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I colloqui tra i protagonisti della scena mondiale svolgono ancora un ruolo importante, ma sono ormai necessari altri metodi per risolvere il problema dell’inquinamento da gas serra a livello globale.

di James Temple

Migliaia di delegati si incontreranno a Glasgow, in Scozia, nei prossimi giorni per la conferenza annuale delle Nazioni Unite sul clima, dove trascorreranno due settimane a discutere su un lungo elenco di azioni che si sommano a un’unica domanda: sarà abbastanza veloce il mondo a prevenire il riscaldamento catastrofico in questo secolo?

Se la storia insegna qualcosa, non avremo risposta.

Dopo 25 di questi vertici negli ultimi tre decenni, le emissioni globali di gas serra hanno continuato ad aumentare, a parte alcuni cali durante le recessioni economiche. Si prevede che l’inquinamento climatico riprenderà bruscamente nel 2021, quasi ai livelli di picco del 2019, mentre l’economia esce fuori dalla pandemia.

Sei anni dopo che le nazioni hanno aderito all’accordo sul clima di Parigi, i paesi non si sono impegnati a portare avanti le politiche necessarie per ridurre le emissioni in modo da raggiungere l’obiettivo dichiarato dell’accordo: prevenire i 2 °C di riscaldamento globale in questo secolo cercando di limitare l’aumento a 1,5 °C. Inoltre, mancano ancora decine di miliardi di dollari rispetto alla quota di 100 miliardi di dollari in fondi annuali promessi dai paesi ricchi alle nazioni in via di sviluppo per affrontare il cambiamento climatico.

Secondo il “rapporto sul divario delle emissioni” dell’Environment Programme delle Nazioni Unite, pubblicato questa settimana, se ci si limiterà a rispettare gli impegni presi per il 2030 nell’ambito dell’accordo, è probabile che il pianeta si riscaldi di circa 2,7 °C in questo secolo. Se tutto ciò che si farà è rispettare le politiche climatiche già in atto nei diversi stati, l’aumento della temperatura potrebbe superare i 3 °C.

Numerosi studi sostengono che in un mondo più caldo di 3 °C, le barriere coralline probabilmente scompariranno, le calotte glaciali inizieranno a collassarecrisi di siccità centenarie si verificheranno a scadenze ravvicinate in vaste distese del globo e l’innalzamento del livello del mare potrebbe costringere centinaia di milioni di persone a trasferirsi.

“Se l’obiettivo è mantenere un clima sicuro e vivibile per la maggior parte della popolazione mondiale, siamo messi male”, afferma Jessica Green, professoressa associata di scienze politiche all’Università di Toronto che si occupa di governance del clima. “Non siamo neanche vicini a una soluzione”.

Dati i calcoli a breve termine della geopolitica, che sono dominati da considerazioni di vantaggio politico, prestigio internazionale e crescita interna, la mancanza di progressi non è poi così sorprendente. Qualsiasi trattato che coinvolga quasi tutte le nazioni del mondo, dal Protocollo di Kyoto all’accordo di Parigi, deve essere annacquato al punto da non richiedere troppi sacrifici. In base all’accordo di Parigi del 2015, gli obiettivi di emissione sono autodeterminati, volontari e non vincolanti. Non ci sono veri provvedimenti per non aver fissato obiettivi ambiziosi o non averli raggiunti, al di là della “disapprovazione” internazionale.

Ai leader nazionali e al loro popolo viene chiesto di pagare volontariamente ora per benefici che matureranno in gran parte decenni dopo, e non arriveranno affatto se altre nazioni non manterranno i loro impegni. Gli accordi sul clima chiedono anche ai paesi poveri che hanno prodotto piccole frazioni delle emissioni generate da quelli ricchi di frenare la loro crescita e limitare l’accesso dei loro cittadini all’energia e a una migliore qualità della vita, con solo vaghe e poco credibili promesse di assistenza.

Mentre leader e negoziatori si riuniscono a Glasgow, molti osservatori nutrono la speranza che il mondo ricostruirà lo slancio e la fiducia nell’accordo di Parigi. Ma allo stesso tempo, c’è una crescente scuola di pensiero secondo cui il quadro internazionale non permetterà di arrivare mai a importanti riduzioni delle emissioni e potrebbe anche distogliere l’attenzione da altri modelli che potrebbero fare di più. Presto si saprà chi ha ragione. Come lo “zar del clima” degli Stati Uniti, John Kerry, ha di recente dichiarato alla BBC, la conferenza delle Nazioni Unite è “l’ultima speranza per il mondo di agire insieme”.

All’inizio di questo mese, l’Agenzia internazionale per l’energia ha evidenziato i divari tra le politiche climatiche nazionali, gli impegni di Glasgow e ciò che è ancora necessario per azzerare le emissioni entro la metà del secolo.

Progressi limitati

A dire il vero, il mondo ha compiuto alcuni progressi sui cambiamenti climatici, poiché sempre più nazioni si allontanano dal carbone e abbracciano energie rinnovabili e veicoli elettrici sempre più competitivi in termini di costi. Le emissioni globali sembrano in parte appiattirsi, il che potrebbe consentirci di evitare gli scenari di riscaldamento peggiori adombrati alcuni anni fa, di circa 4 C° o più.

La conferenza sarà un test rivelatore della volontà internazionale di progredire su questa strada, perché la maggior parte delle nazioni dovrebbe andare oltre gli impegni sottoscritti a Parigi. Ad aprile, il presidente Biden ha reso ancora più ambizioso l’obiettivo degli Stati Uniti, passando dal 26 al 28 per cento al di sotto dei livelli del 2005 entro il 2025 e a una riduzione dal 50 al 52 per cento entro il 2030. Allo stesso modo, quest’estate, le nazioni dell’Unione europea hanno approvato formalmente la legge europea sul clima, stabilendo un requisito vincolante per cui i membri dovranno ridurre le emissioni del 55 per cento entro il 2030, con l’obiettivo di diventare “climaticamente neutrali” entro il 2050.

Secondo il Climate Action Tracker, un gruppo di ricerca scientifica indipendente, quasi 90 paesi più l’UE hanno presentato nuovi obiettivi per il 2030 come parte del programma delle Nazioni Unite a metà settembre. Più di 70 nazioni, tuttavia, ancora non hanno intrapreso alcuna iniziativa.

Nel frattempo, il premier russo Vladimir Putin si è impegnato a raggiungere la neutralità carbonica entro il 2060, unendosi a un elenco di oltre 100 paesi che hanno dichiarato di voler azzerare le emissioni almeno del principale gas serra entro la metà del secolo. La Cina si era precedentemente impegnata a raggiungere lo stesso traguardo del 2060 e ha recentemente annunciato che smetterà di costruire centrali a carbone all’estero, ribadendo di voler portare avanti il suo piano per raggiungere il picco di emissioni di anidride carbonica entro il 2030. Durante il fine settimana, l’Arabia Saudita ha annunciato piani per raggiungere le emissioni nette zero entro il 2060 e piantare 450 milioni di alberi nei prossimi nove anni.

Ma Kelly Sims Gallagher, direttore del Climate Policy Lab presso la Fletcher School di Tuft, ha affermato che gli obiettivi di metà secolo possono servire come “una distrazione dall’azione a breve termine”. Ha anche sottolineato che le nazioni non stanno facendo abbastanza per attuare politiche interne che forniscano un percorso credibile per adempiere ai loro impegni per il 2030. All’inizio di questo mese, l’Agenzia internazionale per l’energia ha evidenziato i divari tra le politiche climatiche nazionali, gli impegni di Glasgow e ciò che è ancora necessario per azzerare le emissioni entro la metà del secolo.

In effetti, è difficile vedere come gli Stati Uniti raggiungeranno il loro obiettivo del 50 per cento dopo che una misura chiave per ridurre le emissioni del settore energetico sarebbe stata rimossa dal disegno di legge di bilancioUn’analisi pubblicata la scorsa settimana, condotta dai ricercatori energetici di Princeton e Dartmouth, ha scoperto che se passa ogni altra politica climatica nel budget in sospeso e nei progetti di legge sulle infrastrutture, la nazione dovrà ancora smaltire quasi 350 milioni di tonnellate.

Tali carenze ridurranno l’influenza di Kerry nei prossimi colloqui, rendendo più difficile per lui sostenere che altre nazioni debbano intensificare le loro politiche sul clima. Nel frattempo, gli impegni per il 2030 annunciati prima dell’evento non corrispondono ancora a quanto richiesto. Il rapporto del Programma per l’ambiente delle Nazioni Unite stima che le nazioni dovranno eliminare altri 28 miliardi di tonnellate di inquinamento da anidride carbonica nei prossimi nove anni per mantenere il riscaldamento a 1,5 °C in questo secolo, o 13 miliardi di tonnellate per limitarlo a 2 °C.

“Non voglio essere categorico, ma è tempo di guardare in termini realistici a ciò che si può e non si può fare”, afferma Green.

I turisti camminano vicino ai sacchi di sabbia delle Maldive, una nazione di isole basse dove le coste sono state pesantemente colpite dall’erosione mentre il livello degli oceani aumenta. Allison Joyce / Getty ImagesI turisti camminano vicino ai sacchi di sabbia delle Maldive, una nazione di isole basse dove le coste sono state pesantemente colpite dall’erosione mentre il livello degli oceani aumenta. Allison Joyce / Getty Images

Perché non funziona?

Il problema fondamentale è che il cambiamento climatico è un problema enormemente complesso e costoso da risolvere. E per la maggior parte, come sostengono gli studiosi, gli accordi internazionali non sono riusciti ad affrontare le sfide economiche e politiche interne sottostanti. Combattere il cambiamento climatico significa rivedere quasi ogni aspetto del modo in cui il mondo genera energia e produce cibo e beni. Richiede, inoltre, la chiusura o l’adeguamento di migliaia di miliardi di dollari di impianti, fabbriche, macchine e veicoli che in caso contrario continuerebbero a funzionare con profitto per decenni.

Quindi, nonostante i costi in calo delle energie rinnovabili, delle batterie e dei veicoli elettrici, il rapido passaggio a fonti a zero emissioni di carbonio impone ancora prezzi enormi da pagare a nazioni e imprese, indipendentemente dagli eventuali ritorni derivanti dalla creazione di nuove industrie e dalla riduzione dei rischi di accelerare il cambiamento climatico, mettendo anche le potenti industrie che producono emissioni con le spalle al muro.

In un recente articolo su “Foreign Affairs”, l’economista di Yale William Nordhaus sostiene che decenni di negoziati internazionali sul clima sono falliti per tre ragioni chiave: la maggior parte del mondo non ha imputato alcun costo reale all’inquinamento climatico. Non si sta investendo abbastanza per portare l’innovazione nelle tecnologie più pulite. E gli accordi delle Nazioni Unite non hanno risolto il cosiddetto problema del free rider

Fondamentalmente, la maggior parte delle nazioni trarrà gli stessi benefici dall’azione globale per ridurre le emissioni, indipendentemente dal fatto che contribuiscano in modo significativo allo sforzo o meno. Allora perché questi paesi dovrebbero preoccuparsi?

I tagli alle emissioni non avverranno alla velocità e al livello richiesti fino a quando nazioni, patti commerciali o trattati non creeranno incentivi, sanzioni o mandati abbastanza generosi o rigorosi da realizzarli. E ci sono pochi segni che la maggior parte dei paesi accetterà improvvisamente versioni più significative di quelle in discussione a Glasgow.

L’innovazione è lo strumento fondamentale

In quale altro modo il mondo può accelerare i progressi internazionali sul cambiamento climatico? Pur sottolineando che la conferenza delle Nazioni Unite è “un grande evento”, Varun Sivaram, consulente di Kerry, ha affermato che il ruolo più importante che gli Stati Uniti possono svolgere nel ridurre le emissioni oltre i propri confini è nello sviluppo di tecnologie più economiche e a basse emissioni di carbonio.

Finanziando in modo adeguato la ricerca e sviluppo, gli Stati Uniti renderanno più facile e politicamente fattibile per le altre nazioni la decarbonizzazione, ha sostenuto Sivaran durante la conferenza EmTech di “MIT Technology Review” alla fine del mese scorso. Ciò sarà particolarmente vero per le economie emergenti che rappresenteranno la maggior parte della crescita delle emissioni nei prossimi anni. “Lo strumento numero uno che gli Stati Uniti hanno a disposizione per accelerare la transizione energetica in tutto il mondo è l’innovazione”, ha affermato.

Altri sottolineano l’importanza e le potenziali ricadute delle iniziative locali. In un articolo della fine dell’anno scorso apparso sulla “Boston Review”, Charles Sabel della Columbia Law School e David Victor dell’Università della California, a San Diego, hanno evidenziato la necessità e i primi successi di ciò che descrivono come “governance sperimentalista”.

In questo modello, le istituzioni più piccole che non hanno bisogno di ottenere un consenso globale, come gli stati o le agenzie di regolamentazione specifiche del settore, possono stabilire standard rigorosi e vincolanti che determinano cambiamenti più ampi in particolari industrie inquinanti. Sono anche in grado di adattare le loro strategie nel tempo in base ai risultati. La speranza è che una varietà di governi o enti regolatori che provano una varietà di approcci possa fornire indicazioni su cosa funziona e cosa non funziona e guidare un processo che renda più economico e più facile attuare politiche di riduzione delle emissioni e adottare tecnologie più pulite.

L’articolo indica le regole rigide e in continua evoluzione della California sull’inquinamento atmosferico dei veicoli e sulle emissioni di carbonio. Le normative statali hanno costretto l’industria automobilistica, che non vuole produrre una varietà di modelli per mercati diversi, a trovare modi per produrre veicoli sempre più efficienti dal punto di vista dei consumi. Hanno anche contribuito sostengono gli autori, ad accelerare lo sviluppo dei veicoli elettrici.

Un altro esempio sono le politiche “aggressive” della Germania in materia di energie rinnovabili e gli investimenti in ricerca e sviluppo, che hanno contribuito a creare un primo mercato per i pannelli solari, riducendo al contempo i costi per il resto del mondo. Victor dice che l’accordo di Parigi mette una certa pressione su aziende e governi e fornisce una bussola che guida il mondo verso “obiettivi che non sono realizzabili”, ma si muovono in buona parte nella giusta direzione.

Ma, a loro parere, il ruolo dell’accordo è “considerevolmente più limitato” di quanto credano i sostenitori. “E”, si domandano, “se l’unico modo pratico per arrivare a una soluzione globale praticabile fosse incoraggiare e mettere insieme quelle parziali?”. “E se il modo migliore per costruire un consenso effettivo non fosse chiedere chi si impegnerà a raggiungere determinati risultati, qualunque cosa accada, ma invitare le parti a iniziare risolvendo i problemi a livelli diversi?”

Il club del clima

C’è anche una crescente convinzione che gruppi ristretti di governi o istituzioni debbano emanare regole o definire misure commerciali che instradino la politica climatica su un sistema di chiari benefici o sanzioni severe. Victor Nordhaus e altri hanno sostenuto l’importanza dei cosiddetti club del clima, che inizialmente sono abbastanza piccoli da stabilire regole più rigide, ma includono incentivi che possono attirare più membri e incoraggiarli a impegnarsi verso obiettivi sempre più avanzati.

Questo approccio potrebbe assumere una varietà di forme, inclusi mercati regionali del carbonio e patti commerciali tra poche nazioni con impegni comuni sulle emissioni o programmi congiunti per perseguire l’innovazione tecnologica in aree chiave. Un esempio è l’inasprimento delle norme sul clima all’interno dell’Unione europea. Oltre a fissare un obiettivo vincolante di riduzione delle emissioni tra i paesi membri, la Commissione europea sta adottando misure per aumentare il costo dell’inquinamento da carbonio, ridurre le quote di carbonio gratuite per settori industriali come il cementifero e l’acciaio e istituire una tassa alle frontiere sul carbonio per le merci provenienti da paesi o aziende che inquinano maggiormente.

In combinazione con politiche climatiche più rigorose, finanziamenti per la ricerca e sviluppo e accordi di acquisto sostenuti dal governo all’interno di alcune nazioni europee, queste normative stanno iniziando a produrre cambiamenti reali e relativamente rapidi nell’industria pesante in Europa. Tale progresso include una crescente varietà di progetti di idrogeno verde e acciaio pulito.

Una caratteristica cruciale di qualsiasi club per il clima è la capacità di attirare più membri nel tempo, ha detto Nordhaus in una e-mail. La molla principale è il potenziale per altre nazioni e le loro aziende di vendere i loro prodotti sul mercato a condizioni simili. Ciò dovrebbe incentivare altri paesi o aziende straniere ad adottare gli standard richiesti per l’ammissione, sia che ciò significhi un prezzo comune del carbonio o ambizioni politiche relativamente simili.

L’ostruzionismo delle aziende più potenti

Ci sono alcune ovvie sfide impegnative in questo approccio. Innanzitutto la creazione di un patto commerciale complesso può richiedere facilmente anni e il mondo ha bisogno di ridurre rapidamente le emissioni ora. In secondo luogo potrebbe produrre una miriade di regole contrastanti che si rivelano difficili da conciliare, con gruppi di nazioni che fanno molto e altre poco. Infine, potrebbe creare alleanze commerciali sempre più frammentate in tutto il mondo, con blocchi di attori climatici “buoni” e “cattivi” che commerciano principalmente tra loro. Questi patti potrebbero approfondire le divisioni internazionali e persino aumentare il livello di conflittualità che potrebbero manifestarsi in altri modi potenzialmente pericolosi.

Ci sono anche chiari problemi di equità globale nel chiedere che le nazioni povere – che storicamente non hanno emesso così tanto e non possono permettersi di decarbonizzare così rapidamente – siano tenute agli stessi standard di quelle più ricche, o soggette a tasse alle frontiere sul carbonio che minacciano di rallentare la loro crescita economica.

Green dell’Università di Toronto afferma che c’è un problema più basilare che blocca il progresso climatico: l’ostruzionismo da parte di industrie politicamente influenti che traggono profitto dall’inquinamento dell’atmosfera. Queste aziende hanno troppo potere politico, sostiene, e poco cambierà fino a quando non si modificherà la situazione. Prima che le nazioni possano aumentare i loro impegni internazionali, almeno in modi credibili, devono superare questi ostacoli costruendo coalizioni abbastanza grandi da far passare leggi o regolamenti coraggiosi.

Niente di tutto questo è particolarmente semplice e rapido. La dura verità è che è quasi certo che il pianeta supererà 1,5 °C e molto probabilmente i 2 °C in questo secolo, qualunque cosa accada a Glasgow. Ma ogni decimo di grado in più significa effetti sempre più devastanti del cambiamento climatico. Questa considerazione da sola dovrebbe fornire l’incentivo necessario per coloro che si riuniscono alla conferenza per ottenere un qualsiasi progresso e anche per gli stati, le nazioni e le altre istituzioni per trovare altri modi per andare avanti.

(rp)

*foto AP Photo / Kirsty Wigglesworth