Per salvare il capitalismo, si deve ripensare la crescita economica

L’incapacità del sistema di risolvere i problemi più grandi dei cittadini sta spingendo molti a mettere in discussione i precetti di base del capitalismo: la fede nei liberi mercati e la continua crescita economica. 

di David Rotman

Anche prima della pandemia covid-19 e del conseguente collasso di gran parte dell’economia mondiale, una crisi del capitalismo era chiaramente evidente. Il libero mercato senza limiti aveva spinto la disuguaglianza di reddito e ricchezza a livelli estremamente elevati negli Stati Uniti. La lenta crescita della produttività in molti paesi ricchi aveva ridotto le opportunità economiche per una generazione. Le aziende, anche se non erano più del tutto ignare del riscaldamento globale, sembravano impotenti ad apportare cambiamenti che avrebbero potuto rallentarlo.

Infine è arrivata la pandemia, con milioni di persone che hanno perso il lavoro, e subito dopo gli incendi violenti, alimentati dal cambiamento climatico, che hanno divampato su e giù per la costa occidentale degli Stati Uniti. Tutti i segni ribollenti di un sistema economico disfunzionale sono diventati improvvisamente del tutto evidenti, assumendo le dimensioni di disastri in piena regola.

Non c’è da stupirsi che molti negli Stati Uniti e in Europa abbiano iniziato a mettere in discussione le basi stesse del capitalismo, in particolare la sua devozione ai mercati liberi e la sua fede nel potere della crescita economica per creare prosperità e risolvere i nostri problemi. 

Le resistenze al concetto di crescita non sono nuove, come dimostra il termine “decrescita” che è stato coniato all’inizio degli anni 1970. Ma in questi giorni, le preoccupazioni per il cambiamento climatico, così come la crescente disuguaglianza, stanno rafforzando le ragioni di chi avanzava critiche. 

Le richieste di “fine della crescita” non hanno ancora intaccato l’economia, ma gli argomenti a favore della decrescita sono stati accolti da movimenti politici diversi come l’Estinction Rebellion e il movimento su base populista dei Cinque Stelle in Italia. “Tutto ciò di cui parlate sono soldi e favole di eterna crescita economica. Come osate!”, ha tuonato Greta Thunberg, la giovane attivista svedeseche si oppone al cambiamento climatico, a un pubblico di diplomatici e politici alla Climate Week delle Nazioni Unite lo scorso anno.

Al centro del movimento per la decrescita c’è una critica al capitalismo in quanto tale. In Less is More: How Degrowth Will Save the World, Jason Hickel scrive: “Il capitalismo dipende fondamentalmente dalla crescita”. Ma questa crescita, egli spiega, “non vuole raggiungere uno scopo particolare: è fine a se stessa”.

Questa crescita “senza cervello”, spiega Hickel e i sostenitori della decrescita, è molto dannosa sia per il pianeta sia per il nostro benessere spirituale. Abbiamo bisogno, continua Hickel, di sviluppare “nuove teorie dell’essere” e ripensare il nostro posto nel “mondo vivente” (Hickel parla anche di piante intelligenti e della loro capacità di comunicare). Finora, si è tentato di liquidare tutto come se riguardasse più l’ingegneria sociale dei nostri stili di vita che le riforme economiche effettive. 

Anche se Hickel, un antropologo, avanza alcuni suggerimenti (“tagliare la pubblicità” e “porre fine all’obsolescenza pianificata”), non ci sono molte indicazioni precise sui passaggi pratici che farebbero funzionare un’economia senza crescita. Sembra evidente che parlare di intelligenza vegetale non risolverà i nostri guai, non sfamerà le persone affamate né creerà lavori ben retribuiti. 

Tuttavia, il movimento per la decrescita ha indubbiamente ragione su un punto: di fronte al cambiamento climatico e alle lotte per la sopravvivenza economica da parte di molti lavoratori, il capitalismo mostra di non offrire risposte convincenti. 

La crescita economica è lenta

Anche alcuni economisti che non condividono del tutto la logica della decrescita stanno mettendo in dubbio la cieca devozione alla crescita economica. Un fattore ovvio che scuote la loro fede è che la crescita è stata di basso livello per decenni. Ci sono state eccezioni a questa lentezza economica: gli Stati Uniti durante la fine degli anni 1990 e l’inizio degli anni Duemila e i paesi in via di sviluppo come la Cina nel tentativo di recuperare il ritardo accumulato in precedenza.

Ma alcuni studiosi, in particolare Robert Gordon, il cui libro del 2016 The Rise and Fall of American Growth ha innescato molte ricerche sulla direzione economica da intraprendere, si stanno rendendo conto che la crescita lenta potrebbe essere la nuova normalità, non una fase di passaggio occasionale per gran parte del mondo. 

Gordon ha affermato che la crescita “è terminata il 16 ottobre 1973 o giù di lì”, scrivono gli economisti del MIT Esther Duflo e Abhijit Banerjee, che hanno vinto il premio Nobel 2019, in Good Economics for Hard Times. In accordo con Gordon, hanno individuato il giorno nella data in cui è iniziato l’embargo petrolifero dell’OPEC. Da allora, la crescita del PIL negli Stati Uniti e in Europa non si è mai ripresa completamente. 

La coppia di economisti ovviamente non crede che la la crescita si sia fermata un giorno in particolare, ma il concetto di fondo rimane valido: una crescita apparentemente robusta è venuta meno quasi dall’oggi al domani e nessuno sa cosa sia successo. Duflo e Banerjee offrono possibili spiegazioni, ma solo per poi respingerle.

“La linea di fondo è che, nonostante l’impegno di generazioni di economisti, i meccanismi profondi di una crescita economica persistente rimangono sfuggenti”, spiegano, “né sappiamo come rianimarli. Potrebbe essere giunto il momento di abbandonare l’ossessione che abbiamo per la crescita”, essi concludono. In questa prospettiva, la crescita non è il versante malato del capitalismo di oggi, ma – se misurata dal PIL – è qualcosa che sta perdendo di rilevanza. 

La crescita lenta non è nulla di cui preoccuparsi, afferma Dietrich Vollrath, economista dell’Università di Houston, almeno non nei paesi ricchi. È in gran parte il risultato di tassi di natalità più bassi – una forza lavoro in diminuzione significa meno produzione – e un passaggio ai servizi per soddisfare le richieste dei consumatori più benestanti. In ogni caso, dice Vollrath, con qualche piccola modifica, potremmo anche abbracciare una crescita lenta”.

L’economista di Houston dice che quando il suo libro Fully Grown: Why a Stagnant Economy Is a Sign of Success è uscito lo scorso gennaio, “è diventato un must tra chi propugna la decrescita”. Ma, a differenza di loro, Vollrath è indifferente alla crescita in quanto tale, ma vuole spostare la discussione sui modi per creare tecnologie più sostenibili e raggiungere altri obiettivi sociali, indipendentemente dal fatto che i cambiamenti stimolino la crescita o meno. “Ora si sta verificando una disconnessione tra il PIL e il miglioramento della situazione dei paesi”, egli conclude.

Il problema è vivere meglio

Secondo il Social Progress Index, pubblicato alla fine dell’estate da un think tank con sede a Washington, anche se gli Stati Uniti rappresentano la più grande economia del mondo secondo il PIL, la nazione ha scarse prestazioni rispetto a indicatori come le politiche ambientali e l’accesso a un’istruzione e un’assistenza sanitaria di qualità. Nella classifica annuale (fatta prima della pandemia di covid), gli Stati Uniti si sono piazzati al 28° posto, molto indietro rispetto ad altri paesi ricchi, compresi quelli con tassi di crescita del PIL meno sostenuti.

“Il PIL può crescere a volontà, dice Rebecca Henderson, economista della Harvard Business School, “ma se aumentano i tassi di suicidio e i tassi di depressione, e sale la percentuale di bambini che muoiono prima dei quattro anni, non è il tipo di società ideale”. Dobbiamo “smetterla di fare affidamento totalmente sul PIL”, ella afferma. “Dovrebbe essere solo una misura tra le tante”.

Parte del problema, suggerisce Henderson, è “l’incapacità di immaginare che il capitalismo possa intraprendere politiche diverse, che possa funzionare senza danneggiare il pianeta”. Nella sua prospettiva, gli Stati Uniti devono iniziare a misurare e valutare la crescita in base al suo impatto sul cambiamento climatico e all’accesso a servizi essenziali come l’assistenza sanitaria. “Abbiamo bisogno di una crescita consapevole”, afferma Henderson, “non della crescita ad ogni costo”.

Daron Acemoglu, un altro economista del MIT, chiede una “nuova strategia di crescita” volta a creare le tecnologie necessarie per risolvere i nostri problemi più urgenti. Acemoglu descrive la crescita odierna come guidata da grandi aziende impegnate nelle tecnologie digitali, nell’automazione e nell’intelligenza artificiale. Questa concentrazione di innovazione in poche aziende dominanti ha portato alla disuguaglianza e, in molti casi, alla stagnazione salariale. 

Le aziende della Silicon Valley, egli dice, spesso riconoscono che questo è un problema, ma sostengono: “È il percorso naturale della tecnologia. ” Acemoglu sostiene invece che dipende dalle nostre scelte deliberate sulle tecnologie che inventiamo e utilizziamo. A suo parere, la crescita dovrebbe essere guidata da incentivi di mercato e dalla regolamentazione. Questo è il modo migliore per assicurarci di creare e distribuire le tecnologie di cui la società ha bisogno, piuttosto che quelle che generano semplicemente enormi profitti per pochi. 

Quali sono queste tecnologie? “Non lo so esattamente”, risponde Acemoglu. “Non sono chiaroveggente. Finora non è stata una priorità lavorare allo sviluppo di tali tecnologie e non è possibile essere a conoscenza delle loro potenzialità”.

Trasformare una simile strategia in realtà dipenderà dalla politica. E il ragionamento di economisti accademici come Acemoglu e Henderson, si teme, non godrà probabilmente di grande popolarità, ignorando come fa i rumorosi appelli per la fine della crescita da sinistra e le richieste di libero mercato della destra. Ma per chi non è disposto a rinunciare a un futuro di crescita e alla vasta promessa di innovazione per migliorare la vita e salvare il pianeta, espandere la nostra immaginazione tecnologica è l’unica vera scelta.

Riscrivere il capitalismo: alcune letture obbligatorie

Reimagining Capitalism in a World on Fire
di Rebecca Henderson

Good Economics for Hard Times
di Abhijit V. Banerjee ed Esther Duflo

Fully Grown: Why a Stagnant Economy Is a Sign of Success
Dietrich Vollrath

Less Is More: How Degrowth Will Save the World
di Jason Hickel

Immagine: Errata Carmona

Related Posts
Total
0
Share