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Sistemi di produzione energetica sostenibili che hanno origine dalle attività stesse delle fattorie stanno rivoluzionando radicalmente il modo di fare impresa agricola in Africa e nel mondo, a beneficio della popolazione, dell’ambiente e del rendimento produttivo.

di Francesco Pacifico (Fonte Abo/Oil)

Alla Samburu Community Farm, nel villaggio keniano di Maralal, le interruzioni alla corrente elettrica si susseguivano senza sosta.

La cooperativa, che vuole insegnare al popolo Samburu come sostenersi nel rispetto della natura e delle tradizioni, era costretta ad affidarsi a generatori a gasolio. Troppo costosi e inquinanti. Poi, grazie all’associazione Etica nel Sole e alla Fischer Italia, è stato installato un impianto fotovoltaico stand alone e adesso la produzione di yogurt o gelati non ha più interruzioni.

In Etiopia, da sempre sinonimo di malnutrizione, l’insegnamento di tecniche di agricoltura sostenibile ha permesso a migliaia di donne di uscire dalla povertà, ottenere un salario più alto della media locale (300 euro all’anno), strappare un riconoscimento sociale. Tanto che l’80% delle aziende del settore, in tutta l’Africa Subsahariana, è a gestione femminile.

La multinazionale Unilever, in Sud Africa, ha stretto una partnership con i contadini della provincia di Limpopo: ha fornito loro semi di girasole con l’obiettivo di ridurre la dipendenza del paese dalle importazioni di olio di girasole, e su 30.000 ettari di terreno, ha introdotto colture bio-sostenibili certificate, per tagliare del 20 per cento l’uso delle petrolio e le conseguenti emissioni. Tanto è bastato anche per riequilibrare i rapporti di forza tra campesinos, proprietari terrieri, gestori dei silos e distributori.

Risparmio e riscatto, è l’agricoltura 2.0

In Africa, una persona su quattro patisce la fame, scontando così le guerre, la siccità e le sperequazioni tra ricchissimi e poverissimi. Ma rispetto alle tante campagne umanitarie promosse dagli Stati occidentali o alle distribuzioni di derrate organizzate dalle charity di tutto il mondo, finisce per avere un impatto maggiore e più profondo il modello delle fattorie etiche. Che ovunque – non soltanto nel Continente nero – sta stravolgendo dal basso gli equilibri e le meccaniche del settore primario.

La fattoria sociale è la frontiera 2.0 dell’agricoltura. A monte c’è la materializzazione di decenni d’investimenti tecnologi per ridurre il consumo di acqua, lo spreco di carburanti (con annesse emissioni) e lo sfruttamento dei terreni. Perché, come hanno insegnato gli israeliani, basta una goccia per far crescere rose o pompelmi grossi come meloni nel deserto. Infatti, le serre possono trasformarsi in un campo fotovoltaico; l’acqua sanitaria a caldissima temperatura per la pastorizzazione diventa “combustibile” per il solare termico; la depurazione delle acque reflue aiuta un mondo che destinate ai campi il 70 per cento dell’oro blu; i trattori sono a trazione elettrica e tutti i residui delle lavorazioni diventano biomasse.

Ma accanto c’è anche la volontà di trasmettere attraverso la terra programmi socio-educativi, per facilitare il reinserimento lavorativo delle categorie più disagiate. Tutto questo a monte, perché a valle c’è il lavoro di migliaia di persone che, nel contempo, chiedono maggiore dignità sociale e vogliono coltivare la terra e allevare gli animali nel rispetto della natura e nel tentativo di restituire sapori e tradizioni, che la massificazione sta via via riducendo. Il che vuol dire evitare o ridurre l’uso di pesticidi e erbicidi, garantire agli animali ampi spazi dove pascolare o razzolare.

Investimenti tra i ricchi quanto tra i poveri

Tecnologia, sostenibilità, tentativo di riscatto sociale e – soprattutto – risparmio energetico: la formula “fattoria etica” racchiude tutto questo. E il modello si sta sviluppando, indifferentemente, sia nei paesi ricchi che in quelli poveri. Per esempio a Piction, nella regione canadese dell’Ontario, John e Michelle hanno rivoluzionato la loro “Nyman Farm”. In meno di 80 acri di terra, i due hanno sempre prodotto formaggi e allevato polli e bovini secondo i metodi convenzionali. Poi si sono accorti che lo sciroppo di acero prodotto grazie all’albero di famiglia stava cambiando sapore. Da qui la svolta. Nel 2006 hanno lanciato il primo programma di “Agricoltura comunitaria di sostegno” della regione per fornire manzo, maiale, pollo e agnello certificati e allevati secondo standard etici. «Non siamo estremisti, siamo trasparenti. I nostri clienti sanno esattamente quello che stiamo facendo per fornire loro la carne. Rispondiamo alle domande che ci rivolgono e siamo felici di discutere delle nostre scelte di allevamento», dicono.

In California il gruppo La Humane Society è riuscito a imporre allo stato più ricco degli Usa una legge che costringe gli allevatori a crescere galli e galline in aie che permettono agli animali di “sdraiarsi, alzarsi, allungare gli arti e girare liberamente”. E i legislatori locali lo hanno fatto ben sapendo che – come hanno dimostrato tanti studi del settore – il sistema delle gabbie ha aumentato la produzione di uova del 71 per cento nell’ultimo cinquantennio e permesso una gestione più virtuosa delle “emissioni” dei polli stessi. Ma a scapito della qualità della carne e delle uova stesse, come dimostra l’uso di estrogeni e di altri coadiuvanti.

L’insalata targata Enea

Anche l’Italia si fa valere nel comparto. Sono 1.200 le fattorie etiche o sociali censite nel paese (circa un terzo del settore, ma ancora la metà rispetto alla realtà francese). Alla base spesso ci sono storie spesso tormentate, come quella di Fabio e Paola che nel 1990 hanno trasformato la storica Cascina Lago Scuro, in Lombardia, in un’azienda biologica, tenendo poche vacche che mungevano a mano. Ora ne hanno un’ottantina, che hanno permesso loro di creare un caseificio aziendale.

Ma il Belpaese, dove l’Emilia Romagna ha approvato nel 2009 una legge per il riconoscimento delle attività sociale che tutto il mondo prende a modello, è all’avanguardia anche sul versante tecnologico.

All’Expo, lo scorso luglio, l’Enea ha presentato il primo modello di “Fattoria verticale italiana”: si tratta di una serra alta 5 metri , dove sono vietati i pesticidi e tutto si muove nella logica di zero km e zero consumo di suolo. Infatti, le piante (al momento sono state testate lattuga e basilico) sono coltivate su più strati, in cubetti di torba pressata, immersi in acqua con soluzioni a riciclo continuo, mentre alle lampade tradizionali per favorire il ciclo della fotosintesi sono state sostituite con strumentazioni a led.

I risparmi? Incommensurabili, visto che l’Enea promettere un raddoppio dei cicli di raccolta e un risparmio del 95 per cento di acqua. E quest’insalata che necessita di 2 soli litri contro i tradizionali 40-45 per ogni chilo è anche buona.

L’articolo è disponibile anche su abo.net

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