Parola di media

Che i media influenzino il linguaggio comune è risaputo; che questa influenza non concerna semplicemente la correttezza del parlare e dello scrivere, ma la stessa percezione della realtà in un senso al tempo stesso enfatico ed eufemistico risponde alla più recente consapevolezza di come la mediazione dei media stia diventando tanto eccessiva, quanto relazionalmente distorsiva.

di Angelo Gallippi

È ben noto ai nostri lettori come all’aumentare della temperatura di un corpo che emette luce, questa passi dal rosso al giallo al bianco, cosicché, per esempio, una stella nana bianca è più “calda” del nostro Sole, giallognolo. Eppure se andate ad acquistare una lampadina “a luce calda”, ve la daranno a luce gialla, mentre una a “luce fredda” sarà a luce bianca.

Si tratta solo di un esempio di come la nostra lingua venga continuamente modificata, maltrattata, semplificata a opera, in ordine di pervasività crescente, di giornali, radio e tv, sia con contributi propri, sia agendo da casse di risonanza di linguaggi settoriali (politichese, giuridichese, burocratese, …) ed espressioni errate.

Valga tra tutte il dilagante vezzo di usare “piuttosto che” non già nel suo significato di “anziché” (“preferisco essere vivo piuttosto che morto”), ma in funzione della “o” disgiuntiva, con possibili ambiguità sostanziali nella comunicazione. Per esempio, cosa significa esattamente la frase: “È stupefacente riscontrare quanti italiani popolino le grandi università americane, piuttosto che gli istituti di ricerca e le industrie della Silicon Valley”? È improprio anche usare “piuttosto che” con il significato di “oltre che”: il menù comprendeva diversi tipi di pesce: rombo piuttosto che cervia, piuttosto che merluzzo, e via dicendo.

Il linguaggio, soprattutto televisivo, è infarcito di inesattezze (“È stato scarcerato per decorrenza dei termini”, anziché “per scadenza”), di semplificazioni con effetto talvolta comico-macabro (“I morti sono saliti a …”), di rafforzativi falsi (“Un vero e proprio terremoto” ovvero “Un autentico tsunami ha investito la Borsa di …”) o inutili (“Voltiamo decisamente pagina”, “Cambiamo completamente argomento”), cosicché noi siamo sempre meno il “bel paese là dove il sì suona” e sempre più quello dove suona l’“assolutamente sì”.

La cronaca più spiacevole viene addolcita con eufemismi: non vi sono più licenziamenti, ma soltanto esuberi, non terremoti, ma sciami sismici e i colloqui non sono mai burrascosi, ma solo franchi, mentre il settimanale “Newsweek” coniò nel 2005 il rassicurante termine “tortura leggera”.

Nei programmi d’intrattenimento è praticamente scomparso l’uso del “lei” (geniale, a questo proposito, la richiesta di un conduttore radiofonico a un ascoltatore: “Possiamo darci del lei?”), sostituito dal più colloquiale “tu”, che dovrebbe suggerire una inesistente familiarità tra i due interlocutori (finita la trasmissione, probabilmente nessun partecipante a un quiz televisivo riuscirà mai più a parlare con il conduttore). È giusto invece che tra giornalisti ci si dia del “tu”, ma sarebbe forse sufficiente annunciare il prossimo servizio curato da Mario Rossi senza l’immancabile aggiunta: “A te, Mario”.

Comunque anche la lingua inglese non gode di un buon trattamento: osservate come venga storpiata la pronuncia di management che spesso, con lo slittamento dell’accento, invece di riferirsi alla organizzazione di qualcosa, sembra alludere a qualcosa che si può “maneggiare”, scambiando una gestione responsabile con un arrangiamento compromettente.

(gv)

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