Le cose che non ci diciamo e le incognite del 2021

Nel primo OpenZone Talk dell’anno, Ferruccio De Bortoli punta il dito sulle verità scomode che il dibattito italiano vorrebbe evitare.

di OpenZone

Il protagonista del primo OpenZone Talk dell’anno, tenutosi online il 29 gennaio, è stato Ferruccio De Bortoli, Editorialista del Corriere della Sera, Presidente di Longanesi e di Vidas. Autore del libro ‘Le cose che non ci diciamo (fino in fondo)‘, Ferruccio de Bortoli ha voluto puntare i riflettori sulle storture e sui pericoli di cui in Italia non si parla abbastanza.

Come spiega Elena Zambon, presidente di Zambon S.p.A., Ferruccio De Bortoli offre “un’analisi ed una sintesi di qualità della situazione, che permette di inquadrare come stanno le cose e rispondere al richiamo di intervenire e partecipare attivamente al futuro del Paese, in quanto il benessere non è un diritto, ma un bene da conquistare”.

De Bortoli ha voluto aprire il discorso “partendo dal basso”, da ciò che sta accadendo in questa emergenza sanitaria ed economica. È fondamentale riconoscere il capitale sociale dell’Italia, senza differenze tra Nord e Sud e condizioni di reddito. La nostra storia dimostra che le istituzioni della solidarietà sono cresciute nei momenti peggiori, durante emergenze in cui non abbiamo lasciato indietro nessuno.

Anche nell’attuale emergenza l’Italia si è comportata bene. Non abbiamo vissuto le grandi tensioni sociali di altri paesi, né sono emersi conflitti con l’idea che la salute debba essere al messa al primo posto, in una ricerca di equilibrio tra lavoro e salute.

Le tensioni sociali rischiamo di averle se non verrà fatto un discorso realistico ai cittadini. La verità è che non si potrà vivere di sussidi, di sospensione delle regole, non si può pensare che i vincoli di bilancio siano saltati per sempre.

Nel mondo delle imprese, aperte ai mercati ed alla concorrenza internazionale, vediamo realtà che si stanno già adattando alla nuova situazione, che stanno investendo, sono diventate digitali, si sono aperte all’inclusività, alla responsabilità nei confronti del proprio territorio. Hanno sostanzialmente capito che ci si sta avviando verso un’economia circolare in cui la stessa ragione d’essere, il purpose, dell’impresa è cambiato.

Questa parte del Paese sta già applicando il piano nazionale di resilienza e di ripresa perché ha capito che la realtà attorno è cambiata radicalmente.

La classe dirigente politica dovrebbe seguire questo esempio per abbandonare il messaggio secondo cui si può vivere di sussidi, ottenere benessere senza sacrificio. Serve uno spirito di responsabilità personale e collettiva. Serve recuperare il senso del futuro che avevano le famiglie di un tempo, che affrontavano la necessità di costruire il benessere con maggior senso del dovere.

Quali sono, quindi le cose che non ci diciamo fino in fondo? Tanto per cominciare, bisogna prendere consapevolezza del fatto che non possiamo vivere al di sopra dei nostri mezzi. È ora di porsi il problema della produzione del reddito, di come si crea il reddito, non di come si distribuisce. Al di là del doveroso aiuto alle persone impoverite, il reddito di cittadinanza non può divenire un incentivo alla pigrizia.

Servono più strumenti finanziari che incoraggino l’imprenditoria giovanile, il ruolo delle donne. Incoraggiare il rischio, la presa di responsabilità, il capitale umano. Le università hanno fatto grandi passi avanti e, a differenza del 2008-2009, non hanno visto cali nelle immatricolazioni.

È preoccupante che in Italia si sia considerato irrilevante o inferiore ad altri il costo della chiusura delle scuole, dei luoghi di cultura, un costo che colpirà soprattutto le classi più povere. L’istruzione è lo strumento del riscatto necessario per quel capitale umano che deve tornare ad avere fiducia nel domani, autentico propellente per una forte ripresa nazionale.

Non è un caso che in Italia traduciamo in Recovery Fund il programma che l’Europa chiama Next Generation EU, un programma dedicato alle prossime generazioni. Si potrebbe prendere esempio dallo spirito di ricostruzione della seconda metà del ‘900, quando una classe dirigente anche profondamente divisa fu in grado di guardare in senso unitario al futuro del Paese e investire nel capitale umano, far leva sull’istruzione per uscire da antiche povertà ed affermare l’identità nazionale.

Queste sono le cose che non abbiamo il coraggio di dirci. La domanda che non abbiamo il coraggio di porci: “Stiamo facendo per i nostri figli e nipoti gli sforzi, lo stesso sacrificio con il quale i nostri padri, i nostri nonni si impegnarono per strapparci ad una condizione di povertà e lanciarci verso il futuro? Pensare ad un futuro migliore e diverso comporta sacrifici, studio, investimenti e soprattutto l’idea che non ci si può aspettare nulla da uno stato, se non il fatto che faccia ciò che uno stato deve sicuramente fare dal punto di vista dell’istruzione, della sicurezza, della sanità e soprattutto dal punto di vista della creazione delle condizioni necessarie perché la libertà, nelle sue varie declinazioni, possa esprimersi al meglio.”

Ferruccio De Bortoli è nato a Milano il 20 maggio 1953, è stato direttore del «Corriere della Sera» e del «Sole 24 Ore», amministratore delegato di rcs Libri e presidente di Flammarion. Dal 2015 è presidente della casa editrice Longanesi e dell’associazione Vidas. È oggi editorialista del «Corriere della Sera» e, in Svizzera, del «Corriere del Ticino».

(lo)

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