InPhase Technologies spera di riuscire a commercializzare il suo innovativo prodotto di archiviazione tridimensionale entro il prossimo anno, rivoluzionando il mercato delle memorie per computer.
di Gregory T. Huang
Gli uffici IBM e Hewlett-Packard sono molto vicini ma Longmont, in Colorado, non gode certo del prestigio della Silicon Valley. Eppure è in questo sobborgo di Denver che ha luogo un rivoluzionario esperimento nel campo dell’archiviazione dei dati digitali. Nel quartier generale di InPhase Technologies, dove le stanze adibite alle riunioni portano i nomi delle vicine località sciistiche, l’amministratore delegato Nelson Diaz tiene tra le dita un disco di plastica trasparente grande all’incirca quanto un normale DVD ma un po’ più spesso e lo inserisce in un drive. Il computer portatile collegato a questa unità comincia a scaricare il video in streaming di un episodio della serie televisiva Seinfeld mentre il drive riversa i dati sul disco.
Non stiamo assistendo a un normale processo di masterizzazione di un disco laser. Qui il disco ha una capienza sessanta volte maggiore di un DVD standard e il drive scarica le informazioni a una velocità dieci volte superiore. In altre parole, un singolo disco può ospitare fino a 128 ore di filmati, due volte lo spazio sufficiente per archiviare le nove serie di Seinfeld, in meno di tre ore.
Con tutta probabilità questo sarà uno dei primi sistemi commerciali basato sulla tecnologia delle «memorie olografiche», in cui i singoli bit vengono codificati nel materiale fotosensibile sotto forma di un tracciato di interferenza tridimensionale generato dai raggi laser. A differenza di un normale CD o DVD, dove i bit vengono immagazzinati uno per volta sulla superficie, il disco olografico memorizza una pagina di dati alla volta in una struttura tridimensionale, con un netto balzo in avanti in termini di capacità e velocità di accesso. E InPhase, una startup di settanta persone nata da uno spinoff dei Bell Labs di Lucent Technology presso Murray Hill, New Jersey, guida di un gruppetto di inseguitori nella gara che porterà sul mercato il primo disco ottico olografico.
Le memorie tridimensionali potrebbero trasformare radicalmente il nostro approccio alla microelettronica. Molti degli eccezionali progressi fatti dall’industria dell’elettronica di consumo negli ultimi anni – e molto dello stato di salute dell’economia del settore – sono direttamente riconducibili all’esplosione di capacità di archiviazione. I servizi di posta elettronica basati su Web mettono normalmente a disposizione dei loro iscritti, gratuitamente, almeno un gigabyte di spazio. Il nuovo iPod di Apple è possibile solo perché il mercato dei dischi rigidi offre modelli compatti ed economici che possono contenere lo strepitoso volume di 60 gigabyte di dati, una capacità che solo cinque anni fa sarebbe stata considerata enorme anche per un personal computer. Analogamente, i nuovi telefoni cellulari oggi contengono chip di memoria flash per l’archiviazione di indirizzari, agende, fotografie e informazioni di ogni tipo. CD e DVD hanno negli stessi anni trasformato le nostre abitudini in materia di fruizione di contenuti musicali e cinematografici. Eppure, tutte queste tecniche di archiviazione hanno i loro svantaggi. La densità nei materiali magnetici utilizzati nei dischi si avvicina al suo limite fisico fondamentale. La memoria flash è lenta e un DVD può a malapena contenere un intero lungometraggio.
L’archiviazione dei dati in tre dimensioni potrebbe superare molti di questi ostacoli. Delle teoriche promesse delle memorie olografiche si parla in realtà da almeno quarant’anni. Ma i progressi compiuti nel campo dei laser, diventati sempre più piccoli ed economici, delle fotocamere digitali, delle tecnologie di proiezione e dei supporti di registrazione ottica sono finalmente riusciti a sospingere questa tecnologia fin quasi alla soglia del mercato. E la possibilità di condensare volumi esponenzialmente più elevati di bit in spazi infinitesimali può dare il via a un intero mondo di nuove applicazioni.
Essendo in grado di memorizzare e leggere milioni di bit in una volta sola, il disco olografico può contenere un’intera videoteca. Filmati, videogiochi e servizi di localizzazione geografica basati sulle mappe interattive possono essere salvati in chip grandi come un francobollo e trasportati ovunque nei telefoni cellulari. L’intera storia medica di un individuo, comprese tutte le sue radiografie, potrebbe essere inserita in una carta di identità elettronica e facilmente inviata o recuperata da una banca dati. Infine, se l’hardware necessario arriverà a prezzi accessibili a tutti i consumatori, le memorie olografiche rimpiazzerano i DVD diventando così il supporto privilegiato per la distribuzione di film e videogiochi. Prenderebbero piede riproduttori di film portatili e telefonini capaci di prelevare contenuti dal Web. Le memorie olografiche potrebbero fare concorrenza ai dischi rigidi magnetici come unità di archiviazione primaria nei personal computer. E su scale più vaste, i data center delle aziende e delle pubbliche amministrazioni potrebbero sostituire intere stanze di rumorosi armadi per l’alloggiamento dei server e delle unità a nastro magnetico con i silenziosi lettori di dischi olografici.
Il margine competitivo di InPhase sta nei suoi accordi con Hitachi Maxell, uno dei maggiori costruttori di nastri per computer e CD-ROM, e – a partire da maggio scorso – con Bayer MaterialScience, tra i principali produttori di materiali plastici utilizzati nei dischi ottici. Queste due grandi aziende guardano alle tecniche olografiche come un passo in avanti fondamentale nell’evoluzione delle memorie digitali. «La nostra collaborazione con InPhase ci offre incredibili opportunità, afferma Hermann Bach, responsabile tecnologico per gli Stati Uniti di Bayer MaterialScience.
Se e quando le memorie olografiche riusciranno a dominare sul mercato è tuttavia ancora una questione aperta. Il primo prodotto InPhase non verrà lanciato prima della fine del 2006, ma gli esperti del settore, per quanto ottimisti, preferiscono essere cauti. «Hanno dato contributi importanti sul piano dell’hardware», dice Hans Coufal, direttore scientifico e responsabile delle strategie tecnologiche del Centro Ricerche Almaden di IBM a San Jose, in California, ed esperto di memorie olografiche. «Tutto molto interessante, ma c’è ancora un po’ di strada da fare prima di arrivare a un prodotto commercializzabile. Non molta, ma c’è.
Mensa aziendale con laser
Il concetto di memoria olografica risale ai lavori di Pieter J. van Heerden, ricercatore della Polaroid agli inizi degli anni Sessanta (e, sostengono alcuni, alle teorie originali sulla olografia formulate dal premio Nobel Dennis Gabor nel 1948). Ma la tecnologia non è mai stata realizzata nella pratica, a causa dei costosi materiali e degli ingombranti laser necessari per un impianto – a differenza del sistema messo a punto da InPhase, che è particolarmente snello. Lo stesso Bill Wilson, capo ricercatore della InPhase, era inizialmente piuttosto scettico. Nel 1987, con in tasca un PhD in chimica fisica appena conseguito all’Università di Stanford, Wilson entrò nei Bell labs, rinunciando a una proposta di IBM dove avrebbe dovuto lavorare proprio sulle memorie olografiche. «Allora pensavo che questo settore sarebbe stata una completa perdita di tempo», ammette oggi.
La svolta arrivò nei primi anni Novanta, quando IBM e altri grandi nomi cominciarono a preoccuparsi del problema dei limiti dei metodi di archiviazione magnetica. Con l’aumentare della capacità di memoria, i granuli di materiale magnetico che immagazzinano i dati sulla superficie di un disco diventano troppo fitti. Alla fine, il campo magnetico di ogni singolo granulo andrà a interferire con quello dei suoi vicini, compromettendo la possibilità di memorizzare le informazioni in modo attendibile. Gli ingegneri hanno escogitato diversi trucchi per rimandare questo problema, ma prima o poi i granuli magnetici saranno troppo densi per funzionare adeguatamente.
Wilson ricorda gli amichevoli litigi nella mensa aziendale dei Bell Labs su quale tecnologia avrebbe potuto prendere il posto dei supporti magnetici – e sui relativi meriti delle memorie olografiche. All’epoca la tecnologia stava vivendo una sorta di revival con diversi gruppi focalizzati su questo genere di ricerche presso IBM, Polaroid, il Caltech e Stanford. Wilson e Kevin Curtis, ingegnere elettrico del Caltech appena arruolatosi nei Bell Labs discutevano su come le memorie olografiche avrebbero potuto diventare praticabili se fossero stati disponibili componenti ottici sufficientemente piccoli e poco costosi. Dibattendo delle questione tecniche con i colleghi, i due si resero conto che l’ingrediente fondamentale per la fattibilità era proprio il materiale usato per immagazzinare le informazioni.
Nelle memorie olografiche, un «raggio informativo» contenente i dati viene incrociato con un «raggio di riferimento» che genera il tracciato di interferenza da registrare poi sul materiale fotosensibile. Per recuperare i dati conservati in un determinato punto lo si illumina con un raggio di riferimento e la combinazione tra questo raggio e il materiale impressionato ricostruisce il raggio informativo, letto a sua volta dal rilevatore di una fotocamera digitale che traduce il segnale luminoso in una serie di segnali elettrici. Il supporto di registrazione consiste tipicamente o in un cristallo inorganico o in un polimero. I polimeri sono più sensibili e richiedono laser meno potenti, ma hanno i loro difetti. Per esempio, quando un raggio laser colpisce un polimero fotosensibile questi tende a deformarsi, scombinando i dati custoditi all’interno.
Nel 1994, una squadra di scienziati dei materiali guidata dalla ricercatrice chimica Lisa Dhar ha collaborato con Wilson e Curtis alla realizzazione di un polimero fotosensibile a «chimica doppia». I ricercatori mescolarono un polimero che fungeva da impalcatura, capace cioè di mantenere la propria rigidità e struttura, con un altro polimero che invece doveva reagire alla luce e memorizzare i dati. Il disaccoppiamento tra le proprietà ottiche e strutturali dei materiali di registrazione consentiva ai ricercatori di modulare in modo indipendente ciascun materiale, giungendo così a un livello di sensibilità e stabilità sfuggito, in passato, ad analoghe iniziative.
Nel corso dei quattro anni successivi il team dei Bell Labs riuscì a far funzionare il suo materiale olografico con i laser, le fotocamere e i componenti ottici in grado di scrivere e leggere le informazioni. Anche tutto ciò richiese notevoli progressi nell’ambito del software necessario a correggere gli errori generati immagazzinando e ricostruendo i bit digitali. Nel 1998, come studio di fattibilità, fu costruito un registratore olografico in grado di memorizzare audio MP3 in tempo reale. Si trattava di un macchinario ingombrante e non particolarmente efficiente. Ma a quel punto, racconta Wilson, «eravamo certi che saremmo arrivati alla nostra meta».
Così verso la metà del 2000, i due scienziati presero contatto con Nelson Diaz in merito a una possibile nuova azienda. Diaz si era costruito una discreta fama nell’industria delle memorie digitali lavorando per quasi venti anni come ingegnere presso Digital Equipment Corporation e più recentemente come direttore generale di StorageTek di Lousiville, nel Colorado, uno dei maggiori produttori di unità a disco e nastro. Quando venne a sapere dell’interesse dei ricercatori nei confronti delle memorie olografiche, sul primo momento si disse piuttosto scettico: per anni aveva sentito solo teorie al riguardo. Ma, osservando più attentamente il progetto realizzato nei Bell Labs, Diaz diventava sempre più convinto. Cinque mesi dopo accettò di diventare amministratore delegato di InPhase.
La prima cosa da fare, afferma oggi, era ottenere i diritti di proprietà intellettuale riguardanti quella invenzione. In Phase negoziò con i Bell Labs un accordo per il diritto di proprietà dei brevetti depositati per il sistema di archiviazione olografica. Poi, ovviamente, c’era bisogno di finanziamenti. Alla fine del 2000, prima dello scoppio della bolla speculativa, InPhase riuscì a raccogliere nel giro di tre settimane 15 milioni di dollari, «senza presentare alcun business plan», riferisce Diaz (il colosso dei supporti di memoria Imation fu uno degli investitori della prima ora). Nel dicembre del 2000 sei scienziati dei Bell Labs, compresi Wilson, Curtis e la Dhar, traslocarono dal sobborgo del New Jersey per raggiungere il loro nuovo amministratore delegato in Colorado.
Nuovo supporto universale?
A cinque anni di distanza l’azienda sta ancora lavorando allo sviluppo di un sistema di memoria olografica commerciale, spiega Demetrios Lignos, vicepresidente di InPhase responsabile dell’ingegnerizzazione. Lignos è un altro veterano dell’industria delle memorie, un tipo molto pratico, che non si lascia facilmente impressionare dalla scienza troppo speculativa e dai prototipi di laboratorio. Lo sviluppo di un prodotto, dice, richiede tempo; in questo caso, la sfida consiste nel ridurre le dimensioni dei componenti ottici conservando il pazzesco livello di precisione necessario per ottenere una memoria olografica affidabile. Oggi la sua squadra di sessanta ingegneri sta ingranando le ultime marce per il lancio di un prodotto pilota nel settembre del 2006 che, se tutto andrà bene, sarà seguito da un rilascio definitivo. La prima offerta InPhase sarà una unità olografica capace di scrivere e leggere su dischi da 300 gigabyte.
Aspettate a mettere in pensione il vostro disco rigido. Il costo del dispositivo olografico InPhase sarà per qualche tempo fuori dalla portata di qualsiasi singolo consumatore e di quasi tutti i distributori di contenuti digitali. Seduto davanti a sei prototipi di unità olografica, Lignos ne spiega il funzionamento. All’interno di ciascuna unità, grossa come una scatola da scarpe si trova un elaborato sistema di specchi, lenti e visori a cristalli liquidi che guidano il raggio prodotto da un singolo laser. Il disco, del diametro di 130 millimetri e 3,5 millimetri di spessore (contro i 120 e 1,5 mm, rispettivamente, di un DVD), non deve ruotare continuamente come nel caso di un DVD, ma è montato su un sostegno che lo posiziona in modo da esporre al raggio laser il punto giusto nel momento giusto. Il laser e il rilevatore fotografico sono fissi, ma gli specchi e le lenti si muovono fino a generare raggi di diversa angolatura. Qui sta il vero trucco: a differenza di un CD o di un DVD, il disco è in grado di memorizzare centinaia di pagine di dati in una singola, piccola area perché il raggio di riferimento le ha incise ciascuna con un angolo leggermente diverso.
La tecnologia c’è. La questione ora riguarda il tipo di mercato cui rivolgersi. «Finirà davvero in mano a tantissimi utenti? Non lo abbiamo ancora dimostrato», riconosce Lignos. Secondo InPhase, le prime applicazioni si posizioneranno tra le soluzioni di archiviazione di alta gamma per data center, istituti finanziari e ospedali. In questi mercati, le memorie olografiche potranno gareggiare contro i nastri magnetici, altro supporto ad alta capacità ma di difficile accesso. E anche meno durevole: circa dieci anni per il nastro contro i 50 e più previsti per i dischi olografici. InPhase prevede anche di attaccare i segmenti della trasmissione di contenuti televisivi digitali ad alta definizione e della distribuzione di film presso le sale digitalizzate: aziende mediatiche come la Turner Broadcasting System sono interessate ad archiviarvi i loro filmati; e si può ipotizzare che la prossima stravaganza cinematografica di George Lucas verrà distribuita nei cinema digitali memorizzata non su un centinaio di dischi ma su uno solo.
Entro il 2007, InPhase prevede di rilasciare il suo primo prodotto di elettronica di consumo, un chip su cui si potranno memorizzare fino a 5 megabyte di dati, sufficienti per un film o un videogioco. Il chip potrebbe fare concorrenza alle memorie flash e dare la possibilità ai telefonini di scaricare rapidamente e riprodurre contenuti ad alta definizione in tempo reale. InPhase si sta focalizzando sui videogiochi, un campo dove si devono rispettare un minor numero di standard internazionali rispetto alla distribuzione video, cosa che faciliterebbe il compito di una piccola azienda desiderosa di sfondare sul mercato con una nuova tecnologia. I dischi olografici garantiscono un grosso vantaggio ai distributori di contenuti: non è facile piratarli. Creare una copia richiede lo stesso, costoso equipaggiamento che serve per produrre l’originale.
Da qui a cinque o dieci anni, la memoria olografica potrebbe convertirsi in una diffusa tecnologia di consumo. O in un clamoroso insuccesso. Le domande che ancora non trovano una risposta riguardano l’affidabilità a lungo termine dei componenti e naturalmente i costi. La tecnologia deve essere abbastanza stabile da convincere la clientela ad affidarle le informazioni più importanti e al tempo stesso abbastanza economica da poter diffondersi ovunque.
InPhase è in concorrenza con un gruppetto di altre aziende affini. La Optware di Tokyo punta alle applciazioni video per i consumatori con una tecnologia più semplice e assimilabile ai normali DVD. E Aprilis, di Maynard, nel Massachusetts, spinoff della Polaroid, pensa in parte di inseguire gli stessi mercati di InPhase, ma cerca anche di differenziarsi nel filone delle applicazioni biometriche, come il riconoscimento delle impronte digitali. «Ritengo che possano tutte coesistere, almeno per un po’, fino a quando i migliori si affermeranno», dichiara il veterano del settore Coufal, di IBM, aggiungendo che tutti gli approcci adottati dalle tre società hanno i loro meriti. «Tutti vorrebbero assistere a una vittoria… Ma non saprei dire chi prevarrà».
Chiunque prevalga, le memorie olografiche potrebbero dettare nuove regole nel campo dell’informatica aprendo la strada all’archiviazione su tre dimensioni. Fino a oggi le memorie – e tutto il resto della microelettronica, a dire il vero – hanno giocato quasi sempre sulla superficie dei materiali. I vantaggi di una terza dimensione da sfruttare comprendono una maggiore velocità di esplorazione di archivi ad altissima densità, come quelli in cui vengono riversate le immagini dei satelliti di rilevamento geografico e sorveglianza; nuovi tipi di sistemi di visualizzazione; e perfino processori ultraveloci i cui circuiti saranno incisi all’interno dei materiali olografici.
«Ci vorrà tempo e grandi disponibilità finanziarie», conclude Lignos, di InPhase, «ma finalmente abbiamo la possibilità di portare tutto questo sul mercato».
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distico
«Ci vorrà tempo e grandi disponibilità finanziarie, ma finalmente abbiamo la possibilità di portare tutto questo sul mercato», afferma Demetrios Lignos di InPhase.