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È ragionevole pensare che sia meglio lasciare la ricerca alle aziende, che in fondo conoscono meglio i mercati, ma ci sono molti economisti che suggeriscono una decisa partecipazione del governo, soprattutto se si vuole finanziare lo sviluppo scientifico.

di David Rotman

Le proposte di bilancio dell’ex presidente Trump prevedevano generalmente di tagliare gli investimenti federali in ricerca e sviluppo. Lo scorso febbraio, ancora una volta, il suo budget per l’anno fiscale 2021 includeva una riduzione della spesa in ricerca e sviluppo di circa 14 miliardi di dollari, compresi grossi tagli al National Institutes of Health e alla National Science Foundation. Al contrario, Joe Biden ha previsto ingenti importi – 300 miliardi di dollari in 4 anni – in ricerca e sviluppo, con aumenti importanti a varie agenzie, tra cui NSF e NIH.

La differenza riflette un dibattito in corso da decenni: quanto dovrebbe spendere il governo federale per la ricerca? La R&S finanziata dal governo è scesa dall’1,8 per cento del PIL a metà degli anni 1960, quando era al suo apice, a poco più dello 0,6 per cento oggi. Fortunatamente, le aziende hanno coperto gran parte del rallentamento.

Il problema è che è difficile quantificare i risultati della ricerca. È una sfida che tormenta gli economisti da mezzo secolo. Con un nuovo e promettente approccio, due economisti, Benjamin Jones della Northwestern e Lawrence Summers, professore ad Harvard ed ex segretario al Tesoro degli Stati Uniti, hanno creato un metodo per calcolare i benefici complessivi dell’innovazione per la società. Il loro obiettivo è determinare l’effetto netto dell’innovazione sull’economia – non solo i rendimenti per chi ha creato l’invenzione – e quindi guardare all’effetto sulla crescita del PIL.

I benefici sociali, che il loro modello consente di definire in vari modi, sono ampi: ogni dollaro investito in ricerca e sviluppo produce, in media, in almeno 4 dollari in benefici economici conseguiti negli anni successivi. Cambiando alcune delle variabili si ottengono profitti ancora maggiori, fino a 20 dollari in crescita economica per 1 dollaro in finanziamenti per l’innovazione. 

Jones e Summers discutono in dettaglio perché gli investimenti privati non coglieranno appieno questi enormi benefici sociali. Il motivo è ciò che agli economisti piace chiamare spillover. Un’azienda non raccoglierà mai tutti i frutti della sua innovazione di successo, perché anche altre aziende potrebbero trarne vantaggio (si pensi a tutti gli smartphone che hanno fatto seguito al primo iPhone di Apple) e anche la società in generale trarrà vantaggio dagli investimenti iniziali.

Ciò significa che le aziende non investiranno mai nel pieno potenziale dell’innovazione per migliorare il nostro tenore di vita. Da qui l’importanza del finanziamento del governo. I risultati dello studio hanno ovvie implicazioni per le questioni politiche odierne, per esempio se gli Stati Uniti debbano espandere notevolmente il budget della NSF. “Se c’è un investimento in cui spendi un dollaro e ti ripaga più di un dollaro, è un investimento da fare”, dice Jones. L’analisi implica senza dubbio che il paese sta spendendo troppo poco in R&S lasciando che siano i mercati a decidere.

Per chi crede nell’innovazione e per gli esperti di economia, la scoperta potrebbe non essere poi così sorprendente. Ma fornendo un nuovo strumento rigoroso per quantificare l’impatto dell’innovazione, Jones e Summers hanno appoggiato la tesi di un più ampio ruolo del governo nel sostenere la ricerca.

Biden  dovrà affrontare enormi sfide nel rilanciare un’economia paralizzata, trovare e distribuire vaccini e terapie efficaci per il covid-19 ed effettuare test sul virus semplici e onnipresenti sul territorio. Su tutto ciò incombono minacce a lungo termine derivanti dai cambiamenti climatici e crescenti livelli di disuguaglianza di reddito e ricchezza. I progressi della scienza saranno sicuramente la chiave per affrontare tutti questi problemi; e avremo anche bisogno di tutta la crescita economica che possiamo “spremere” dalla R&S.

Per decenni, gli economisti ambientali hanno sostenuto l’importanza del prezzo del carbonio, sotto forma di una tassa sul carbonio o di programmi cap-and-trade, come politica essenziale per affrontare il cambiamento climatico. La teoria è valida: dobbiamo tenere conto dei veri “costi” dei combustibili fossili includendo il loro impatto sull’ambiente e sulla salute umana.

Uno strumento fondamentale per stabilire il prezzo del carbonio è la stima del suo costo sociale (SCC, social cost of carbon), che ha lo scopo di riflettere il danno globale dell’emissione di una tonnellata di anidride carbonica nell’atmosfera. Ma ora, di fronte all’urgenza di affrontare il cambiamento climatico, alcuni si chiedono quanto sia stata e mai sarà efficace la tariffazione del carbonio e il valore del SCC. 

I ricercatori del Rhodium Group e della Columbia University offrono prove che gli approcci tradizionali alla determinazione del prezzo del carbonio da soli non ci porteranno all’obiettivo di zero emissioni di carbonio entro la metà del secolo, ma sono necessarie politiche aggiuntive per superare l’inerzia nei settori industriali costruiti intorno ai combustibili fossili.

Uno degli autori della ricerca, Noah Kaufman, delinea un approccio completamente diverso alla fissazione dei prezzi del carbonio, uno che non si basa su un costo sociale del carbonio. Indicando la gamma piuttosto generica di stime del SCC – da zero a più di 2.000 dollari per tonnellata – i ricercatori stanno proponendo un modo più pratico e trasparente. Vogliono basare il prezzo del carbonio sui calcoli di ciò che serve per arrivare a zero emissioni nette entro un tempo concordato, piuttosto che su calcoli complessi e sfuggenti dei danni causati dalle emissioni di carbonio. 

In altre parole, fissa i prezzi del carbonio con lo stesso sistema delle multe per il parcheggio, vale a dire un livello tale da scoraggiare le persone, non sulla base di una stima di quanto costa alla società il parcheggio illegale. I loro calcoli mostrano un prezzo del carbonio che dovrebbe oscillare tra i 34 e i  64 dollari per tonnellata entro il 2025, per poi salire a una banda tra i 77 e i 124 dollari entro il 2030, per arrivare a zero emissioni di carbonio entro il 2050 (leggermente più alto della maggior parte degli schemi circolanti sul prezzo del carbonio).

A loro parere, questo approccio sarà molto più utile per i responsabili politici di un SCC, come si può evincere da un articolo, The Trouble with Carbon Pricing, apparso su “Boston Review”. Il verdetto finale sul SCC non è ancora arrivato, ma è certamente vero che fissare una cifra ha portato a infinite controversie e il prezzo del carbonio si è dimostrato inefficace nei molti posti in cui è stato provato. E’ arrivato il momento di sperimentare nuovi approcci.

(rp)