Parla Carlo Perego dell’Istituto Donegani-Eni.
di Matteo Ovi
La prima cosa che colpisce è la definizione del Donegani come Along with Petroleum (Assieme al Petrolio) e non Beyond Petroleum (Al di là del Petrolio)come altri operatori del settore descrivono il loro impegno di ricerca. Cosa significa questa “variazione sul tema” in termini di strategia aziendale?
Il petrolio e il gas naturale continueranno ad alimentare il mondo per decenni; pertanto conviene pensare ad affiancare a queste risorse dei nuovi progetti attraverso i quali inserire gradualmente le fonti rinnovabili.
Ovviamente, non tutti gli aspetti di questo inserimento vengono affrontati con le stesse cadenze dall’Istituto. Le ricerche su tematiche ambientali possono avere ricadute più rapide, mentre il solare può essere considerato un progetto più a lungo termine.
Quale è a grandi linee la distribuzione delle risorse dell’Istituto tra i vari filoni di ricerca?
Il 50 per cento delle risorse va al settore del solare, mentre alle biomasse va circa il 30 per cento, lasciando il restante 20 per cento a progetti legati alle tematiche ambientali.
Le normative parlano chiaro: entro il 2020 almeno il 10 per cento dei serbatoi nel mondo dovrà contenere biocombustibili e ciò comporterà grandi cambiamenti nel settore.
Fino ai primi anni 2000 la distribuzione era quasi completamente centrata sul petrolio. Questi nuovi vincoli sono abbastanza stringenti.
Certamente. Non basterà però mettere biocombustibili nel serbatoio. Le emissioni di CO2 dovranno calare almeno del 50 per cento entro il 2016 e del 60 per cento entro il 2017.
Oltretutto, biodiesel, etanolo e tutti i biocombustibili di prima generazione sono in conflitto con la crisi alimentare scatenata dal riutilizzo di terreni coltivabili. Bisogna immaginare, quindi, nuove linee di biocombustibili che non competano con il mercato alimentare.
Quali sono le linee di ricerca fondamentali?
In un primo progetto, conosciuto anche come Waste to Fuel, l’Istituto ha ideato e messo a punto una tecnologia che converte i rifiuti umidi in un bioolio utilizzabile per la produzione di energia elettrica e per l’autotrazione, previo un ulteriore trattamento per convertirlo in biocombustibile. La Comunità Europea dovrebbe premiare questa tecnologia con un double counting, attribuendo alla sua implementazione un valore doppio rispetto alle aspettative del 2020. Pare sia addirittura in fase di discussione una ulteriore revisione, per cui il premio per la produzione di biocombustibili da rifiuti o dalla trasformazione della CO2 prodotta da alghe verrebbe quadruplicato.
L’Italia produce tre milioni di tonnellate di rifiuti umidi, con una potenziale crescita a 10 milioni nel caso in cui venisse ottimizzato il sistema di raccolta differenziata. Il processo sviluppato dall’Istituto permetterebbe di convertire in bioolio fino al 15 per cento dei rifiuti raccolti e quindi di produrre fino a due milioni di tonnellate di olio, in un paese dove il mercato del diesel si aggira intorno ai 20 milioni di tonnellate. Una corretta implementazione di questa tecnologia garantirebbe un supporto non indifferente ai bisogni energetici del paese.
Una seconda linea ,di ricerca, lo sfruttamento di biomasse derivate da scarti di legno e cellulosa, quali sfalci e scarti agricoli, è partita con un progetto, relativamente nuovo, che ha dato luogo alla collaborazione con una società finlandese per la realizzazione di un impianto pilota.
In una terza linea , chiamata BTL (Biomass to Liquid) si è avviato un progetto in collaborazione con la francese IFP Access, mirante alla trasformazione del gas naturale in GPL e GTL. Questa tecnologia ha registrato esempi negativi di aziende che non hanno saputo gestire in maniera adeguata la logistica a monte del processo produttivo. è il caso della Choren Industries, che pur avendo precorso i tempi nel collaudo di questa tecnologia, è fallita nel 2011. Ma ora vi sono nuove prospettive interessanti e per noi questa linea è prioritaria.
Molte risorse vanno anche verso l’energia solare.
Senza dubbio, però bisogna premettere che ENI produce già nel suo stabilimento di Nettuno celle fotovoltaiche in silicio sia monocristallino, sia policristallino.
Dalla tipologia di prodotti che vengono sviluppati al Donegani potrebbero dipendere future soluzioni industrializzabili.
Nel settore del solare è imperativo individuare materiali con un costo inferiore al silicio e una maggiore flessibilità per soddisfare diverse applicazioni. Qui emerge la competenza storica dell’Istituto, che dal 2010 vanta già 28 brevetti proprietari per nuovi materiali e per un processo di produzione su stampa che permette di risparmiare materiale.
Le celle organiche (OPV) costituiscono un esempio eloquente. In questo caso, le celle polimeriche non raggiungono ancora il 10 per cento di rendimento, ma la tecnologia è in costante sviluppo e per alcune particolari applicazioni (i telefoni cellulari, per esempio) sarebbe possibile immaginare già una loro commercializzazione.
Un altro progetto che vede interessato l’Istituto è quello per la produzione di concentratori solari luminescenti. Questi permettono di concentrare la luce visibile sulle estremità di una superficie trasparente, trattata con coloranti speciali. Un esempio di questa tecnologia sarà presto visibile in una pensilina per biciclette. Un manufatto realizzato in questo materiale, che ha immediate applicazioni urbanistiche, potrebbe trovare anche applicazioni nel business di ENI Power e delle celle solari tradizionali.
Il materiale in sé è molto comune. Il “trucco” sta nei coloranti e nelle combinazioni di coloranti, per le quali abbiamo una decina di brevetti registrati, e la chiave di tutto è il riassorbimento della luce concentrata.
Vi sono in questo settore collaborazioni internazionali importanti?
Sì, molte. Tra le tante ricordo che stiamo anche lavorando con il MIT per realizzare celle flessibili su carta e che si sta considerando la creazione di una startup per un progetto di fotodecomposizione dell’acqua e la conseguente produzione di idrogeno.
Un altro progetto prevede la realizzazione di un impianto solare termodinamico con un sistema parabolico dalla meccanica semplificata per rendere l’intero sistema più economico. Questo progetto può di fatto venire integrato nel normale business di ENI.
La storica collaborazione con il MIT è forte di un contratto da 10 milioni di dollari l’anno. Questi fondi transitano attraverso ENI e per il 60 per cento vengono impiegati in ricerca e sviluppo di fonti di energia non convenzionali.
Questa collaborazione, come altre che il gruppo ENI intraprende con altri istituti di ricerca e università nel mondo, favorisce una discreta rotazione dei talenti con il MIT ed è in fase di valutazione l’ipotesi di ospitare nelle nostre sedi dottorati o dottorandi italiani e stranieri.
Inoltre, non sfugge a ENI il potenziale dei paesi emergenti. Esempio ideale di questa attenzione è il programma postuniversitario destinato a studenti africani, che coinvolge ENICorporate University e Oxford University. Tutto ciò avvalora la filosofia secondo la quale lo scambio culturale costituisce un fattore fondamentale nella ricerca.
Nell’ambito di questa filosofia, l’Istituto Donegani è da sempre il fiore all’occhiello di ENI. Quando nel 2000 la chimica stava attraversando un periodo di difficoltà, aveva subito delle critiche, ma con il passaggio in ENI si sono aperte nuove opportunità.
Il morale è dunque alto, anche di fronte a competitori come Novamont, che per altro in collaborazione con la nostra Versalis dovrebbe realizzare il primo impianto biochimico per la produzione di materie prime per plastica biodegradabile. Per quanto Novamont sia per noi una sorta di avversario, non dimentichiamo che le sue origini partono da noi.
Dove vede il Donegani nel futuro?
Credo profondamente nella chimica più che nei combustibili convenzionali. Quando disporremo di zuccheri di seconda generazione, converrà convertirli in prodotti chimici anziché in combustibili. L’essere verdi dalle basi favorirà maggiormente chi avrà continuato a investire nel know how nella chimica.
Bisognerà anche essere rapidi a vedere le occasioni di industrializzazione. Non contano solo i brevetti, ma anche il know how necessario a passare dal laboratorio alla produzione su larga scale: quello che si definisce il time to market.
A partire dal 2006, l’Istituto ha attraversato una importante ristrutturazione, confluendo all’interno dell’ENI. L’anno successivo è stata individuata la nuova missione del Centro ricerche, denominata Along with Petroleum e volta allo sviluppo di fonti di energia non convenzionale o rinnovabile in parallelo con il petrolio.
Le ricerche dell’istituto ruotano attorno a tre grossi filoni: la valorizzazione delle biomasse a fini energetici; la conversione della energia solare; il monitoraggio e la prevenzione dei danni all’ambiente.
Valorizzazione delle biomasse
Nell’ambito dei biocombustibili, l’Istituto si sta concentrando principalmente su tre progetti: la valorizzazione dei rifiuti umidi, lo sfruttamento di biomasse derivate da scarti ligninocellulosici, la conversione delle biomasse in sostanze liquide.
Nella prima linea di ricerca, , denominata Waste to Fuel, è prevista la realizzazione di una centrale pilota a Novara.
Nel secondo progetto, relativo allo sfruttamento di biomasse derivate da scarti ligninocellulosici quali sfalci e scarti agricoli, si procede con la fermentazione degli zuccheri contenuti e al loro abbinamento a enzimi selezionati appositamente.
Nutrendosi di questi zuccheri, i microorganismi produrrebbero dei grassi che vengono trattati per venire convertiti in biodiesel
Terzo, ma non ultimo, il progetto per la conversione delle biomasse in liquidi – o BTL, Biomass to Liquid – permette di ottenere monossido di carbonio e idrogeno da convertire in idrocarburi attraverso la gassificazione delle biomasse
Conversione dell’energia solare
Anche in questo caso, sono tre le aree di intervento:
studi di materiali per fotocellule con costi inferiori a quelli del silicio;
foto-produzione di idrogeno per dissociazione dell’acqua con l’impiego dell’energia solare;
sviluppo di sistemi ibridi di produzione di energia elettrica (con eventuale co-produzione di acqua dissalata), basati su tecnologia solare termodinamica e cicli combinati, anche al fine di valorizzare riserve remote di gas naturale.
Monitoraggio ambientale e prevenzione
In questo settore di ricerca, i progetti più rilevanti concernono:
la riqualificazione dei terreni mediante essenze vegetali autoctone atte a estrarre i contaminanti dal suolo o favorirne la degradazione;
lo sviluppo di sistemi di trattamento passivo delle acque di falda come le barriere permeabili reattive (PRB);
la messa a punto di materiali e metodologie per il monitoraggio del livello di inquinamento del suolo e delle acque e del relativo grado di rischio;
lo sviluppo di tecnologie elettrocinetiche (EKRT) in situ per la bonifica di suoli contaminati da metalli pesanti;
le tecnologie d’inertizzazione dei rifiuti industriali, basate sulla combustione senza fiamma con ossigeno (flameless combustion);
lo sviluppo di materiali idrofobici (in grado di separare acqua dal petrolio) e di tecnologie per il recupero di spandimenti di greggio in ambienti marini (oil spills).
Attualmente operano all’interno dell’Istituto Donegani circa 150 tra ricercatori, tecnici e staff.