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Un racconto in tre puntate sull’evoluzione della tecnologia indispensabile per la nostra società connessa: una ricerca da Premio Nobel.

di Luca Longo

Non ci resta che arrenderci: siamo circondati. L’elettricità è tutt’attorno a noi, viviamo completamente immersi in un mondo pieno di dispositivi che funzionano solo grazie all’energia elettrica.

Sembra tutto abbastanza semplice quando pensiamo ai nostri elettrodomestici: hanno un cavo con una spina collegata a una presa nel muro da cui possono prendere tutta la corrente elettrica necessaria per funzionare. Ma quando pensiamo ai nostri smartphone, tablet, notebook, navigatori, droni, rasoi, tosaerba, depilatori, aspirapolvere, monopattini e auto elettriche, viviamo nella paura costante che finisca la batteria, piantandoci sul più bello in mezzo alla strada o, peggio ancora, a metà di una chat sui nostri social preferiti.

Per questo, diventa sempre più importante poter disporre di batterie – il più potente e piccole possibile – in grado di accumulare elettricità e fornircene quanta ce ne serve e quando serve. Finché non raggiungiamo una presa elettrica dove poterle ricaricare.

Anche se non lo sapevamo, dobbiamo ringraziare John B. Goodenough, M. Stanley Whittingham e Akira Yoshino per aver migliorato la nostra vita rendendo meno frequente e meno angosciosa la nostra continua ricerca di una presa elettrica. Evidentemente, l’hanno pensata così anche i membri della Reale Accademia delle Scienze svedese che li hanno premiati col Nobel per la chimica 2019.

Ciascuno dei tre, infatti, ha dato un contributo decisivo per lo sviluppo delle batterie al litio che conosciamo. Anche se sono state ideate mezzo secolo fa, restano ancora oggi le più efficienti e possiamo trovarle ovunque: da quelle quasi microscopiche nelle nostre orecchie se usiamo auricolari wireless, a quelle molto più ingombranti sotto il tappetino delle auto elettriche.

Le prime ricerche per trovare batterie ricaricabili più efficienti e più affidabili di quelle tradizionali a piombo/acido solforico, nichel/cadmio e nichel/metallo-idruro, iniziano negli anni ’70 del secolo scorso spinte proprio dalla prima crisi petrolifera. La ricerca di fonti e vettori energetici alternativi porta a individuare il litio come un possibile candidato per le batterie del futuro.

Il litio, infatti, dopo l’Idrogeno e l’elio, è l’elemento più piccolo della Tavola di Mendeleev, ed è anche l’atomo più piccolo in assoluto che troviamo allo stato solido. Inoltre, può cedere facilmente uno dei suoi tre elettroni diventando uno ione positivo. Ma non basta: questo minuscolo ione positivo può inserirsi all’interno di materiali utilizzabili come elettrodi di una batteria e può muoversi trasportando carica positiva fra un elettrodo e l’altro.

Ma interrompiamo un momento il nostro racconto per ricordarci come funziona una batteria: è un preziosissimo oggetto in grado di accumulare energia elettrica, immagazzinarla come energia chimica e poi rilasciarla di nuovo come energia elettrica al momento giusto. È composta da due elettrodi (l’anodo collegato al polo negativo e il catodo collegato al polo positivo) separati da una membrana semipermeabile che lascia passare solo alcuni ioni trattenendo – o di qua o di là – tutti gli altri componenti della batteria.

Quando vogliamo caricare la batteria, colleghiamo i due poli alla nostra presa elettrica (grazie a un apposito trasformatore che porta la corrente alternata a 220V fino a corrente continua al giusto voltaggio). In questo modo, riusciamo a produrre una reazione chimica, detta ossidazione, con la quale strappiamo alcuni elettroni alle molecole presenti sul catodo e li spingiamo lungo i cavi elettrici fino al polo negativo.

Qui avviene una reazione elettrochimica opposta, detta di riduzione, che permette a ciascun elettrone di raggiungere uno ione positivo (fra poco spiegheremo da dove salta fuori), trasformandolo in un atomo neutro. Quest’ultimo si può così depositare sull’anodo stesso.

Intanto, all’interno della cella, un uguale numero di ioni positivi – cui è stato strappato un elettrone – attraversa la barriera semipermeabile che separa il catodo dall’anodo accumulandosi su quest’ultimo e catturando gli elettroni che vi sono stati portati grazie al circuito elettrico esterno. In questo modo, tutte le cariche elettriche restano sempre bilanciate.

Quando, invece, vogliamo tirare fuori energia dalla nostra batteria, ci basta fare funzionare tutto al contrario: facciamo avvenire una reazione di ossidazione sul polo negativo estraendo tutti gli elettroni che prima vi avevamo accumulato e li usiamo per produrre corrente elettrica.

Questa corrente di elettroni passa attraverso il dispositivo utilizzatore – facendolo funzionare – e poi torna al polo positivo della batteria dove gli elettroni vengono accolti con gioia dagli ioni positivi che intanto sono tornati nel catodo attraverso la barriera semipermeabile e che non vedono l’ora di potersi ricongiungere ciascuno con un elettrone per tornare – grazie ad una reazione di riduzione – atomi neutri, stabili e in pace col mondo. Non proprio con l’elettrone che prima avevano perduto: va bene un elettrone qualsiasi. Tanto sono tutti uguali.

A questo punto, possiamo ricominciare il ciclo di carica e scarica… appena troviamo una presa per ricaricare.

Nella prossima puntata: L’idea innovativa di Whittingham

(lo)