi anni ed un aumento della dipendenza dall’estero pur in costanza di un eccesso di offerta”. Ipotesi purtroppo realistica.

L’autore

Guido Gentili è editorialista de “Il Sole 24 ore”, di cui è stato il direttore dal 2001 al 2005. Dal 1996 al 1998 è stato editorialista de “Il Corriere della Sera” e direttore del settimanale “Il Mondo”.

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