
Il trilemma energetico e la promessa di energia pulita, sicura e inesauribile.
Nel grande scenario della transizione energetica, in cui la domanda globale di elettricità cresce senza sosta, spinta soprattutto dagli avanzamenti tecnologici e digitali (basti pensare all’aumento dei consumi dei data center), si impone un quesito fondamentale: come generare energia che sia al tempo stesso abbondante, accessibile e priva di emissioni?
In tale cornice si riaffaccia con forza la promessa della fusione nucleare: una fonte che potrebbe garantire energia pulita, continua e pressoché inesauribile.
La fusione è quel processo che alimenta le stelle: nuclei leggeri che si “fondono” tra loro per formarne uno più pesante, liberando una grande quantità di energia grazie alla perdita di massa rispetto alla massa iniziale (la famosa equazione di Einstein). Riprodurre sulla Terra condizioni in cui questo accade richiede temperature dell’ordine di centinaia di milioni di gradi, confinamento magnetico o inerziale, materiali capaci di sopportare flussi intensi di neutroni e un sistema ingegneristico complesso. Eppure oggi, rispetto a solo pochi anni fa, le aspettative si stanno spostando: non più una prospettiva che vede “a futuri decenni”, ma qualcosa che entro la fine degli anni ’20 o l’inizio degli anni ’30 potrebbe iniziare a manifestarsi.
Uno degli elementi che rende la tecnologia di fusione nucleare così interessante riguarda il combustibile. Il deuterio, che può essere estratto dall’acqua marina, e il trizio (nonostante quest’ultimo richieda ancora generazione o rigenerazione in situ) rappresentano un potenziale combustibile molto più abbondante rispetto all’uranio usato nella fissione. Questo significa che, una volta risolti gli ostacoli tecnici, gli impianti a fusione potrebbero operare con minore dipendenza da combustibili fossili o minerali strategici e in modo più distribuito geograficamente. L’idea che un piccolo volume d’acqua contenga, in potenza, un’enorme quantità di energia è diventata sempre più tangibile nei briefing degli investitori tecnologici.
Accanto a ciò, la fusione non emette direttamente anidride carbonica durante la produzione elettrica e non genera scorie radioattive a vita lunga come alcuni reattori a fissione. Insomma, questa tecnologia rappresenta un’opzione molto interessante per la decarbonizzazione e per il soddisfacimento delle esigenze energetiche no soltanto di oggi ma soprattutto di domani.
Tra l’altro, come ricorda un rapporto della International Atomic Energy Agency del 2025, per la prima volta la fusione è considerata parte integrante della futura offerta energetica a basse emissioni.
Tuttavia, è bene chiarire che la fusione non è ancora la panacea e il “quando” potrebbe affacciarsi all’orizzonte resta incerto. Non basta conoscere la fisica: occorre dimostrare che un impianto commerciale possa produrre più energia di quanta ne consumi, che i materiali resistano a lungo, che i costi siano competitivi e che la filiera sia scalabile. Il guadagno energetico (detto “Q”) è stato migliorato, ma non siamo ancora al punto in cui un reattore commerciale connesso alla rete stia operando. Inoltre, la concorrenza di altre forme di produzione di energia come solare, eolico, batterie e altre tecnologie emergenti è agguerrita: le rinnovabili sono ormai mature, a basso costo e in continua espansione, per cui la fusione deve inserirsi non solo come promessa, ma come opzione concreta entro tempi utili.
Ma non siamo lontani dalla realizzazione di questo progetto e attualmente il panorama globale della fusione presenta alcuni segnali molto rilevanti. La startup americana Commonwealth Fusion Systems (CFS), nata dalla ricerca del Massachusetts Institute of Technology (MIT), ha messo in campo un progetto per una centrale a fusione, denominata “ARC”, che punta a produrre circa 400 megawatt di elettricità nei primi anni ’30.
Questo tipo di iniziativa, assieme ad importanti collaborazioni finalizzate allo sviluppo di modelli e progetti legati alla fusione, segnala che l’industria privata sta raccogliendo la sfida e che questa tecnologia non è più confinata ai grandi progetti pubblici esclusivi. Non è un caso, infatti, se il settore della fusione nucleare abbia capitalizzato oltre 6 miliardi di dollari in investimenti all’inizio del 2023.
In parallelo, sin continuano a sviluppare sistemi estremamente complessi, che riguardano soprattutto la tecnologia dei magneti a superconduttore ad alta temperatura (HTS), con passi decisivi: questi magneti permettono campi magnetici più forti e macchine più compatte del passato.
Anche l’Italia entra in gioco, con aziende leader nel settore energetico, come Eni, che ha già sviluppato partnership internazionali e ha stretto accordi strategici (come quello recente proprio con CFS) per lo sviluppo industriale della fusione.
Ma, come accennato, le sfide restano numerose. Il primo problema è quello del guadagno energetico replicabile e continuo. Le condizioni sperimentali riescono talvolta a superare per brevi istanti la soglia Q > 1, ma ciò non significa ancora un impianto che produca elettricità in rete in modo stabile e concorrenziale. Un recente studio della Cornell University mostra che sebbene i risultati sperimentali stiano migliorando, il cambio che porta agli impianti commerciali a regime rappresenta un salto ingegneristico enorme.
Una seconda importante sfida riguarda i materiali: i neutroni generati nella reazione danno origine a degrado, attivazione radioattiva, la necessità di frequenti manutenzioni e infrastrutture costose. Il trizio, combustibile chiave del ciclo deuterio-trizio, non è disponibile in grande quantità e va prodotto o rigenerato, cosa che oggi aggiunge un costo significativo e un grado di complessità. Infine, la tempistica e l’economia. Se la fusione dovesse arrivare troppo tardi rispetto alle esigenze della decarbonizzazione globale (entro il 2050) o restare troppo costosa, rischia di rimanere una tecnologia complementare piuttosto che protagonista.
Per quanto riguarda il trilemma energetico e, quindi, la necessità di bilanciare i tre elementi chiave del settore energia (approvvigionamento, sostenibilità amvbientale e accessibilità), la tecnologia di fusione può giocare un ruolo centrale, anche se non esclusivo. In termini di domanda crescente, può fornire energia di base stabile, utile in contesti in cui le fonti intermittenti (come solare ed eolico) mostrano i propri limiti o richiedono costosi sistemi di accumulo. Sull’accessibilità, se il costo dell’investimento e della generazione si abbasseranno e la scala industriale sarà raggiunta, la fusione potrà democratizzare l’energia ad alte prestazioni. Per quanto riguarda l’aspetto della decarbonizzazione, infine, la fusione offre una via che non emette CO₂ e non dipende da combustibili fossili, ma dev’essere realizzata in tempo utile e non dovrebbe distrarre l’azione su altre tecnologie emergenti che possono dare risultati oggi.
La fusione nucleare merita attenzione, speranza, investimenti e un approccio realistico. È più vicina di quanto fosse sino a poco tempo fa ed è realistico sperare, in tempi piuttosto brevi, di realizzare quel salto tecnologico che trasformerà il sistema energetico globale. Ma quel salto non è scritto né scontato: richiede visione, risorse e perseveranza.




