Percorsi verso il digitale

L’economia post-industriale ha sempre più bisogno della «materia digitale», in tutte le sue implementazioni. Andrea Granelli, che da tempo si occupa delle relazioni tra la dimensione reale e quella virtuale della produzione, ha dedicato il suo ultimo saggio, Artigiani del digitale, alle modalità di connessione tra queste due dimensioni. Di questi «percorsi verso il digitale»pubblichiamo alcuni stralci del capitolo dedicato alle «interfacce», uno dei concetti più complessi e determinanti della civiltà tecnologica.

di Andrea Granelli

Le interfacce sono un elemento fondativo e non accessorio delle nuove applicazioni digitali. Dare senso alle applicazioni digitali è, oggi, uno dei compiti fondamentali di chi si occupa di innovazione e consiste nel ricomporre il disorientamento che nasce quando non si riesce a «spiegare» un oggetto in base al suo funzionamento o – detto in altri termini – vedere le funzionalità di un oggetto come parti di un unico comportamento «sensato». Ciò richiede di collegare le finalità dichiarate dell’oggetto con l’insieme (spesso apparentemente incomprensibile) delle sue funzioni. Questo problema – nel caso delle tecnologie digitali – è di particolare rilievo visto l’incredibile tasso di innovazione e la notevole complessità cognitiva associata al loro utilizzo.

Dare senso a un «oggetto» innovativo non è un monologo fra l’esperto e l’utente, ma un dialogo fatto di spiegazioni e di affiatamento e che consente non solo una autentica com-prensione della soluzione informatica (dove l’utente «afferra» e «fa sue» le funzionalità), ma pone anche le basi per quella complicità fra utente e progettista, fondamentale per la costruzione di un rapporto solido e continuativo.

La profondità in superficie

Il luogo dove il significato massimamente si concentra è l’interfaccia. «La profondità va nascosta. Dove? In superficie»: questa riflessione di Hugo von Hofmannsthal è un’ottima introduzione al ruolo delle interfacce nella nuova cultura progettuale. Qualsiasi strumento o artefatto deve possedere una componente che permetta all’uomo di utilizzarlo. Ma l’interfaccia non è solo la superficie dove si scambiano le informazioni e si attivano le funzioni. Rappresenta anche la struttura profonda secondo cui informazioni e funzioni si organizzano e un suggerimento – una chiave di interpretazione – per un loro corretto utilizzo. Per fare ciò, deve richiamare qualcosa di noto e simulare, con il funzionamento della macchina, delle situazioni relazionali o delle attività pratiche che l’utilizzatore già conosce. Deve, in parole povere, utilizzare una metafora. Nei computer le metafore che hanno accompagnato l’evoluzione tecnologica sono state la macchina per scrivere, la scrivania, il pannello di navigazione (il browser).

Per un utilizzatore, le interfacce che predilige o le modalità con cui usa quelle disponibili può anche diventare un modo per svelare i suoi meccanismi e il suo mondo interiore.

Nelle interfacce servono delle icone «familiari» che ci rassicurano (le riconosciamo, introducono i fondamentali deja vu anche nell’ambiente digitale, ci ricordano in maniera subliminale che in quel sito ci siamo già stati – non siamo «foresti» – e per questo (ri)troviamo le nostre tracce digitali) e ci tranquillizzano nella progressiva perdita di realtà e sua sostituzione con il virtuale, tipica dell’uso delle soluzioni digitali di nuova generazione. Potremmo chiamarle icone «transizionali» – usando la nota espressione coniata da Winnicott per indicare quegli oggetti (per esempio la famosa coperta di Linus, uno dei mitici personaggi della striscia di fumetti Peanuts) che aiutano il bambino a combattere l’angoscia derivante dall’assenza della madre.

Interfacce naturali e design dominante

Bisogna inoltre introdurre nel digitale il concetto di interfaccia naturale. Ciò richiede una diversa segmentazione dell’utenza. Le storie personali, i gusti estetici, gli stili di relazione e interazione, le aspirazioni e le paure, hanno oramai rilevanza progettuale.

In questo contesto bisogna contribuire a far nascere rapidamente quello che James Utterback chiama «design dominante», e cioè l’interfaccia che conquista le preferenze del mercato, quella a cui «i concorrenti e gli innovatori devono adeguarsi se sperano di ottenere un seguito significativo da parte del pubblico». In poco tempo, la struttura del mercato si capovolge: se prima era composta da molte aziende (spesso piccole) con molti modelli, con l’affermazione di un design dominante ne rimangono poche (talvolta una sola – come potrebbe accadere nel caso dei motori di ricerca) con delle interfacce (e relative funzionalità) molto simili.

è quindi indispensabile che i principali operatori del nostro paese – piuttosto che subire passivamente tutto ciò che arriva dall’altra parte dell’oceano (o d’oltralpe) – puntino a fare emergere un «design dominante italiano» che semplifichi le interfacce, le avvicini alla nostra cultura e le «localizzi» in maniera sostanziale, quando vengono realizzate fuori dall’Italia. Localizzare un programma non vuol dire tradurre i messaggi nel linguaggio del luogo, vuol dire adattarlo al contesto, alle convenzioni, agli stereotipi e alle metafore usate costantemente in quel luogo. Non è un attività automatica, ma un vero atto progettuale, concentrato sulla giusta selezione dei mediatori culturali.

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