di Mario Morcellini
Nella società della conoscenza, si assiste a un generale ampliamento delle aspettative sociali nei confronti dell’università, istituzione chiamata più che in passato a trainare lo sviluppo locale e la competitività di individui, imprese, interi sistemi-paese. In questo scenario, il terreno della Formazione a Distanza (FaD) si prospetta certamente come uno tra i più promettenti e strategici: esso si offre come un progetto formativo moderno, volto a ricorrere alla tecnologia come a un contesto alternativo e complementare a un tempo, in cui la coltivazione del saper fare e il piacere dell’apprendimento rappresentino il perno di una nuova e originale valorizzazione dei contenuti e dei processi formativi.
Non a caso, le università italiane stanno decisamente investendo sulla sperimentazione e sull’applicazione di percorsi di formazione a distanza già da diversi anni, e l’introduzione della Riforma didattica ha accelerato tale processo anche e soprattutto in termini di legittimazione. Si tratta di una strategia innovativa, già utilizzata con successo in numerose realtà europee e internazionali, così come nel settore della formazione aziendale. Tuttavia, è evidente che un processo di pura trasposizione delle esperienze precedenti o internazionali alla formazione universitaria di casa nostra presenta alcuni elementi di criticità, sui quali può essere utile riflettere.Non si deve rinunciare alla formazione tradizionale, ma ricorrere alla FaD quando opportuno.
Il tema della formazione a distanza è ormai diventato una questione chiave nell’ambito della riflessione pubblica sul futuro dell’università italiana. Esso, infatti, può efficacemente riassumere le attuali problematiche del sistema (diminuzione delle risorse, riformismo accelerato, incerta apertura al mercato), ambientandole però entro una dimensione attiva e propositiva. In questo senso, le nuove tecnologie per la didattica a distanza diventano anzitutto una risposta concreta alle attuali carenze e debolezze dell’università: una presa d’atto – non reazionaria, ma impegnata – dell’importanza delle nuove tecnologie e dei nuovi linguaggi ben oltre la retorica dell’e-learning.
è evidente quanto il dibattito sulla formazione a distanza rischi di essere seriamente compromesso da un fondamentale fraintendimento del significato delle nuove tecnologie a supporto della didattica, a fronte di analisi e politiche che – come spesso accade – tendono a decontestualizzare il ruolo della tecnologia e a enfatizzarne anzitutto le dimensioni di innovazione e discontinuità rispetto al passato. In questo senso, da parte degli stessi promotori e operatori della FaD, l’empatia con le nuove tecnologie sembra spesso tanto assolutistica da disperdere i presupposti di un’adeguata consapevolezza degli aspetti di criticità e, comunque, da eclissare – non senza mistificazioni – il punto di vista della formazione. Il pericolo è allora quello di interpretazioni che, centrate con troppo narcisismo e autocompiacimento sulla forma dei processi educativi a scapito della loro sostanza, sottovalutino clamorosamente il significato di rischi quali la «fine» (o, comunque, la grave amputazione) dell’ambiente formativo diretto; la modificazione del ruolo, dell’ascendente e della tradizionale «gestualità della figura del docente.
La portata dei cambiamenti in atto segna un’evidente discontinuità rispetto alla tradizione formativa del passato, in cui l’educazione etica e cognitiva degli individui costituivano un tutt’uno, perché saldate insieme in un progetto esistenziale unitario: attraverso la coltivazione dei saperi veniva a passare, infatti, la stessa possibilità di un’educazione civica e «spirituale» della persona. Nelle società contemporanee, invece, al monolitismo proprio di un simile assetto dei processi formativi si è venuto a sostituire, via via, un sistema multipolare dell’educazione, in cui è diventato più difficile separare il ruolo formativo ed emancipante della socializzazione orizzontale (del gruppo dei pari e dei media) da quello delle agenzie formative.
Da questo punto di vista, l’università italiana sta certamente attraversando una fase di passaggio: essa non detiene più il monopolio dei saperi (sempre più frequentemente reperiti dai soggetti nella società e nelle pratiche del vivere quotidiano, come in una sorta di «mercato nero» della formazione), e il patto formativo con suoi utenti pare di conseguenza sempre più debole e contingente. Si afferma un’acuta percezione di disintermediazione dei contenuti e dei modelli formativi rispetto al passato: il risultato è che oggi la dimensione etica – il trasferimento di «pacchetti di valori» da una generazione all’altra – non è più garantita automaticamente dalle routines della formazione, e rischia di esserlo ancor meno nel caso in cui anche un uso fine a se stesso delle tecnologie finisca per «sterilizzare» il campo d’azione della didattica.
In questo contesto, l’università è chiamata non solo a farsi garante delle punte più avanzate dei saperi professionalizzanti, ma anche a legittimarsi come il luogo sociale e il contenitore elettivo in cui si ripristina la centralità pubblica dei saperi critici, intesi non in termini di antagonismo e di mera contrapposizione ideologica rispetto al mercato, ma come capacità di interiorizzare la conoscenza e trasferire in un’esperienza di vita il saper fare che ne deriva. Le diverse strategie adottabili a proposito della formazione a distanza rappresentano un esempio molto eloquente delle strade che, in questo momento, le università italiane possono intraprendere: una sembra portare alla sottomissione a interessi di mercato immediatamente deperibili; l’altra mira a rinegoziare il patto formativo, coinvolgendo in modo più deciso gli utenti e ripristinando per l’università un ruolo non remissivo, ma proattivo e di rinnovata centralità culturale. Se fine a se stesso, infatti, l’estremo compimento del processo di funzionalizzazione dell’alta formazione rischia di accompagnarsi inevitabilmente alla perdita di un ruolo etico e di crescita culturale: in questo scenario, l’università potrebbe orientarsi verso la trasmissione esclusiva di saperi direttamente spendibili in ambito professionale, di competenze a breve termine e per ciò stesso «a scadenza»; quest’ultimo orientamento significherebbe, tuttavia, scegliere di rinunciare a qualsiasi ruolo nella formazione dello spirito critico e nell’accompagnare la crescita tout court degli individui, per limitarsi a replicare un modello sostanzialmente povero di trasmissione della conoscenza.
L’alternativa più auspicabile è che l’università garantisca adeguatamente l’accesso allargato alla risorsa-formazione, intesa come processo ad ampio raggio di educazione della persona, volto a coltivare le capacità e le propensioni individuali. Diventa chiaro, dunque, che anche la valorizzazione della tecnologia nella didattica deve necessariamente passare attraverso una più consapevole progettualità delle azioni e delle interazioni formative: un’autentica «reingegnerizzazione dei modelli di scambio del sapere», in cui si sappia conferire il giusto spessore culturale al discorso sulle potenzialità della tecnologia effettivamente messe in atto e certificabili. Al contrario, un’adozione acritica e incondizionata di un modello di formazione a distanza che ponga eccessiva enfasi sugli aspetti tecnologici e sulla valenza strumentale della formazione, trascurando riflessioni di più ampio respiro, rischia di schiacciare il futuro dell’università sul primo degli scenari descritti.
Riteniamo allora che, più che di FaD, sia opportuno parlare di FaaD, cioè di formazione anche a distanza: un processo nel quale l’istituzione formativa non rinunci alle modalità tradizionali di intervento formativo, ma si sforzi di ricorrere alla FaD nelle modalità di volta in volta più idonee. L’importanza della svolta terminologica si lega alla volontà di riportare in primo piano la formazione e i suoi contenuti, ridimensionando il nuovismo imperversante e riconoscendo la qualità pluralistica che le nuove tecnologie sono potenzialmente in grado di introdurre sulla scena dell’alta formazione. In questo senso, il concetto di FaaD si rivela più forte di quello di blended e-learning, diffuso nelle analisi e nelle applicazioni della FaD: infatti, la FaaD incorpora in sé la riflessione sui metodi combinati come necessità strutturale di un approccio formativo consapevole.
L’integrazione tra FaD e interazione d’aula non rappresenta, allora, semplicemente un modello ulteriore, ma si impone come l’elemento fondante per un consapevole utilizzo dell’e-learning anche nell’università: diviene, in altre parole, la condizione necessaria e il naturale punto di approdo di un ripensamento della FaD che sposti l’enfasi dalle tecnologie ai processi di crescita culturale, cognitiva ed etica dell’individuo. In caso contrario, la formazione a distanza rischia di non rappresentare un reale elemento di accesso al bancone dell’offerta universitaria: in assenza di un’intelligente integrazione tra FaD e didattica frontale, il pericolo è che la formazione a distanza si imponga addirittura come la condizione di una nuova marginalizzazione per quanti non potranno permettersi di frequentare l’università «in presenza», e quest’ultima potrebbe divenire il luogo riservato a una nuova élite.
L’auspicio è che la FaD venga progressivamente inserita e declinata in percorsi di studi caratterizzati da un’impronta formativa forte, verso cui le stesse politiche di orientamento possano rappresentare un prezioso elemento di raccordo, un tessuto connettivo capace di rendere coerente e completo il legame tra formazione e apprendimento, tra i «gestori» dei saperi e i loro utenti. L’orientamento rappresenta infatti una delle principali leve per fare sì che la FaD possa inserirsi in un percorso coerente di rinnovamento della didattica e delle sue risorse, oltre che un importantissimo nodo strategico affinché gli iter formativi individuali e il moderno sistema-formazione raggiungano pienamente i propri obiettivi di fronte alla crescente complessità del mercato del lavoro, alla moltiplicazione e frammentazione dei cicli formativi, ai radicali cambiamenti introdotti dalle recente Riforma didattica.
All’interno dell’università, l’orientamento si dimostra, giorno dopo giorno, strumento di partecipazione, formazione di comunità, messa in rete del sapere: una risorsa capace di dileguare la passività e l’inerzia, adeguando senza «traumi» il sistema a una gestione moderna e più paritaria dei processi formativi. L’apertura all’orientamento rappresenta, in questo senso, una scelta strategica capace di mobilitare energie e rivitalizzare le risorse a disposizione, sfaldando le vecchie stratificazioni di status e riducendo il peso del capitale culturale di partenza nel destino individuale di ciascun discente. Più in generale, la «generosità dell’orientamento riporta al centro della scena le persone, che punta a valorizzare come risorse in grado di generare produttività e di alimentare la catena del valore all’interno dell’istituzione.
Questi e altri segnali avvalorano l’impressione che l’università italiana sia oggi di fronte a un cambiamento irreversibile – quasi un punto di rottura -, da cui essa è incalzata e uscirà probabilmente rivoluzionata. In questo senso, la modernizzazione dell’università sembra passare più che mai attraverso la capacità di farsi garante di uno sviluppo sostenibile della nuova economia della conoscenza: ne discende, anzitutto, l’immagine metaforica e illustrativa di una nuova architettura a «rete», ben emblematizzata dallo straordinario valore che soprattutto le nuove tecnologie dimostrano di poter aggiungere alle moderne dinamiche di produzione, accumulazione e trasmissione del sapere.