La fame d’energia del Dragone

Nonostante le stime sulla crescita economica cinese risultino al ribasso per i prossimi 3 anni, non è plausibile imputare a Pechino il nuovo crollo dei prezzi del petrolio, visto che le ultime proiezioni della IEA descrivono una richiesta di greggio in salita, per quest’anno, di circa il 3%.

di James Crabtree

Da giugno a oggi, il principale mercato azionario cinese ha registrato una contrazione di circa un terzo. L’attività manifatturiera è in calo. Quasi nessuno crede ai dati del Governo che danno il colosso asiatico in procinto di raggiungere il tasso target di crescita del 7% entro l’anno. Sono sempre più forti le voci che preannunciano un rallentamento dell’economia o persino una crisi a tutti gli effetti. Poiché la Cina è il più grande importatore di petrolio mondiale, dobbiamo dedurne che si stia prospettando all’orizzonte una crisi mondiale dei mercati energetici? No, o almeno non ancora. 

Il motivo di preoccupazione riguarda il ruolo della Cina come principale fonte della domanda di energia. Se l’economia cinese dovesse bloccarsi, una parte di quella domanda verrebbe meno, proprio in una fase in cui il prezzo del petrolio è già basso: in agosto è sceso sotto la soglia di $40 per la prima volta dal culmine della crisi finanziaria mondiale del 2009. Una contrazione importante dell’economia potrebbe avere gravi ripercussioni sui produttori di petrolio che vendono alla Cina, ma anche su quelli che esportano verso altri Paesi le cui economie sono fortemente correlate a quella cinese, come l’Australia e la Germania. 

Pechino chiede ancora molta energia

In ogni caso è opportuno notare che l’appetito per il petrolio della Cina è ancora in aumento. È vero che, stando ai dati ufficiali, tra giugno e luglio la domanda ha registrato una lieve diminuzione. Anche il calo delle vendite di auto, tendenza che pare destinata a proseguire per il resto dell’anno, porta a una riduzione della richiesta di petrolio. Ma i dati di luglio risultano ancora decisamente superiori a quelli del luglio scorso. Secondo le ultime proiezioni della International Energy Agency, la domanda di greggio cinese quest’anno è salita di circa il 3%. 

Questi dati potrebbero essere ormai superati e andrebbero rivisti al ribasso. Ma anche così la crescita della domanda cinese per quest’anno risulterebbe essenzialmente invariata, non in calo. Anche dopo la recente svalutazione del renminbi, è ancora probabile che la Cina continui a fare scorta di petrolio. Allo stesso modo, se è vero che la Cina è ancora il più importante driver di crescita della domanda, il suo ruolo è meno determinante rispetto ad altre commodity. Come si evince da alcuni dati recentemente pubblicati da Macquarie, la percentuale attribuibile alla Cina della crescita della domanda mondiale di petrolio di quest’anno è del 12%, mentre è meno della metà per altre commodity, come il carbone e il minerale di ferro. 

Tutto considerato, ben pochi elementi dimostrerebbero che la flessione congiunturale della Cina abbia avuto un ruolo centrale nella recente flessione del prezzo del petrolio. Anche un ulteriore modesto rallentamento nel prossimo anno non dovrebbe provocare un crollo dei prezzi petroliferi. Nonostante la Cina sia in difficoltà, la domanda globale di petrolio resta in genere stranamente vivace, tanto che l’IEA nelle sue ultime stime ha rivisto al rialzo la prevista produzione mondiale per il resto di quest’anno.

L’offerta mondiale in attesa dell’Iran

Piuttosto, il fattore più significativo di instabilità dei mercati energetici è l’aumento dell’offerta. Qui c’è più motivo di preoccuparsi. L’Arabia Saudita non sembra intenzionata a mettere in discussione la sua politica di produzione. Il Presidente Obama è riuscito a ottenere il supporto del Senato per approvare l’accordo sul nucleare con l’Iran, che aumenta le probabilità di un imminente ingresso delle esportazioni petrolifere iraniane in un mercato mondiale già saturato. Ci vorranno diversi anni prima che domanda e offerta tornino in equilibrio. 

La questione più preoccupante riguarda i possibili effetti di un crollo della Cina. Recentemente Goldman Sachs ha abbassato le sue stime di crescita per i prossimi 3 anni, pur mantenendosi intorno al 6%. Ma molti economisti in questo momento diffidano di queste proiezioni tanto quanto dei dati ufficiali. La scorsa settimana, dalle pagine del Financial Times, Martin Wolf ha lanciato l’allarme per quella che ha definito la “discontinuità economica” della Cina, ossia una crisi causata da un debito stratosferico e da una cattiva gestione finanziaria. 

Se dovesse concretizzarsi, l’impatto sulla domanda globale di energia sarebbe pesante. Tuttavia, lo scenario più probabile resta quello di un rallentamento graduale, con una fase di passaggio più ampia, in cui all’era della corsa all’importazione di energia seguirà un periodo di crescita più modesta, in cui la Cina sarà in breve tempo raggiunta dall’India, che diventerà la più importante nuova fonte di domanda. Comunque sia, la crisi della Cina avrà pesanti ripercussioni. Servirà anche a ricordare il nuovo ruolo di primo piano del Paese nel sistema energetico mondiale. Ma, a meno che l’economia cinese non registri un forte peggioramento, molto più in rapido di quanto preveda la gran parte degli analisti, è improbabile che si traduca in un disastro.

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(sa)

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