Qual è il modo migliore per misurare l’impatto della tecnologia sul lavoro?
Ce lo chiediamo da molto tempo, sicuramente dai tempi di David Ricardo (che pone il problema nel capitolo intitolato “On Machinery“, aggiunto nel 1821 alla terza edizione del suo Principles of Political Economy and Taxation) o forse dai tempi di Platone (nel Fedro, Socrate riporta la critica del Faraone all’invenzione dell’alfabeto: Esso [l’alfabeto] ingenererà oblio nelle anime di chi lo imparerà: essi cesseranno di esercitarsi la memoria perché fidandosi dello scritto richiameranno le cose alla mente non più dall’interno di se stessi, ma dal di fuori, attraverso segni estranei).
Sicuramente, con l’arrivo dell’IA, la questione diventa particolarmente scottante.
Negli ultimi dieci anni si è diffuso un metodo che calcola l’Ability Level AI Exposure (AIOE), un indicatore che misura il grado di esposizione delle professioni all’Intelligenza Artificiale. L’AIOE è calcolato analizzando l’importanza di specifiche abilità lavorative e la loro correlazione con le capacità tipiche delle tecnologie IA, come il riconoscimento di immagini e la comprensione del linguaggio (Felten E.W., Raj M., Seamans R. (2021), Occupational, industry, and geographic exposure to artificial intelligence: A novel dataset and its potential uses, Strategic Management Journal, 42, n.12, pp.2195-2217).
L’AIOE consente di identificare quali professioni sono più colpite dall’automazione cognitiva, concentrandosi su quanto l’IA possa sostituire o assistere il lavoro umano in base a compiti e competenze specifiche. Per l’analisi di questo tipo, si usa solitamente come base O*NET, un database sviluppato dal Dipartimento del Lavoro degli Stati Uniti, che contiene centinaia di descrittori standardizzati e specifici per quasi 1.000 professioni, coprendo l’intera economia statunitense. Questo significa che i lavori di analisi sull’impatto dell’AI, come quello di Felten (2021), parlano di un’economia molto diversa dalla nostra. Finalmente questo gap di analisi è stato colmato da un gruppo di ricercatori (Ferri, Porcelli e Fenoaltea 2024, Ferri V., Porcelli R., Fenoaltea E.M. (2024), Lavoro e Intelligenza artificiale in Italia: tra opportunità e rischio di sostituzione, Inapp Working Paper n.125, Roma, Inapp, link) di INAPP, che hanno adattato l’indicatore AIOE usando il database delle professioni e abilità dell’Indagine Campionaria sulle Professioni (ICP) del 2013 (Inapp – Istat), rivisto nella Rilevazione continua sulla Forza Lavoro di ISTAT (RCFL) del 2022.
Il risultato è assieme prevedibile e sconcertante. Le venti professioni più impattate dall’IA, e quindi potenzialmente sostituibili, guardando soltanto alle abilità richieste e ipotizzandone la loro riproducibilità da una macchina “intelligente”, sono nella prima immagine.
Colpisce che:
- al quarto posto ci sono i direttori generali, dipartimentali ed equiparati delle amministrazioni dello Stato, degli enti pubblici non economici e degli enti locali
- al sesto posto ci sono i magistrati
- al diciottesimo ci sono i commercialisti
Wow!
Naturalmente è difficile immaginare che professioni come queste scompaiono. D’altra parte, l’indicatore misura l’esposizione all’AI: quei lavori, per il tipo di abilità che richiedono, sono particolarmente toccati dall’AI. Ma impatto non significa sostituzione. I ricercatori di Inapp ne sono ben consapevoli, e aggiungono un secondo indicatore, che chiamano indicatore di Complementarità, o C-AIOE, costruito con l’obiettivo di correggere l’AIOE in base al grado di integrazione dell’IA nelle diverse professioni. L’idea è misurare non soltanto quanto l’IA può sostituire ma anche affiancare il lavoro umano.
Per calcolare il C-AOIE si tiene conto di un fattore di correzione (lo chiamano theta) che considera sei dimensioni:
- comunicazione,
- responsabilità,
- condizioni fisiche,
- criticità,
- livello di routinizzazione
- competenze richieste.
Queste condizioni, incorporate nel fattore di correzione, sono una sorta di zoccolo duro dell’umano: per esempio, oltre alla capacità di lettura e comprensione dei testi, o capacità di ragionamento deduttivo e induttivo, che l’IA può esibire in maniere sempre maggiore, a un magistrato servono capacità di comunicazione faccia a faccia o capacità di assunzione di responsabilità (per le conseguenze delle proprie decisioni) che non è facile attribuire alle macchine.
Armati di questo secondo indice, i ricercatori riformulano la lista precedente come nella seconda figura.
Considerando la complementarità, dalle prime venti posizioni spariscono tutte le professioni, come i dirigenti della PA o i magistrati, che, pur essendo fortemente esposte all’IA, sono altrettanto suscettibili di complementarità. Di fatto, l’elevato livello di responsabilità̀ e gli altri elementi che caratterizzano il fattore di correzione determinano un impatto sostitutivo dell’IA drasticamente inferiore.
Oltre a far tirare un gran respiro di sollievo ad avvocati, commercialisti e altri professionisti (inclusi i consulenti come me), questa correzione del AIOE porta addirittura a un guizzo di entusiasmo. Utilizzando il fattore di correzione theta, i ricercatori costruiscono il quadrante nella terza figura.
In pratica succede questo:
A destra della linea verticale, la linea di confine dell’IA, l’impatto è grande. Complessivamente, a destra della linea di confine si trova oltre il 50% dei lavoratori italiani.
Nel quadrante superiore (in alto a destra) l’impatto è complementare (quello che spesso si chiama augmentation), nel quadrante inferiore (in basso a destra) l’impatto è sostitutivo. Nel quadrante della complementarità si trova il 26% dei lavoratori italiani: questi lavoratori, lavoreranno meglio e saranno più produttivi. Nel quadrante della sostituzione si trova il 23% dei lavoratori.
Se volete un titolo a effetto, eccolo qui: quasi un quarto dei lavoratori italiano potrebbero perdere il lavoro a causa dell’IA.
Se volete un altro titolo a effetto, eccolo qui: oltre un quarto dei lavoratori italiani beneficeranno dell’IA.
Sarà vero? Non lo sappiamo, ma questa analisi dovrebbe servire per aiutarci a ragionare sulle politiche di formazione, re-skilling e così via più di tante previsioni basate più sul sentimento che sui dati.
Per rendere il tutto più leggibile, ho provato a ridisegnare i quadranti tenendo conto dei 9 grandi gruppi di professioni della classificazione ISTAT (2022) su cui si basa la rilevazione ICP (vedi ISTAT), ipotizzando questi nomi per i quadranti:
- Quadrante della Complementarità (IA con impatto complementare alto).
- Quadrante della Sostituzione (IA con impatto sostitutivo alto).
- Quadrante dell’Impervio (lavori difficilmente influenzabili dall’IA).
- Quadrante dell’Impatto Minimo (IA con impatto basso in generale).
Nel quadrante della complementarità si trovano le professioni appartenenti ai gruppi (1) Legislatori, imprenditori e alta dirigenza, (2) Professioni intellettuali, scientifiche e di elevata specializzazione e (3) Professioni tecniche hanno un’esposizione alta, ma anche un’altra complementarità: l’ipotesi è che saranno piuttosto aumentate che sostituite. Qui ci sono dirigenti, professori, architetti, insegnanti, avvocati e commercialisti.
Nel quadrante della sostituzione si trovano le professioni del gruppo (4) Professioni esecutive del lavoro d’ufficio (dalla segreteria alla contabilità, ma anche i tecnici programmatori) hanno un indice di esposizione significativamente più alto di quello di complementarità. L’ipotesi è che queste siano le professioni più a rischio di sostituzione.
Nel Quadrante dell’impatto minimo si trovano le professioni del gruppo (5) Professioni qualificate nelle attività commerciali e nei servizi, un gruppo molto grande che comprende, oltre a chi lavora nel commercio, operatori culturali, operatori che svolgono servizi alla persona (badanti, sono nella situazione opposta: bassa esposizione, altra complementarità (teorica). In questo caso, l’ipotesi è che i miglioramenti potenziali ci siamo, ma sia più difficile identificarli.
Nel quadrante dell’impervio si trovano le restanti professioni, i gruppi (6) Artigiani, operai specializzati e agricoltori, (7) Conduttori di impianti, operai di macchinari fissi e mobili e conducenti di veicoli e (8) Professioni non qualificate, (i manovali, i conduttori di veicoli a trazione animale e altre professioni simili nonché un gran numero di professioni non qualificate, appartenenti prevalentemente low skilled) pare che che non potrebbero essere sostituite né supportate dall’IA.
Questa è l’analisi dei dati, che porta a conclusioni simili a quelle che si sono lette nelle analisi del mercato del lavoro americano a partire da Falten (2021), ma finalmente adattate al mercato del lavoro italiano.
Prima di provare a concludere, vale la pena considerare due aspetti, evidenziati anche dagli autori del lavoro, con cui leggere questi risultati.
Il primo punto è che questa è un’analisi statica di un mercato del lavoro che è in realtà dinamico, in cui la tecnologia funziona da innesco e catalizzatore del cambiamento: via via che le tecnologie sono introdotte, le professioni cambiano, si adattano, attraverso un processo di ridefinizione delle competenze e addestramento e ri-addestramento dei lavoratori. Questo dinamismo sarà tanto più accentuato per le professioni oltre la linea di confine dell’impatto, ma comunque toccherà l’intero mercato del lavoro.
Il secondo punto, è che l’analisi non tiene conto (né può farlo) delle nuove professioni che l’IA creerà: quante saranno, quali saranno, che soddisfazione e remunerazione daranno a chi le esercita è una questione aperta, su cui possiamo soltanto fare congetture.
Tenendo a mente questi due caveat, che conclusioni possiamo trarre da questo lavoro?
Per prima cosa, abbiamo, anche per l’Italia, un punto di partenza chiaro per ragionare, fuori dalle considerazioni astratte o ideologiche, dell’impatto dell’IA. E’ uno schema basato su dati consolidati ed è sufficientemente raffinato da non limitarsi a dire che “i magistrati scompariranno”, con un’eco della famosa affermazione di Geofrey Hinton del 2017: “I radiologi non servono più“. Con l’indice di complementarità, gli autori provano, da un lato, a spiegare perché la scomparsa dei magistrati, seppur possibile, non accadrà (utilizzando le dimensioni dell’indice theta) e, dall’altro, a far capire che, proprio nelle professioni ad alto impatto, ma bassa sostituibilità, si trova la grande opportunità di miglioramento, sia esso aumento della produttività o aumento della qualità del lavoro (o più probabilmente entrambi).
Poi, abbiamo la conferma, se ce ne fosse bisogno, che un gruppo importante di professioni è effettivamente a rischio di sostituzione. Sono professioni impiegatizie, magari ad alta specializzazione, dal contabile al tecnico programmatore, all’operatore di contact center. Non sarà facile “proteggere” dall’automazione cognitiva queste occupazioni, che sono professioni della conoscenza, ma evidentemente si basano su un utilizzo routinario del sapere, quasi nozionistico, che è già o sarà ben presto dominato dalle macchine.
Con queste due conclusioni in mente, si può fin da subito immaginare azioni di potenziamento degli effetti positivi e di mitigazione di quelli dannosi.
Per massimizzare gli effetti positivi, dobbiamo imparare tutti quanti a usare l’IA: smettere di parlarne come di un astratto fenomeno tecnologico e usarla come strumento, che via via diventerà uno strumento utile e affidabile.
Per minimizzare gli effetti negativi, bisogna iniziare a pensare seriamente che non è lontano il momento in cui, per esempio, gli addetti al protocollo e allo smistamento di documenti (per citare la professione in cima alla lista) non serviranno più. Quanto prima ce ne rendiamo conto, tanto prima metteremo in pratica azioni che permettano di assicurare un futuro adeguato anche a chi quelle mansioni oggi le svolge.
Dobbiamo però anche riconoscere che quello che emerge è piuttosto sconvolgente. Alla fine, l’evidenza è che per oltre il 50% dei lavoratori italiani il lavoro cambierà: per la metà di questo 50%, il lavoro che fanno oggi potrebbe semplicemente scomparire, per l’altra metà essere trasformato. La metà dei lavoratori italiani sono circa 11 milioni di persone e non possiamo pensare che una trasformazione così radicale sia semplice e lineare.
Evidentemente, l’IA non si limita a impattare direttamente i singoli ruoli, ma genera una ristrutturazione sistemica delle modalità con cui intere organizzazioni operano. Ad esempio, le professioni ad alta complementarità potrebbero generare aumenti di produttività non solo per chi svolge quelle mansioni, ma per l’intera catena di valore: un manager che utilizza l’IA per migliorare la capacità decisionale influenzerà non solo la sua produttività personale, ma anche quella del team che coordina e del contesto aziendale in cui opera. Allo stesso modo, la sostituzione di attività routinarie in lavori amministrativi potrebbe ridurre i costi operativi in maniera significativa, spingendo le aziende a reinvestire in nuove tecnologie e innovazioni.
Ci troviamo davanti a scenari che vanno oltre la semplice automazione. Potremmo immaginare un futuro in cui la ristrutturazione generata dall’IA porti a una riformulazione radicale del lavoro stesso: intere categorie professionali non verranno solo “sostituite” o “potenziate”, ma ridistribuite. Probabilmente qui sta la grande sfida, capire come saranno fatte queste nuove professioni che integrano competenze umane e capacità dell’IA, con profili ibridi che sono oggi difficili da definire.
P.S. Nel lavoro di Ferri, Porcelli e Fenoaltea (2024) si trova molto di più, ad esempio un’analisi geografiche e demografiche sulla distribuzione dell’impatto, la cui conclusione è che le aree maggiormente industrializzate e i settori più̀ digitalizzati o basati sui servizi predispongono i lavoratori a una maggiore esposizione all’IA. Inoltre, i lavoratori più̀ anziani e quelli con un livello di istruzione più avanzato sembrano essere più suscettibili agli effetti dell’IA. Magari di queste analisi parliamo un’altra volta.