Gli Uiguri all’estero hanno paura per la loro comunità

La teleterapia e i social stanno aiutando chi vive in un altro paese e ha una persona cara scomparsa in patria a superare lo spavento e la sensazione di impotenza.

di Andrew McCormick

Mustafa Aksu ha avuto una brutta esperienza con i terapisti. Cresciuto in Cina, è stato vittima di bullismo dai parte dei suoi compagni di classe cinesi Han perché uiguro. Questo lo faceva stare sempre in ansia e gli procurava spesso mal di stomaco, al punto da farlo vomitare. Un insegnante preoccupato gli ha consigliato un aiuto psicologico, ma Aksu era scettico. “Aspettavo sempre il momento in cui avrei potuto uscire dal paese e andare a vivere in un posto in cui mi sarei sentito a mio agio”, dice Aksu. 

Nel 2017, quando iniziarono a emergere notizie di un giro di vite del governo in Cina contro gli uiguri e altri gruppi etnici minoritari, Aksu era uno studente laureato in Studi sull’Asia centrale presso l’Università dell’Indiana, a Bloomington. Nella provincia cinese nordoccidentale dello Xinjiang, dove vive la maggior parte degli uiguri, alcune persone stavano scomparendo. La polizia ha preso di mira gli uiguri per  un elenco di “reati” in continua espansione: farsi crescere la barba, organizzare una festa di matrimonio, avere contatti con persone all’estero, compresi i membri della propria famiglia.

Le notizie peggioravano ogni mese. A centinaia di migliaia, il Partito Comunista ha costretto gli uiguri in vaste strutture di detenzione, che ha soprannominato “centri di formazione professionale” sebbene assomigliassero a campi di concentramento. All’interno, gli uiguri erano soggetti a ogni sorta di  tortura e abuso. In breve tempo, il numero di internati ha superato il milione.

AP Photo / Jacquelyn Martin

Aksu, poco più che trentenne, stava già vivendo all’estero da anni, a Istanbul e Dubai, prima degli Stati Uniti, ma era sempre rimasto in stretto contatto telefonico con la famiglia a casa.  Ora, come la maggior parte degli uiguri che vivono lontano dallo Xinjiang, Aksu è stato completamente separato dai suoi genitori e fratelli. E’ arrivata la depressione e in seguito ha sviluppato l’insonnia. Per tutta la notte si chiede se la sua famiglia è al sicuro. Nel 2018, Aksu ha appreso che suo fratello maggiore, suo zio e due cugini erano tutti morti nello Xinjiang. La sua ansia è diventata sempre più profonda.

Alla fine, Aksu ha cercato aiuto da uno psicologo locale. Ma il primo incontro è andato malissimo. Come molti americani, il terapeuta non aveva mai sentito parlare di “uiguri” o “Xinjiang”. Aksu ha passato la maggior parte della sessione a descrivere cosa stava succedendo in Cina, invece di parlare della sua situazione personale. 

Allora ha provato un secondo terapeuta, ma si è trovato ancora nella condizione di dover spiegare la sua cultura e la situazione nello Xinjiang in modo approfondito. Si è scoraggiato e alla fine ha abbandonato la terapia. Nel 2019 si è trasferito a Washington, DC, sperando in un nuovo inizio. Ma naturalmente le notti insonni sono continuate.

Le esperienze di Aksu sono tipiche di molti nella diaspora uigura, sia quelli che hanno lasciato la Cina molto tempo fa sia quelli che sono fuggiti più di recente per rifarsi una vita, lontano dalle persecuzioni. Guardando da lontano come i propri cari scompaiono e un modo di vivere viene cancellato, subentra il trauma, scatenando crisi di salute mentale. 

Molti, tuttavia, sono reticenti a cercare aiuto, o addirittura a riconoscere il dolore emotivo degli anni passati. Ma ultimamente un piccolo gruppo di uiguri sta cercando di cambiare le cose. Usando i social media, hanno intrapreso conversazioni sul dolore e sulla salute mentale e, attraverso la telemedicina, collegano le persone in tutto il paese con terapisti volontari.

Il programma, chiamato Uyghur Wellness Initiative, è ancora agli inizi e, ad oggi, vede la partecipazione solo di qualche decina di uiguri. Man mano che le notizie dallo Xinjiang  peggiorano, tuttavia, i suoi creatori sperano che contribuirà a promuovere la resilienza nella diaspora e fornire un’ancora di salvezza a una comunità durante la sua ora più buia.

“Uiguro 101”

Le violazioni dei diritti nello Xinjiang hanno distorto ogni aspetto della vita degli uiguri. Migliaia di moschee sono state distrutte. La lingua uigura è bandita dalle scuole. Molte migliaia di loro sono stati costretti ai lavori forzati. I campi rappresentano probabilmente la più grande incarcerazione di massa di un gruppo etnico dall’Olocausto e, di recente, i governi di Stati Uniti, Canada, Paesi Bassi e Regno Unito hanno formalmente etichettato le azioni della Cina come “genocidio”.

Per la diaspora uigura, che negli Stati Uniti si concentra a Washington DC e nel nord della Virginia, gli ultimi anni sono stati strazianti. Praticamente tutti hanno familiari o amici intimi che sono stati mandati nei campi. Se dovessero tornare in Cina, anche loro si ritroverebbero prigionieri. All’inizio, il bilancio psicologico della crisi dello Xinjiang non era stato preso in considerazione dalla diaspora, afferma Rushan Abbas, direttore del gruppo di difesa Campaign For Uyghurs con sede a Washington. 

Per prima cosa, molti sentivano di  non  essere quelli in pericolo e non ritenevano di avere il diritto di manifestare il loro stato d’animo su come la crisi li stava colpendo. Inoltre, la cultura uigura non valorizza la salute mentale in quanto tale, dice Abbas, e parlarne può portare a un significativo stigma sociale. Tuttavia, il dolore nella comunità e il silenzio che era caduto su di essa erano evidenti. 

Tra il 2019 e l’inizio del 2020, Memet Emin, un ricercatore medico americano uiguro a New York, ha condotto un’indagine non scientifica su 1.100 membri della diaspora. Sentimenti di disperazione, rabbia e depressione, ha scoperto, erano comuni. Quasi un intervistato su quattro ha affermato di avere regolarmente pensieri suicidi, circa cinque volte la media degli adulti  negli Stati Uniti. 

Le autorità del Partito Comunista  molestano abitualmente gli uiguri fuori dalla Cina, avvertendoli sui social media di non parlare, chiedendo informazioni personali su se stessi o sugli altri e minacciando ritorsioni contro amici e familiari nello Xinjiang se non si adeguano alle richieste. Ciò significa che molti sono riluttanti a condividere informazioni, anche in forma anonima.

Chiaramente, una crisi ne aveva generata un’altra. Sotto il coordinamento di diversi gruppi di difesa dei diritti civili, i leader uiguri hanno riconosciuto di trovarsi di fronte a una situazione di emergenza dal punto di vista della salute mentale e hanno deciso di fare qualcosa al riguardo.

Nel maggio del 2020, i rappresentanti di tre importanti organizzazioni uigure negli Stati Uniti: l’Uyghur Human Rights Project, l’Uyghur American Association e Campaign For Uyghurs di Abbas, insieme all’organizzazione religiosa no-profit Peace Catalyst International, hanno organizzato la prima di numerose sessioni di formazione per terapisti online chiamate ” Uyghur 101”.  

Durante la videoconferenza, hanno insegnato ai terapisti la storia e la cultura uigura. Hanno descritto in dettaglio le violazioni dei diritti in corso nello Xinjiang e hanno fornito una testimonianza intima delle proprie sfide e del proprio dolore. Poi si sono mossi nei confronti della comunità uigura. 

Poiché molti nella diaspora temono l’opinione pubblica, hanno offerto dei collegamenti riservati. Hanno anche cercato di normalizzare la terapia partendo dalla descrizione della propria sofferenza, dice Abbas, la cui sorella è stata condannata al carcere  nello Xinjiang, probabilmente come rappresaglia per la difesa di Abbas. “Mi sento impotente e disperato”, dice Abbas. “Mi sveglio nel cuore della notte, perché mi preoccupo per mia sorella. Mi aiuta parlare con qualcuno e condividere i miei sentimenti”. 

Non è facile trovare il terapeuta giusto. Tra costi, distanze e disponibilità, la difficoltà della ricerca può essere un deterrente. I terapisti che lavorano con l‘Uyghur Wellness Initiative, una collaborazione tra le organizzazioni uigure, lo stanno facendo pro bono, abbassando la prima di queste barriere. Attraverso la teleterapia, i leader mirano ad abbassare gli altri.

Anche se molti uiguri vivono a Washington e nel nord della Virginia, altri sono dispersi in tutto il paese. Il fatto che la teleterapia sia disponibile quasi ovunque significa che anche le persone al di fuori delle principali aree metropolitane, dove è più facile trovare terapisti specializzati in traumi, immigrazione e altre questioni rilevanti, possono trarne vantaggio. Allo stesso modo, i terapisti che vivono in aree in cui ci sono pochi uiguri sono ora in grado di dare il loro contributo tramite l’iniziativa di Wellness.

L’aspetto più importante è che il gruppo di terapisti online della Wellness Initiative riduce la probabilità che una persona in cerca di aiuto incontri un terapista che non conosce la Cina o lo Xinjiang. I progressi sono stati lenti, in parte a causa della difficoltà della comunità ad accettare un confronto aperto sulla tematica della salute mentale, ma la situazione sta cambiando.

Il muro sta cadendo

Arrivato a Washington, nel dicembre del 2019, Aksu ha ottenuto un lavoro con l’Uyghur Human Rights Project, un gruppo di ricerca e advocacy. Si sentiva felice, anche dopo che il covid-19 ha sconvolto tutto. “Ho sempre voluto trasferirmi qui e alla fine ci sono riuscito”, dice Aksu. Era inevitabile, tuttavia, che il peso delle atrocità nello Xinjiang si facesse sentire.

Nel 2020, la polizia dello Xinjiang ha iniziato a inviare messaggi di testo ad Aksu su WeChat e WhatsApp, che gli chiedevano di collaborare e contenevano minacce verso la sua famiglia. Aksu non ha mai risposto. I messaggi sono allora arrivati da più numeri di telefono, con prefissi diversi, non solo della Cina continentale, ma anche di Hong Kong e della Turchia.

A settembre, Aksu ha ricevuto una telefonata da un vecchio amico, un compagno di classe delle superiori con cui aveva condiviso per quattro anni il letto a castello del dormitorio. L’amico, ora ufficiale di polizia, è stato gentile, ma era chiaro che lo scopo della chiamata non era amichevole. “Voleva che gli dessi informazioni”, racconta Aksu.

Anche se DC rappresentava un cambiamento positivo, Aksu soffriva per la sua famiglia. Il colpo di grazia è stato la morte di suo fratello. “Mi sono sentito tradito”, dice. Il giorno in cui gli è arrivata la notizia è svenuto. Si è svegliato la mattina dopo sul pavimento con un collega che bussava alla sua porta. La sua ansia, scoprì Aksu, era riaffiorata. Lunghe notti insonni una dopo l’altra, per poi svenire di nuovo. “Poi, un giorno, ho avuto questa stupida idea del suicidio”, ricorda.

Si è confidato con una collega, che a sua volta ne ha parlato con il loro capo, Louisa Greve, direttore del Global Advocacy Project dell’Uyghur Human Rights Project, che ha portato Aksu in un famoso ristorante uiguro nel quartiere di Cleveland Park. Davanti a noodles piccanti, lo ha convinto a rivolgersi a qualcuno che lo poteva aiutare. Aksu era riluttante a provare di nuovo ad andare in terapia, ma alla fine ha accettato. Greve lo ha quindi presentato a Charles Bates, uno psicologo della Virginia del Nord che si era offerto volontario con l’Uyghur Wellness Initiative.

Questa volta il primo incontro è andato alla grande. Bates sapeva cosa stava succedendo nello Xinjiang e, in quanto ex rifugiato dalla Liberia, era esperto di traumi simili e dell’esperienza degli immigrati. Due volte al mese, su Google Meet, Aksu e Bates hanno iniziato a discutere strategie per “superare e ridurre al minimo i traumi”, afferma Aksu. 

Affidarsi alla teleterapia

Gli uiguri nello Xinjiang sono stati trattati come cittadini di seconda classe per decenni, ma poiché l’attuale crisi ha aspetti in parte nuovi, non ci sono studi formali che collegano questa forma di trauma con l’esperienza della diaspora. Secondo Cathy Malchiodi, psicologa ed esperta nazionale di traumi associata all’Uyghur Wellness Initiative, i confronti storici potrebbero servire da punto di riferimento per comprendere ciò che le persone stanno attraversando.

Basandosi sugli esempi dei nativi americani negli Stati Uniti e degli ebrei durante l’Olocausto, Malchiodi suggerisce come punto di partenza i termini “trauma secondario” e “traumi e lutti intergenerazionali. Ogni persona avrà la propria reazione a una crisi, ovviamente, ma come comunità gli uiguri probabilmente condividono sentimenti profondi di trauma e angoscia, derivanti sia dall’oppressione storica sia dai continui tentativi di cancellare la loro cultura. Come spiega Malchiodi, anche le persone non direttamente colpite da una crisi possono manifestare traumi associati.

Per certi versi, dice Malchiodi, la terapia della parola da sola potrebbe non essere adatta a una sfida di questa portata. “La maggior parte della psicologia e della psicoterapia è molto sbilanciata sull’Occidente”, afferma Malchiodi. “Deve esserci una visione più ampia di cosa significhi benessere”. Gli investimenti e la partecipazione ad attività culturali, per esempio, potrebbero rivelarsi essenziali per la salute mentale della comunità, spiega. Dove la terapia della parola è efficace è nell’affrontare i sintomi di traumi acuti, come l’ansia e la depressione clinica.

Durante la pandemia, circa tre quarti degli psicologi negli Stati Uniti sono passati alla teleterapia, di solito tramite videoconferenza. Ci sono degli svantaggi: i requisiti di licenza statali, per esempio, a volte vietano ai medici di lavorare oltre i confini statali. Le esperienze remote negano ai terapeuti di cogliere i segnali non verbali – come una persona è seduta, i tic del corpo come il battito del piede – che li aiutano a osservare i sentimenti che un cliente non sta verbalizzando. Ma, secondo l’American Psychological Association, la teleterapia può essere altrettanto efficace delle sessioni di persona. E il relativo comfort e sicurezza di un cliente che si sente a casa può favorire un’esperienza terapeutica positiva.

Quest’ultimo punto è particolarmente rilevante quando si tratta della comunità uigura, afferma Bates, il terapeuta che lavora con Aksu. Il Partito Comunista è stato estremamente efficace nel mettere a disagio gli uiguri di tutto il mondo. “C’è molta paura di possibili ritorsioni verso i familiari e se stessi”, spiega Bates. La teleterapia consente ai clienti di acquistare fiducia.

La condivisione del vissuto aiuta a stare meglio

Dopo un inizio lento l’anno scorso, questa primavera l’Uyghur Wellness Initiative ha intensificato i suoi sforzi, inclusa l’assunzione di un coordinatore del programma. Le poche decine che il gruppo ha aiutato finora sono meno di quanto i leader sperassero, ma rappresentano solo un pezzo del puzzle di un più ampio cambiamento culturale. Nei paesi di tutta Europa e in Australia, i gruppi uiguri stanno organizzando progetti simili e questi gruppi, insieme a quelli negli Stati Uniti, si sostengono a vicenda. 

I responsabili del progetto stanno mettendo a punto il loro messaggio. Con il pubblico più anziano e gli immigrati di prima generazione, per esempio, termini indiretti come “resilienza” e “benessere”, che aggirano i preconcetti negativi sulla salute mentale, tendono a risuonare meglio di quelli diretti, come “depressione” e “terapia”. Con gli uiguri più giovani, questi ultimi termini spesso vanno bene.

Per spargere la voce delle iniziative, si tengono sessioni informative regolari su piattaforme di videoconferenza. I social media ospitano interventi e conversazioni su piattaforme come Facebook Live e il social network audio Clubhouse. Ad aprile, per il Ramadan, si è tenuta una celebrazione virtuale della cultura e della cucina uigura. A maggio, un webinar con Aksu e due psicologi della Wellness Initiative ha discusso del carico emotivo del senso di colpa del sopravvissuto.

Anche in questo caso un approccio virtuale ha aiutato. Mentre molti nella comunità uigura potrebbero esitare a mostrare la propria faccia in un forum pubblico, sia per motivi di sicurezza sia per evitare di diventare oggetto di pettegolezzi, l’anonimato offerto da alcuni ambienti virtuali abbassa la posta in gioco.

E’ il caso di Dilare, una donna di 30 anni che vive nella Virginia del Nord. A marzo, ha visto una pubblicità su Instagram di un incontro su Clubhouse —gli uiguri si riunivano per parlare di salute mentale—e aveva deciso di fare un salto, ma solo per ascoltare. Dilare ha una situazione particolare. Anche se vive all’estero, i suoi contatti con i familiari più stretti nello Xinjiang non sono stati del tutto interrotti. Per quanto ne sa, nessun parente stretto è stato portato nei campi cinesi (Dilare è uno pseudonimo, scelto da lei, per proteggere la sua privacy e la sicurezza della sua famiglia). Rispetto a quello che stavano passando i suoi amici uiguri, Dilare non si è mai considerata una vittima.

Con il peggioramento delle condizioni nello Xinjiang, tuttavia, i suoi genitori, parlando di amici intimi e famiglia allargata, hanno ripetutamente detto a Dilare che erano “in ospedale”. “A un certo punto mi sono resa conto che non si trattava di un ospedale”, dice Dilare. “Sono detenuti”. All’evento March Clubhouse, hanno partecipato decine di persone come Dilare. Nel corso di due ore e mezza, figure di spicco della comunità hanno condiviso le loro esperienze. “Quando ho sentito che stavano indirizzando le persone a terapisti disponibili, ero pronta a farlo”, ricorda.

Ora, Dilare si incontra con un terapista in Virginia una volta alla settimana su FaceTime. All’inizio era nervosa all’idea di dire la cosa sbagliata. Aveva paura di sembrare “troppo emotiva”. “Semplicemente non vuoi che le altre persone ti vedano allo sbando”, dice. Ma la terapia ha aiutato. Il suo terapeuta l’ha incoraggiata a lasciar trasparire le sue emozioni. Ha iniziato a tenere un diario, secondo la raccomandazione del terapeuta, che contribuisce a farle riconoscere e gestire i suoi stati d’animo. 

Questa è anche l’esperienza di Aksu.

La situazione dello Xinjiang rimane cupa. Aksu è ancora preoccupato che il suo attivismo stia “rovinando” la vita della sua famiglia. “A volte mi sento completamente perso”, dice. “perché ho paura di farli soffrire a causa mia”.  Ma alla fine delle sessioni di terapia, conclude Aksu, “mi accorgo di sorridere di più e di avere entusiasmo. Non voglio smettere”.

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