Per i frequentatori dei social networksl’identità elettronica precede ed eccede il soggetto sino ad acquisire un’autonomia rispetto al suo referente fisico.
di Vincenzo Susca
Vittime di una sorta di contagio, siamo tutti testimoni e divulgatori dell’incantesimo che costituisce uno dei leitmotiv della nostra epoca: “Non ci sono più certezze”. L’indefinitezza di tutte le cose avvolge oggi nel suo cono d’ombra anche le conoscenze acquisite e il senso comune relativi alla fine dell’esistenza, gettando confusione attorno a cosa sia e a come definire e certificare il momento del decesso.
L’immaginario e l’esperienza della morte elaborati in ogni società rappresentano sempre, in effetti, dei dati relativi, che riposano da un lato sul modo in cui la fase del trapasso è accompagnata o contrastata tecnicamente, tramite i disparati dispositivi che vanno, a seconda delle epoche, dai filtri e dagli incensi premoderni sino agli strumenti biomedicali contemporanei, dall’altro dalla maniera in cui essa è rappresentata e raccontata dai media a partire dalle incisioni sulle pareti delle caverne per arrivare alle immagini dei media digitali che proliferano oggi nel paesaggio elettronico. Nonostante ciò, come dimostra in modo esemplare il recente libro di Céline Lafontaine La société postmortelle (Seuil, Paris, 2008), la nostra epoca sta minando in modo tanto rapido quanto radicale le definizioni più consolidate rispetto alla fine dell’esistenza fisica, sollevando dubbi e questioni morali sia nell’ambito della scienza, sia nella vita quotidiana. Al fine di cogliere in modo pertinente le sfumature dell’immaginario che accompagna e plasma tale passaggio storico, si rivela utile carpire e decodificare le immagini provenienti dal sistema dei media, notando in esse la differenza di variazione a seconda che esse provengano dal contesto televisivo o da quello della Rete.
Nell’ambito della prima dimensione, in Italia la storia mediatica del caso di Luana Englaro testimonia in modo flagrante il progressivo processo di erosione e di esplosione dell’identità privata e familiare di cui i media sono allo stesso tempo la causa e l’effetto. Una volta sovrapposte all’ambiente mediale, le nostre vicende private divengono per noi in qualche modo incontrollabili, sfuggono al nostro arbitrio, ponendosi come uno dei tanti tasselli di qualcosa di più grande di noi. Fino a poco tempo fa, un tale destino spettava solo alle personalità pubbliche, alle celebrità, ai leader politici e ai grandi decisori. Oggi siamo invece tutti, nel bene e nel male, volenti o nolenti, protagonisti della scena pubblica. Svanita l’adesione nei confronti delle grandi ideologie che hanno retto la parabola della modernità, la nostra vita e la nostra morte costituiscono ormai le storie essenziali che delineano e plasmano la Storia, anche se tale processo si profila per ora prevalentemente nel contesto mediatico. Il prezzo da pagare per questa promozione di statuto è la perdita dell’autonomia che ha distinto l’individuo nel corso degli ultimi tre secoli. Si tratta di una sorta di delitto perpetrato nel momento stesso in cui la persona viene messa integralmente in scena e spettacolarizzata sotto inedite luci, con nuovi panni e tramite un rinnovato corpo. A ben vedere, la storia dei media contemporanei è intimamente intrecciata a tale dinamica virtuosa e viziosa di reversibilità tra vita e morte. Il primo mezzo di comunicazione moderno, la fotografia, è dall’inizio utilizzato sia per rappresentare le immagini dei morti, per farli continuare ad esistere nelle dimore dei propri familiari, sia per irradiare sulla scena figure fantasmatiche, incarnazioni di sostanze oscillanti tra l’esistente e l’inesistente. Il cinema, in seguito, come Edgar Morin ha brillantemente suggerito nel suo libro Il cinema o l’uomo immaginario (Feltrinelli), ha costituito un maestoso dispositivo in grado di consentire al pubblico di proiettare i propri fantasmi e la propria immaginazione sul grande schermo, di dar loro un corpo tramite la figura dei divi. La televisione ha in seguito garantito, tramite la rappresentazione di cerimonie di trapasso o la trasmissione su vasta scala di tragedie a carattere pubblico e privato, si pensi su tutte alla morte di Lady Diana e a quella di Giovanni Paolo II, ma anche alla tragedia di Vermicino nel 1981, la metabolizzazione e la ritualizzazione collettive di situazioni dolorose culminate o seguite a un decesso.
Rispetto alla recente vicenda di Luana Englaro, il sistema televisivo ha compiuto uno strappo ulteriore, cavalcando l’onda emotiva presente nel paese sino a pervertirne passioni e ragioni. La sera del 9 febbraio abbiamo così assistito a uno dei più roboanti momenti di spettacolarizzazione della morte consumatisi negli ultimi anni. Lo show catodico ha divelto le più banali e consolidate regole del rispetto del dolore. La televisione si è qui nutrita in modo ingordo della morte di una persona, senza curarsi del silenzio che essa, almeno per qualche attimo, richiede, invadendo di baccano e pettegolezzi il vuoto che un tale evento scava nelle relazioni umane e in quelle tra noi, l’altro e il niente. Il suo perpetuo carnevale non si è interrotto e non può interrompersi di fronte a nulla: consuma tutto, digerisce e traduce in scarti comunicativi qualsiasi sentimento e valore.
La Rete sviluppa la doppia tensione che percorre il rapporto tra media e morte – materializzazione dell’invisibile e continuazione della vita oltre se stessa e le sue espressioni fisiche – in modo ancora più completo e con un più intenso grado di complessità. La cultura digitale ha avallato e suggellato l’avvento di un immaginario oggettivo, rendendo possibile su uno schermo, un display o in un mondo virtuale, per mezzo di avatar, maschere e di altre elaborazioni simboliche, la concretizzazione e l’esistenza di qualcosa che in precedenza albergava nella sola dimensione eterea della nostra immaginazione. è quello che succede, per esempio, in Second Life, dove è possibile appagare, tra le altre, la più sublime delle fantasie aleggianti nell’immaginazione umana: la resurrezione. In modo meno eclatante e perciò stesso ancora più realistico e toccante, numerosi sono ormai i casi di persone morte le cui pagine Facebook continuano a esistere e a essere aggiornate. Il fatto che ciò avvenga per mezzo degli “amici” e non del titolare è secondario rispetto alla presenza effettiva e alla qualità del profilo personale. Il valore di quest’ultimo, infatti, dipende più dalla quantità e dalla natura dei contatti, così come dalle loro azioni, che dall’attività svolta dal suo proprietario. Nel breve e medio termine che segue il decesso, il soggetto venuto a mancare, di fatto, continua a esistere in Rete. In essa matura e si impone nel paesaggio sociale una dimensione sospesa tra la vita e la morte, in cui il mondo elettronico prolunga, seppur sotto forme inedite, l’esistenza dell’uomo.
Il panorama del Web 2.0, con particolare riferimento alle piattaforme dei blog, vede diffondersi un ordine di fenomeni che dilata sino al parossismo la portata e gli effetti degli eventi sinora descritti. Proliferano infatti nel cyberspazio blog intestati a persone decedute poco dopo la loro scomparsa. Vedovi, amici o parenti scelgono di sopperire all’assenza fisica di un caro venuto a mancare, oppure di celebrarne la memoria, aprendo una pagina in Internet in cui compaiono, a seconda dei casi, le sue foto, le immagini più significative della sua esistenza (quadri apprezzati, autori di riferimento, celebrità più amate…), le frasi o poesie scritte e altre forme di testimonianza biografica. A ciò, come in ogni blog, si accostano in modo continuo e confuso materiale analogo, interventi, video e post inseriti dai membri delle comunità a cui il defunto apparteneva. Le pagine di questo tipo non palesano ai cybernauti segni di discontinuità rispetto a quelle dedicate a persone in vita o da esse direttamente gestite. Anche nei casi in cui la morte del soggetto è annunciata, il blog resta a tutti gli effetti omologo a tutti gli altri, dinamico, vivente, giacché costituisce un nodo in cui circolano, vengono elaborate e condivise informazioni, simboli ed emozioni.
Non siamo, quindi, al cospetto di una versione aggiornata del culto dei morti, ovvero della forma rituale che costituisce una delle pietre miliari di ogni civiltà. La bacheca di Facebook e la pagina di un blog, quand’anche consacrate a rendere omaggio a un defunto, presentano delle differenze strutturali decisive rispetto a un altare cimiteriale. Nel contesto elettronico, il mezzo utilizzato a tal fine è lo stesso di cui gli internauti si servono per balzare da una rete all’altra, per saziare la loro irrefrenabile sete di esperienza. Lo spazio in cui esso si situa è il luogo dove pullula la socialità elettronica. Si tratta di un ambiente distinto da un paradigma relazionale di tipo connettivo, di cui la circolazione di dati e l’erranza degli attori sociali costituiscono i capisaldi. Non c’è qui alcuna ingiunzione al silenzio o al rispetto di chi riposa. Il corpo elettronico del defunto è a portata di un clic, condivide l’acqua in cui navighiamo, partecipa del rumore mediatico in cui siamo bagnati. L’identità della persona scomparsa, o meglio le sue impronte, sono trascinate così nel cuore pulsante della cultura elettronica. Che il suo referente originario lo voglia o no, essa è rimessa in vita o quantomeno in circolazione.
In questi casi, per quanto ciò possa sembrare paradossale, la persona deceduta nella vita reale continua a produrre significato e a vivere in Rete. Addirittura, quando di essa non vi fossero precedentemente tracce nel cyberspazio, essa vi “nasce”, passando quindi da uno stato di inesistenza e non frequentazione a una sua presenza. è il caso di A. M., riluttante in vita a comparire in qualsivoglia modo nel Web. Dopo la sua scomparsa, il marito le ha aperto un blog corredandolo di foto, appunti di vita, commenti e testimonianze. Pur nelle versioni più sobrie e rispettose, nonostante la benevolenza e l’ingenuità di fondo da cui l’atto scaturisce, siamo qui di fronte a un oltraggio – nel senso di “andare oltre” – dell’identità privata, un ulteriore sintomo della debolezza e della precarietà di tale categoria nell’ambito delle nostre società postmoderne.
Per i frequentatori dei social network come Facebook, Myspace o Asmallworld, l’identità elettronica precede ed eccede il soggetto, sino ad acquisire un’autonomia rispetto al suo referente fisico. Una pagina personale, con tutte le informazioni che porta con sé, può infatti essere gestita in modo solo parzialmente autonomo, integrata e attraversata com’è di impronte e di dati esterni e indipendenti rispetto al suo intestatario. Riguardo all’esempio appena riportato, invece, possiamo sostenere che l’identità elettronica segue in modo quasi esclusivamente indipendente l’identità privata del defunto. In uno scenario che rende obsolete persino le geniali profezie di Marshall McLuhan e le visioni fantascientifiche di David Croneberg e di Philip K. Dick, il corpo elettronico succede al corpo fisico conservandone in modo selettivo solo alcune tracce prive di coscienza. Accanto alla necessità di redigere un quadro legislativo sul testamento biologico, dovremmo iniziarci a preoccupare quindi anche del testamento elettronico. Esso tuttavia potrebbe costituire solo una misura di accompagnamento, un ammortizzatore transitorio per alleviare gli effetti più traumatici sprigionati dall’avvento di un’epoca che, nel bene e nel male, sta seppellendo l’individualismo e l’individuo finora padroni della storia.