Così l’ormone della felicità può aiutare a frenare il Parkinson

Il Parkinson danneggia il processo di sintesi della dopamina nel cervello. Conoscerne i meccanismi può favorire lo sviluppo di farmaci ad hoc contro le malattie neurodegenerative

di MIT Technology Review Italia

Il nostro cervello è composto da miliardi di cellule nervose impegnate in un costante dialogo fatto di sostanze chimiche chiamate neurotrasmettitori. Uno di questi neurotrasmettitori è la dopamina, nota ai più come ormone della felicità. 

Prodotta in diverse aree del cervello, oltre a procurare un senso di ricompensa e soddisfazione, la dopamina svolge un ruolo importante nell’articolazione del comportamento, della cognizione, della motivazione, ed è fondamentale per il buon equilibrio di sonno, umore, attenzione, memoria di lavoro e di apprendimento. Il ruolo chiave della dopamina diventa particolarmente evidente nei pazienti affetti dal morbo di Parkinson.

Troppo tardi per intervenire

In caso di Parkinson, infatti, le cellule del cervello che sintetizzano e secernono la dopamina muoiono. Chiamate neuroni dopaminergici, queste cellule sono vere e proprie fabbriche di dopamina. I sintomi mentali e fisici tipici del Parkinson si manifestano quando metà di queste cellule ha già cessato di funzionare, ovvero quando la malattia è ormai in stadio avanzato.

Ora, ricercatori della University of Bergen hanno deciso di studiare a fondo il sistema dopaminergico del cervello per scoprire se sia possibile rilevare dei segnali precoci dell’avanzare del Parkinson e di altre malattie simili. Come spiega Marte Innselset Flydal, ricercatrice, “Si potrebbero così sviluppare farmaci capaci di prevenire l’ulteriore progresso della malattia.”

Un enzima alla base di tutto

Sotto la direzione della professoressa Aurora Martinez, i ricercatori hanno deciso di concentrare l’attenzione su di un enzima chiamato tirosina idrossilasi (TH), di cui le cellule produttrici di dopamina abbondano. Gli enzimi sono proteine ​​che agiscono come catalizzatori per le reazioni chimiche del corpo, in particolare grazie alla loro struttura tridimensionale. 

“Tali strutture 3D possono dirci come avvengono i processi cellulari a livello atomico e quindi anche come possiamo trovare un trattamento mirato per correggere eventuali errori negli enzimi, come, ad esempio, quelli provocati da malattie. Nel caso di alcune forme di Parkinson, la malattia si associa ad una carenza di TH,” spiega la professoressa Martinez.

Il compito degli enzimi TH è convertire l’amminoacido tirosina in L-dopa, ingrediente principale della dopamina. Una volta prodotta, la dopamina è capace di autoregolazione, legandosi all’enzima TH per disattivarlo. Tali meccanismi regolatori sono chiamati feedback negativi e assicurano che la sintesi della dopamina sia disattivata se la cellula ha raggiunto la giusta quantità di dopamina.

“Quando il livello di dopamina cala di nuovo, le vie di segnalazione della cellula verranno riattivate,” dichiara Rune Kleppe, ricercatrice coinvolta nello studio. Proprio la descrizione di queste interazioni tra meccanismi regolatori è oggetto dello studio pubblicato sulla rivista Nature.

“Approfondire questa conoscenza offre nuove opportunità per svilupparefarmaci su misura contro le malattie neuropsichiatriche e neurodegenerative”, conclude la professoressa Martinez.

(lo)

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