Una nuova idea di privacy prevale nell’epoca del trionfo delle vanità.
di Mark Williams
All’inizio del 2007, la rivista “New York” ha pubblicato un lungo articolo dal titolo Tutto in piazza. Sottotitolato I ragazzi, Internet e la fine della privacy: il più grande salto generazionale dal rock and roll, il pezzo giornalistico sottolineava che circa il 60 per cento dei giovani americani ha già pubblicato dati biografici e immagini su MySpace, Facebook, You Tube o su siti simili appartenenti alle reti sociali. La giornalista del “New York” ha dato grande risalto al fatto che “i ragazzi” la facessero “sentire molto, molto vecchia”. Non solo accettavano con indifferenza che particolari della loro vita venissero visti su Google da chiunque in qualsiasi momento, ma ritenevano con una certa presunzione di avere un pubblico interessato a quanto accadeva loro. Alcuni consideravano le posizioni sulla privacy di quelli più anziani come una forma di pensiero retriva e stravagante, alla stregua di una ossessione narcisistica. A una ragazza è stato chiesto cosa ne pensava di un materiale a sfondo sessuale con giovani adolescenti della sua età pubblicato su Internet senza il permesso dei soggetti direttamente interessati. “Che sia o non sia documentato in rete per altre persone che possono o non possono vederlo, l’importante è che tu non lo stia più facendo”, ha risposto la ragazza. “Quindi mi domando: perché nasconderlo?”.
Alcuni eminenti tecnologi sono arrivati all’incirca alla stessa conclusione, anche se con maggiore riluttanza. Come ha sostenuto nel 1999 Scott McNealy, presidente di Sun Microsystems, “La privacy è comunque inesistente. Tanto vale non farci caso”. L’idea che diverse forme di controllo siano già onnipresenti ha indotto David Brin a sostenere, nel suo libro del 1998 The Transparent Society, che l’unica nostra scelta reale è tra una società che offre l’illusione della privacy, restringendo il potere di controllo alle autorità, e una che allarga questo potere alle masse. Brin preferisce la seconda.
Se non si concorda con questa conclusione, ci si può avvicinare al polo opposto: l’assolutismo di organizzazioni come l’Electronic Privacy Information Center, l’Electronic Frontier Foundation e l’ACLU, che tendono a definire qualsiasi collezione e analisi di dati personali da parte degli enti governativi (e in minor misura dalle aziende) come una violazione potenziale del Quarto Emendamento della Costituzione americana che prevede per i cittadini il diritto di “essere protetti nelle loro persone, abitazioni, giornali ed effetti personali contro attacchi e ricerche irragionevoli “.
Ma queste due posizioni possono apparire, persino a chi le propone, più teoriche che pratiche. Fortunatamente, The Future of Reputation: Gossip, Rumor, and Privacy on the Internet di Daniel J. Solove, professore associato di diritto alla Facoltà di Giurisprudenza della George Washington University, offre nuove alternative.
Il libro non si preoccupa molto della tradizionale bestia nera dei sostenitori della privacy: lo stato di sorveglianza. Solove si interessa a problemi più concreti. Oggi, grazie a Marshall McLuhan, siamo ormai abituati a parlare di “villaggio globale”. Ma tradizionalmente nei villaggi tutti sapevano tutto di tutti; la privacy personale e l’anonimato sono costruzioni sociali che hanno acquisito la loro legittimità attuale nel momento in cui un numero crescente di persone ha iniziato a spostarsi nelle città nel XVIII e XIX secolo. Comunque, la privacy rimane semplicemente, come ha detto Alan F. Westin, professore emerito di diritto pubblico alla Columbia University, “la pretesa di singole persone, gruppi o istituzioni di determinare per loro stessi quando, come e fino a che punto l’informazione che li riguarda possa essere comunicata agli altri”. Questa pretesa aveva molta meno forza nelle comunità più piccole in cui una volta viveva la maggior parte della popolazione; queste comunità infatti detenevano il potere di far rispettare le norme sociali distruggendo o rafforzando la reputazione dei cittadini. Nel 1910 lo scrittore John Jay Chapman ha offerto una testimonianza eloquente della diffusione di questo potere: “Se un uomo riesce a resistere alle pressioni dei suoi concittadini, se riesce a mantenersi libero dalla tirannia dei pettegolezzi dei vicini, il mondo non lo può più spaventare: non esiste una seconda inquisizione”.
In realtà, come mette in evidenza Solove, lo stato attuale di Internet permette ai “cittadini della rete” di agire in modo pressoché letale. Per avere un esempio delle possibilità inquisitorie offerte dal villaggio globale digitale, spiega Solove, è sufficiente prendere in considerazione l’esempio di una giovane donna che nel 2005 ha permesso al suo piccolo cane di defecare all’interno di una vettura della metropolitana sudcoreana, ignorando i successivi inviti degli altri passeggeri a pulire il pavimento. Qualcuno ha ripreso la scena e ha pubblicato le immagini su un blog. In poche ore le foto apparivano su una decina di altri blog; in pochi giorni, la giovane donna era stata identificata, la storia era arrivata sui giornali e in tv e milioni di persone la conoscevano come gae-ttongnyue, o “la ragazza della cacca del cane”. Il risultato fu che la ragazza si ritirò dall’università.
O si prenda il caso di Jessica Cutler, una giovane segretaria di un senatore statunitense, che nel 2004 ha cominciato a tenere un blog con lo pseudonimo Washingtonienne. Solove racconta che il blog della Cutler “descriveva le sue avventure quotidiane… che consistevano in una serie di incontri amorosi con diversi uomini”. Il blog parlava di sei uomini; Cutler commentava accuratamente le loro richieste e le loro “prestazioni” sessuali. Il sito di pettegolezzi Wonkette.com (il Dagospia statunitense) segnalò il blog della Cutler ai suoi lettori e a questo punto scoppiò l’apocalisse. Alla vicenda si appassionarono anche il “Washington Post”, il “New York Times” e la CNN e la giovane segretaria si ritrovò con un contratto da 300.000 dollari per un suo futuro libro e un servizio fotografico su “Playboy”. La situazione peggiorò, fa notare Solove, a causa di uno degli ex fidanzati di Cutler, un avvocato, che non sapeva che i resoconti dei loro incontri si trovavano su Internet. Cutler aveva usato le sue iniziali e menzionato che l’avvocato lavorava per lo stesso senatore che l’aveva assunta, svelando praticamente l’identità dell’uomo e le sue particolari fissazioni. “RS” lasciò il suo lavoro e intraprese un’azione legale contro la Cutler per invasione della privacy. La causa è seguita con attenzione dai gruppi che difendono la privacy per il precedente che potrebbe costituire nel caso che gli autori dei blog fossero obbligati a proteggere la privacy di coloro che menzionano nei loro diari on line. Solove fa notare che è sempre stato difficile trovare una forma di equilibrio tra il diritto alla privacy e la garanzia di libera espressione del proprio pensiero garantita dal Primo Emendamento; il caso Cutler, con aspetti al limite del grottesco, mostra che Internet ha reso il dilemma ancora più preoccupante.
Solove descrive una serie di siti allestiti per infangare la reputazione delle persone. Sul fronte meno impegnato si trova Bitterwaitress.com con la sua banca dati per la ricerca della “mancia più schifosa”, al cui interno sono allegati i nomi dei “colpevoli” e il posto che occupano nella classifica dei taccagni. Siti più aggressivi come “Non uscite con lui” sono in grado potenzialmente di creare un danno maggiore alle persone che menzionano. Al lato più oscuro si entra in contatto con siti estremi come Nuremberg Files, che traccia il profilo di medici che effettuano aborti. Fino a quando non è stato costretto a bloccare la sua attività, il sito offriva una lista dei medici feriti da attivisti antiabortisti in caratteri grigi e sbarrava con una linea i nomi di quelli che erano stati uccisi.
Solove pensa che ci sia un largo spazio per interventi legislativi, anche se non condivide forme di regolamentazione autoritaria che vietino alcuni tipi di attività o discorsi. Egli ritiene inoltre che le persone che si sentono diffamate on line abbiano diritto a ricorrere a cause civili e al rispetto della legge sulla privacy, ma che queste aree debbano essere ridefinite. Prima di procedere con il processo, secondo Solove, i querelanti dovrebbero dimostrare, in primo luogo, che hanno già richiesto un risarcimento al di fuori del tribunale e, in secondo luogo, che le persone citate in giudizio si sono rifiutate di rimuovere il materiale incriminato o che il danno subito è grave e irreparabile.
Al di là delle indicazioni legali di Solove, risulta un quadro chiaro di quanto la diffusione di Internet abbia modificato questioni fondamentali legate alla privacy. Tradizionalmente, ricorda Solove, la legge ha guardato alla privacy in modo binario: se qualcuno viene filmato in pubblico, quella persona non dovrebbe coltivare aspettative di privacy; chi vuole realmente difendere la privacy, dice in genere la legge, sarebbe dovuto rimanere a casa. Allo stesso modo, se qualcuno comunica un’informazione personale – per esempio, di essere HIV positivo – a un circolo fidato di 50 conoscenti e uno di loro diffonde la notizia oltre la “ristretta” cerchia, la legge non facilita chi vuole intraprendere una causa per violazione della riservatezza. Solove crede che dovrebbe essere più rischioso per chiunque tradire la fiducia in questo tipo di situazioni e propone di usare la teoria della rete sociale che analizza le relazioni sociali in termini di nodi (singoli attori all’interno di una rete) e legami (le relazioni tra questi attori), per determinare se esiste una ragionevole pretesa di privacy.
Le proposte di Solove avanzate in The Future of Reputation, se sperimentate, potranno funzionare o fallire. Hanno comunque il pregio di avanzare spunti nuovi di riflessione sul problema della privacy, costringendoci a confrontarci con le tematiche più avanzate poste dalla diffusione di Internet.