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Tre libri spiegano perché vedono Los Angeles come una macchina in continua trasformazione.

di Colin Marshall

Los Angeles è vasta e praticamente informe, una città così particolare che difficilmente può essere messa a confronto con le altre. Questa, almeno, è l’impressione che gli ultimi decenni di scrittura sulla metropoli della California meridionale hanno suscitato, confermata anche da attenti osservatori contemporanei. Ma a Los Angeles c’è di più di quanto suggerisca la critica.

Per avere un’idea di Los Angeles, è necessario tornare indietro di mezzo secolo, quando tre scrittori hanno definito quella che allora era la città in più rapida crescita nel mondo ricco. Sebbene ognuno portasse un bagaglio distintivo e formidabile di esperienza mondiale e conoscenza storica, tutti arrivarono a comprendere la Los Angeles del dopoguerra riconoscendo come la tecnologia avesse fornito la chiave di lettura della città.

“Tutte le città moderne sono macchine, ma Los Angeles lo è ancora più di altre … è un congegno ronzante, fumante, in continua evoluzione”, scrisse Christopher Rand nel suo libro del 1967 Los Angeles: The Ultimate City, il primo di una trilogia apparsa sul “New Yorker”. La mancanza di acqua e la minaccia di terremoti hanno reso questo luogo particolarmente dipendente dalla tecnologia, ha affermato. Le città, sin dall’inizio, avevano assunto la gestione dei sistemi idrici, ma la complessità di quello di Los Angeles, alimentato da un gigantesco acquedotto che devia l’acqua dalla Owens Valley circa 300 km a nord, era di gran lunga maggiore di quanto si fosse visto fino a quel momento. 

Rand ha anche sottolineato che mentre Los Angeles era nota per l’industria cinematografica, il settore aerospaziale in effetti dominava l’economia della città. L’industria è stata ridotta con la fine della Guerra Fredda, ma decenni dopo, SpaceX, l’azienda privata di maggior valore al mondo, ha sede lì. “Man mano che la nostra forza tecnologica si manifesta a Los Angeles, molti aspetti vengono a confondersi. L’industria aerospaziale, per esempio, sembra circondata da una nuvola opaca di pubblicità”, scrisse Rand nel 1966.

The Ultimate City è fuori catalogo, ma Los Angeles: The Architecture of Four Ecologies, del critico di architettura inglese Reyner Banham, pubblicato nel 1971, rimane un appuntamento fisso per comprendere la città. Banham pensava a LA come a una città che “toglie senso alla storia e infrange tutte le regole”, come disse in seguito in un documentario televisivo. 

A differenza di Rand, che non amava guidare, Banham girava spesso in automobile. “Il linguaggio del design, dell’architettura e dell’urbanistica a Los Angeles è il linguaggio del movimento”, ha scritto. Pertanto, “come le prime generazioni di intellettuali inglesi che hanno imparato l’italiano per leggere Dante nell’originale, ho imparato a guidare per vedere la Los Angeles vera”.

Banham vedeva la guida come una forma di “volontaria acquiescenza in un sistema uomo macchina incredibilmente esigente”. All’interno di questo sistema “una miriade di autorità morali, governative, commerciali e meccaniche spingono a muoversi su superstrade in situazioni strettamente controllate” al punto che “il guidatore non noterà quasi alcuna differenza quando queste superstrade saranno finalmente dotate di sistemi di controllo automatico computerizzato che prenderanno in carico l’auto alla rampa di accesso e la dirigeranno a velocità adeguatamente regolate e percorsi correttamente selezionati verso una scelta pre-programmata di uscita da una rampa”.

Ma anche mentre immaginava questo futuro a guida autonoma, Banham si chiedeva se “i guadagni marginali di efficienza attraverso l’automazione potessero essere compensati dalle privazioni psicologiche causate dalla distruzione delle illusioni residue della libera decisione e della capacità di guida”. 

Collettivamente queste illusioni costituiscono una sorta di software, ha scritto, e “per quanto organizzato in modo inefficiente, il milione o giù di lì menti umane in generale sul sistema autostradale in qualsiasi momento hanno potenzialmente una capacità di calcolo molto maggiore di quella che potrebbe essere incorporata in qualsiasi macchina attualmente concepibile”. 

Quasi nessuno nel 1971, ovviamente, avrebbe potuto realisticamente concepire quanto si potesse espandere la capacità di elaborazione. Più plausibile per Banham dell’automazione della rete autostradale di Los Angeles era la sua obsolescenza, dato che “è inconcepibile per un abitante di Los Angeles non essere sostituito da un sistema migliore, vicino alla perfezione di cui va costantemente alla ricerca”. 

Un’altra chiave di lettura della città si ritrova nell’affermazione che Los Angeles è “costruita per l’auto”. Nonostante tutto il suo entusiasmo per la guida, tuttavia, Banham si prende la briga di confutare “il comune malinteso meccanicistico secondo cui lo stile di vita a Los Angeles sia determinato dall’automobile”. Tanto storico quanto critico, Banham mostra che Los Angeles ha accolto l’auto privata più prontamente delle città più vecchie grazie a una struttura preesistente: le ferrovie urbane Pacific Electric e Los Angeles ora smantellate, che avevano già permesso la costruzione e la suddivisione su scala meccanica anziché umana. “Se deve esserci un’interpretazione meccanicistica”, conviene Banham, “allora deve essere che l’automobile e l’architettura allo stesso modo sono i prodotti della Pacific Electric Railroad come stile di vita”.

Profondamente coinvolto sia dagli aspetti architetturali che da quelli tecnologici, Banham si era fatto un nome quasi un decennio prima con Theory and Design in the First Machine Age, un trattato sull’estetica degli ambienti costruiti europei reinventati da movimenti come il Futurismo e il Bauhaus, nonché da teorici e professionisti del calibro di Adolf Loos e Le Corbusier. La notorietà lo ha messo nella giusta posizione per criticare una città come Los Angeles, che ospitava una comunità di architetti che includeva emigrati europei come Richard Neutra, un eminente modernista. 

Nel pensiero di Banham, Neutra “ha sfruttato l’opportunità californiana per realizzare un sogno europeo”. Egli osserva che “il telaio in acciaio leggero, i pannelli prefabbricati, i balconi sospesi, la meccanica avanzata, i dettagli taglienti, sembrano un tentativo di realizzare una visione puramente europea dell’architettura nell’era delle macchine”.

Il design moderno di metà secolo delle case di Neutra costruite a Los Angeles dagli anni 1930 agli anni 1960 è diventato oggetto di un desiderio quasi feticistico, come dimostrato dai cartellini dei prezzi inarrivabili. Altri hanno sperimentato ulteriormente verso un’architettura tipica della California meridionale, il cui rigore nei materiali e nel design ha sfruttato il clima mite della zona e gli stili di vita “indoor-outdoor”. 

A dire il vero, operazioni di questo tipo richiedevano un genio architettonico come quello di Neutra – o colleghi come Rudolph Schindler, Raphael Soriano e Craig Ellwood, tutti all’avanguardia dell’architettura residenziale del dopoguerra a Los Angeles – ma anche una quantità insolita di conoscenza, abilità ed esperienza in ingegneria e costruzione. Né tale abilità si limitava solo alla costruzione delle case. Banham e Rand erano altrettanto colpiti dagli strumenti e delle tecniche impiegate per scolpire le montagne della zona in appezzamenti pianeggianti.

Gli edifici e le infrastrutture di Los Angeles, come li ha visti la defunta storica e scrittrice di racconti di viaggi Jan Morris, incarnano un livello di know-how insolitamente alto. “Ricordi il ‘know-how’?”, si domanda in un saggio del 1976 sulla città successivamente raccolto nella sua antologia The World: Life and Travel 1950-2000. “Era una delle parole di moda degli anni Quaranta e Cinquanta, ormai un po’ fuori moda. Rifletteva tutto il clima e il tono del pensiero americano negli anni del supremo ottimismo americano. 

Significava davvero abilità ed esperienza, ma esprimeva anche la certezza che il genio particolare dell’America, il genio della logica applicata, dei sistemi, dei dispositivi, era inesorabilmente l’araldo del progresso”. Questo spirito caratterizzò i decenni del dopoguerra prosperosi e orientati all’innovazione che Banham definì la “Seconda Era delle Macchine”. A Los Angeles, come la vedeva Morris negli anni 1970, “la fede americana perduta nelle macchine e nel materialismo ha edificato il monumento a se stessa”.

Sebbene a quel tempo la città avesse una reputazione in qualche modo libertaria, Morris sottolinea che “non era la libertà quella che Los Angeles amava nel suo massimo splendore, o almeno non la libertà assoluta. Una cultura spirituale può essere anarchica, una cultura materiale deve essere disciplinata. Implicita alla promessa di realizzazione tecnologica era la necessità del sistema, e LA divenne presto un luogo ordinato per eccellenza”. Quei primi sistemi di tram “hanno riunito gli insediamenti sparsi del tempo, indirizzandoli tutti verso la città”. 

Poi sono arrivate le superstrade, che come tutte le macchine complesse sfidano i propri utenti a padroneggiarle. “Arriva un momento”, scrive Morris, “in cui qualcosa scatta all’interno e improvvisamente si afferra il ritmo del sistema autostradale, si padroneggiano le sue forme tribali o rituali e si scopre che non è affatto un elemento dirompente.

Acquisita questa chiave di lettura, Morris scopre che a Los Angeles, “dietro l’apparenza, prosperano abilità solide e borse di studio. Ci sono artigiani ovunque a Los Angeles, artigiani dell’elettronica, del cinema, della letteratura, delle scienze sociali, della pubblicità, della moda. Qui Lockheed costrisce i suoi aerei. Qui la NASA produce il suo orbiter dello space shuttle”. 

Per quanto impressionante il livello tecnologico delle industrie cinematografiche e televisive di alto profilo, è stato l’aerospazio a concentrare il know-how della Los Angeles della metà del XX secolo. “In teoria, Los Angeles è solo un’altra città americana, a migliaia di miglia dalla capitale della nazione”, scrisse Rand un decennio prima, “ma in realtà è essa stessa un surrogato di capitale almeno nell’ambito tecnologico”. La sua preoccupazione era che “la nostra grande nuova tecnologia, con tutto il suo potere di guidarci, è fino ad ora al di là del controllo delle nostre istituzioni democratiche”.

La macchina cittadina è diventata più grande e più complessa nei decenni da quando Rand, Banham e Morris hanno capito come funziona. Ci sono stati miglioramenti, non ultimo il controllo di fenomeni estremi come lo smog degli anni 1960 e 1970. Le superstrade sono ancora in piedi, ma negli ultimi 30 anni ha iniziato a farsi sentire anche un nuovo sistema ferroviario urbano. La crescente densità e verticalità hanno persino convalidato l’osservazione prematura di Rand secondo cui la “preferenza di Los Angeles per le case unifamiliari sembra essere in via di estinzione”. Queste modifiche sono state eseguite più lentamente del necessario, il che forse è prevedibile: nel bene e nel male, Los Angeles ha finito di essere un prototipo urbano sperimentale.

Immagine: Andrea Daquino