Qualcosa sta succedendo nel mondo della comunicazione, che non ci consente più di pensare al “migliore dei mondi possibili”. Degrado culturale e crisi relazionale orientano la riflessione e la ricerca mediatica verso una più responsabile considerazione dei rapporti tra comunicazione e “abilitazione sociale”.
di Mario Morcellini
C’è una cattiva abitudine che caratterizza efficacemente la diffusa difficoltà di leggere le evidenze meno confortanti del nostro tempo: quello di darle per scontate. è una drammatica forma di rimozione e di rassicurazione. Ma occorre rovesciare questo stile cognitivo: l’analisi del clima culturale del nostro tempo è l’elemento irrinunciabile per un’attenta riflessione sul mutato assetto di potere nelle tradizionali agenzie di socializzazione. Aggiungo, per ulteriore chiarezza, una radicale precisazione rispetto al saggio pubblicato nel fascicolo precedente: “non c’è cultura se non c’è mediazione”. Un messaggio che bisogna dare esplicitamente ai giovani e ai moderni è che una vertenza qualità implica anche la rivendicazione di un ruolo per la mediazione.
Sono gli adulti consapevoli delle loro responsabilità che devono praticare la mediazione. I genitori che non fanno finta di essere amici dei figli e che tornano a esercitare la genitorialità. Esattamente quel che debbono fare i professori nei confronti degli studenti: esercitare la funzione magistrale. A ben vedere, vale anche per la politica non politicante. Vale per tutti quelli che sanno che la funzione di guida è stata sempre storicamente al centro dei processi educativi.
Quando la scuola non sa comunicare
Non c’è civiltà senza mediazione. Se non si parte da imperativi come questi, più semplici che retorici, la scuola subisce lo stress di essere agenzia educativa che deve mediare il rapporto tra giovani e consumi culturali. è un ruolo difficile, soprattutto in tempi di crisi. Proprio per questo, l’unico punto su cui non mi sento di attaccare i media è nella presa d’atto che è stata anzitutto la scuola ad abdicare al suo mestiere. La comunicazione presenterebbe oggi un bilancio sociale e culturale diverso, se i media fossero stati “accompagnati” da quel territorio che si chiama formazione. La scuola non è stata abbastanza presente. Tutte le battaglie che abbiamo fatto sono state minoritarie e intellettualistiche. Non abbiamo saputo convincere i docenti a riposizionarsi sulla comunicazione e non è raro che essi non sappiano comunicare ai loro allievi.
Con due conseguenze: a scuola c’è fastidio, noia, ripetizione, liturgia; al tempo stesso, questa tendenza ostinatamente proiettata a rimuovere i linguaggi dei media e delle tecnologie e a ignorare i “codici utente”, ha finito per favorire un’interpretazione evasiva della comunicazione. E tuttavia non mancano dimensioni più positive: nei dati di ricerca, nelle sperimentazioni sociali più coraggiose, nella presa d’atto che i giovani sono “attivisti culturali” più chiaramente che in passato, già negli anni dell’esperienza scolastica, ma anche e soprattutto nell’alone degli anni successivi. è una vera sorpresa: i dati dimostrano un’influenza positiva della scuola sull’adozione di stili culturali e comunicativi da parte dei giovani: un’influenza che in passato non si rintracciava. è una scoperta decisiva per il futuro, perché i giovani di oggi saranno gli adulti di domani.
Ma questo passaggio al futuro non è affatto naturale. Provocatoriamente, occorre ammettere che per ottenere risultati di allargamento del cambiamento culturale bisogna cambiare anzitutto la “disposizione” dei docenti. Bisogna convincere i docenti che se loro non cambiano, la scuola è finita. La vertenza è lì. Ovviamente riguarda anche la politica italiana, e non certo solo quella di questa stagione.
Anche dove più forti emergono i segnali della crisi – e la diagnosi sulla situazione attuale non sfugge a questa presa d’atto – bisogna praticare un ragionevole ottimismo verso la possibilità di arrivare a una forma di conciliazione tra cultura e comunicazione. Proprio osservando i limiti culturali del presente, sono convinto che il centro di attenzione dei media non potrà essere solo quello dell’ignoranza e del populismo. Alla lunga l’ignoranza uccide anche la comunicazione, se non altro perché è soddisfatta di sé e dunque non ha bisogno di stimoli. La comunicazione di grado zero è per definizione più virale. Non può essere solo conservatrice. Se non innova non è comunicazione, ma una mera tautologia della vita.
Si può approfondire meglio questo aspetto ricorrendo a un esempio: dalla poesia scaturiscono sorpresa, eccitazione, riconoscimento. Dal reality scaturiscono rassicurazione, slittamento verso la banalità e nessuna innovazione. Qui è pertinente la forza di una citazione di Eliot: “Gli uomini non possono vivere di sola realtà”. Vallo a spiegare ai signori del reality. Essendo sempre destinata a essere un passo avanti rispetto alla vita, la comunicazione dovrà capire sempre meglio che il suo baricentro non è frequentare la mediana “bassa” dei comportamenti culturali; non è neppure la pedagogia sociale, ma una lettura più attenta dei bisogni di superamento dell’individualismo, insiti nell’atto comunicativo.
Fino a oggi, è fortemente plausibile l’ipotesi che comunicazione e individualismo siano stati profondamente alleati. Ma lo scenario dovrà cambiare domani, perché le figurazioni dell’individualismo sono già problematizzate nel rapporto tra il soggetto e Internet. Un indizio potente di questo bisogno di trasformazione è rintracciabile proprio sulla Rete, dove le forme di socialità sono quelle che più catalizzano le nuove accelerazioni. Si va verso forme di gestione della Rete che enfatizzano di più l’aspetto dell’inter rispetto a quello della solitudine del soggetto, isolato davanti agli schermi.
Comunicazione e cultura
Queste prospettive tendono a logorare anche alcuni dispositivi cognitivi che avevamo messo in campo per descrivere il panorama dei consumi culturali della modernità, il loro rapporto con le opportunità culturali offerte dai media. Penso, per esempio, alla descrizione dei consumi culturali come una piramide, che è stata spesso adottata per modellizzare le disuguaglianze nell’accesso ai comportamenti culturali. è vero che c’è ancora un cluster di consumatori in difficoltà nel restare in linea con la modernità, di cui nessuno si occupa, ma non è più così facile raffigurare questa condizione con la metafora espressiva della piramide. Certamente non è finita la concezione piramidale della cultura e questa è una prova che cultura e media non si sono davvero rafforzati reciprocamente. Penso, a questo proposito, alla televisione: vera e propria killer application in grado di rendere obsoleta la cultura, fornendo ai soggetti la sensazione di sapere, senza passare attraverso la fatica dell’impegno.
Si è accettato troppo facilmente che estendere la comunicazione significasse favorire la cultura. Oggi sono disponibili prove che sembrano sostenere (anche) il contrario. Alcune forme di ignoranza diffuse nella società sono profondamente innervate e supportate da una dorsale espressiva di arroganza che si fonda su costrutti semplificati appresi e “rimasticati” dai media. Ci sono isole della comunicazione – e i suoi vertici sono in questi caso talk show e reality, o meglio surreality – che non solo non allargano minimamente il sapere, ma conferiscono al soggetto l’arroganza di respingere qualunque sforzo di acculturazione.
Se questa ipotesi è plausibile si tratta di una novità storica. Un esempio che entrerà nei manuali di comunicazione è dato dal racconto dell’omicidio di Sarah Scazzi e dal tessuto sottoculturale che ha messo in luce. Anche da questa terribile prova, si potrebbe imparare: in passato la deprivazione culturale si ritraeva dalla scena, adesso la cerca. Usa spietatamente persino il dolore per avere cinque minuti di notorietà. La specificità di sviluppo della comunicazione fotografata a suo tempo in Mediaevo italiano (Carocci, Roma, 2005) mostra oggi la coda lunga di fenomeni che hanno largamente tradito le promesse di miglioramento del benessere culturale dei pubblici.
Il problema dell’abilitazione sociale
Il termine forse più pertinente da chiamare in causa è quello di “abilitazione sociale”, senza nasconderci che si tratta di un processo semantico che oscilla tra qualche evidenza empirica e un vago orientamento al dover essere. Stiamo parlando del futuro, forse prossimo, perché se lo sguardo si fa catturare dal presente, è difficile affermare che la comunicazione abbia spostato le persone verso l’area della competenza. Altrettanto problematico è dire che abbia favorito i processi più facilmente associabili alla competenza: partecipazione, conoscenza del mondo, redistribuzione e innovazione nei saperi. Per anni sono stato tra quelli che più convintamente hanno lavorato sul concetto di comunicazione come socializzazione dei moderni, ma si è trattato essenzialmente di una socializzazione figurativa. Dichiaro, in proposito, una evidente autocritica.
è vero che per i giovani sembra manifestarsi anche un incremento delle capacità critiche, altrimenti non ci spiegheremmo come mai siano comparativamente più interessanti proprio là dove gli adulti sono più deboli. Non meno interessante è notare che l’insieme del capitale comunicativo dei giovani costituisce già una dichiarazione di esaurimento della forza propulsiva del mainstream. Ma, se osserviamo l’intera società, non si è rivelata fondata la speranza che la comunicazione allarghi l’esperienza sociale e la capacità di lettura del mondo. è meglio riaprire il dibattito – come appunto stiamo facendo presso il Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale della Sapienza – perché un’interpretazione troppo euforica del mondo dei media si è rivelata unilaterale e troppo banalizzante.
Un fenomeno simile ha riguardato la iperventilazione del termine “innovazione”, che ha rischiato di trasformarlo in pura retorica, come molte delle parole investite da una fortissima moda. Se proviamo però a intendere con “innovazione” un cambiamento del comportamento culturale del soggetto, che lo porta a essere più capace di gestire il proprio destino, allora il termine diventa più forte e convincente, fino a tradursi in una variante del capitale sociale, un altro modo per recensire la competenza all’azione e non solo a quella riproduzione di parole, che ha fatto la fortuna della comunicazione oggi dominante.
Gli studi attualmente disponibili sulla comunicazione ci dicono che, sia pure con qualche timidezza, sono riusciti ad avviare una riflessione sugli “effetti profondi” dei media. Ma qui si apre una bella vertenza per i comunicatori, chiamati a interrogarsi sul modo in cui le tecnologie interferiscono con la coscienza individuale e collettiva, mettendo in discussione persino il modo in cui si elaborano i valori che orientano l’azione.
è arrivato il momento di uno scatto di analisi sul potere dei media, che prenda le mosse dalla sostanziale inadeguatezza della risposta dei ricercatori alla forza performativa della comunicazione: il limite più severo dei media studies consiste forse proprio nella mancata presa d’atto di una strutturale gracilità delle nostre elaborazioni teoriche rispetto allo strapotere dei media e delle tecnologie. C’è un problema di trasferimento dei risultati della ricerca nei diversi contesti della vita pubblica, al quale fa riscontro l’assoluta insensibilità dei professionisti della comunicazione e delle imprese ai linguaggi e ai richiami della ricerca stessa. Bisogna dirlo con forza e con chiarezza, per non essere complici della cattiva comunicazione che ha impoverito l’anima di questo paese.