Offshoring Technology Innovation

di Alessandro Ovi

Noi la chiamiamo outsourcing. Adesso al MIT, alla Carnegie Mellon (CMU) e a Stanford , la si chiama offshoring (portare al di là delle spiagge, pensando all’Asia ovviamente), quando ci si riferisce non solo alla manifattura pura e semplice, ma ai processi di generazione dell’innovazione tecnologica

E l’offshoring comincia a preoccupare gli americani forse più di quanto l’outsourcing delle produzioni preoccupi noi europei.

Nel 2004 la Economist Intelligence Unit ha fatto una indagine intervistando i capi di 104 grandi aziende e il 70 per cento ha detto che già stava utilizzando ricercatori offshore; il 54 per cento ha dichiarato di voler incrementare gli investimenti in ricerca utilizzando questo tipo di risorse. Una emorragia di cervelli e di idee davvero rilevante .

La domande che i grandi centri americani si fanno, cominciano a essere molto preoccupate: «può essere che oltre alla manifattura stiano abbandonando il paese anche elementi cruciali della struttura innovativa nazionale?», oppure: «questo fenomeno finirà anche per mettere a rischio le capacità innovative delle aziende americane?»

Il sistema dell’innovazione viene normalmente descritto come un insieme di fattori collocabili in due centri concentrici. All’interno le istituzioni di ricerca e quelle di finanziamento del «nuovo», i fornitori e i clienti. All’esterno le politiche nazionali, gli accordi internazionali di scambio, di investimento, di protezione della proprietà intellettuale, e le strutture di mercato.

Uno schema orami ben noto e collaudato dove gli Stati Uniti, specialmente nel cerchio interno hanno avuto da un paio di decenni un controllo pieno di tutti gli elementi critici.

Ora, dopo la comparsa abbastanza rapida del fenomeno dell’ offshoring, e quindi della componente «ricerca», dopo che l’ outsoursing ha già portato via molti dei fornitori nelle grandi scuole di ingegneria si comincia a studiare il fenomeno. Si cerca di capire se i cambiamenti in atto, provocati sostanzialmente dalla globalizzazzione, siano tali da far prevedere una radicale perdita della leadership nella innovazione delle aziende americane.

E se una domanda del genere se la pongono i «sacerdoti» di «templi sacri» quali MIT e CMU, parrebbe giusto che una certa preoccupazione cominciasse a svilupparsi anche da noi .

In una recente sessione dell’Advisory Board della Scuola di Ingegneria e Politiche Pubbliche della CMU a Pittsburg è stato discusso un caso emblematico del collegamento tra offshoring di fattori della innovazione e rischio di perdita della leadership nell’innovazione industriale. Si tratta di una ricerca, ancora in corso, ma i cui primi risultati sono già molto interessanti: una ricerca sulle tecnologie delle terre rare.

Le terre rare, oltre che nei convertitori catalitici delle automobili sono utilizzate in molte applicazioni di tecnologie avanzate e sono strettamente collegate ad attività di ricerca e sviluppo.

Solo per esempio ricordiamo l’Europio per gli schermi dei televisori e dei computer e l’Erbio per le fibre ottiche.

La ricerca della CMU mette in evidenza due fenomeni. Il primo appare evidente dal grafico n.1. Il numero di brevetti annui relativi all’utilizzo delle terre rare, che fino all’inizio degli anni 1990 vedeva gli Stati Uniti davanti a tutto il resto del mondo, oggi mostra una situazione completamente invertita. Nel 2004 gli Stati Uniti non solo hanno brevettato meno degli altri, ma hanno depositato un numero di brevetti che è due terzi circa di quello dei primi anni 1990.

Non vi è dubbio quindi che la ricerca in materia è emigrata altrove.

Il secondo è che la produzione di ossidi di terre rare si è spostata in modo drammatico dagli Stati Uniti verso la Cina. Il grafico n.2 mostra che oggi la produzione cinese raggiunge addirittura il 90 per cento di quella mondiale.

I risultati della ricerca portano a pensare, senza troppi dubbi, che gli Stati Uniti siano non solo una fonte decrescente di conoscenza in questo settore molto critico, ma che stiano anche perdendo rapidamente la loro leadership nell’innovazione industriale sui prodotti legati alle terre rare .

Si tratta qui di un caso in apparenza molto particolare, ma tuttavia emblematico, di una tendenza che non può essere accettata passivamente per il rischio non solo di una perdita di competitività industriale, ma anche di un indebolimento strategico nello scenario geopolitico globale.

Il dibattito sulle contromisure per arginare gli effetti negativi dell’ offshoring dell’innovazione non si è ancora sviluppato in modo chiaro, ma già si vedono due linee che per altro non sono mutuamente esclusive.

La prima è quella legata a una nuova promozione della ricerca di base e della formazione di una classe non solo sempre più qualificata, ma anche sempre più numerosa di tecnologi. La seconda è la costruzione di una rete sempre più fitta di interessi convergenti con i paesi offshore soprattutto per quanto riguarda gli altri elementi, oltre quello della ricerca, che compongono l’intero cerchio dell’innovazione e cioè le istituzioni finanziarie e i fornitori.

L’ipotesi autarchica, sull’innovazione, non viene per ora neppure presa in considerazione, anche se comincia a nascere un certo fastidio nel vedere le grandi strutture di ricerca del paese utilizzate da studenti e ricercatori che molto più spesso che nel passato tornano ai loro paesi senza aver «restituito nulla» di quanto hanno appreso.

è abbastanza chiara e diffusa, tuttavia, la sensazione che ulteriori irrigidimenti del sistemi formativi americani farebbero loro un danno gravissimo.

Già fortemente penalizzati dalle misure antiterrorismo, potrebbero infatti perdere la loro grande capacità di attirare e trattenere le menti migliori da tutto il mondo, che è stata uno dei principali motori dello sviluppo americano degli ultimi decenni.

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