Fare natura non fa paura

Ci si preoccupa per le applicazioni delle biotecnologie, ma anche il concetto di natura muta nel tempo e non deve costituire un ostacolo al progresso della conoscenza.

di Vittorino Andreoli, Roberto Defez, Silvio Garattini e Giuseppe Remuzzi 

NE DISCUTONO

VITTORINO ANDREOLI Psichiatra e scrittore

ROBERTO DEFEZ Direttore dell’Istituto di Genetica e Biofisica «Adriano Buzzati Traverso» di Napoli

SILVIO GARATTINI Direttore dell’Istituto Mario Negri di Milano

GIUSEPPE REMUZZI Coordinatore delle Ricerche del Laboratorio Mario Negri di Bergamo

VITTORINO ANDREOLI

Credo che sia necessario cercare di capire perché una parte del nostro paese esprima opinioni che personalmente rispetto, ma che costituiscono un elemento di ostacolo alla ricerca. 

In altre parole, mi domando perché nell’opinione pubblica italiana si parli con sospetto e paura del tema delle biotecnologie. Ritengo che la difficoltà maggiore derivi dal pensare che l’uomo attraverso questi strumenti, quelli delle biotecnologie appunto, riesca a intervenire nei processi di natura, alterandoli. Si teme che gli scienziati possano determinare cambiamenti, che non sono compatibili con la natura. 

A questo proposito vorrei sottolineare come si è modificato, nel tempo, il concetto di natura. Il primo riferimento fondamentale riguarda il mondo antico. Nella Grecia classica si riteneva che la natura fosse qualche cosa di dato, un’entità in sé conclusa, e pertanto veniva intesa come un grande oggetto che aveva delle proprie caratteristiche immutabili, fisse e che, come tali, andavano rispettate. Devo dire che questa idea di un mondo concluso, di un cosmo immobile, simile a una statua, risponde a una concezione che è venuta radicalmente mutando nel corso del tempo, attraverso cambiamenti del pensiero che ritroviamo in vari filosofi e autori antichi. Tra i più importanti voglio citare Alessandro Koyré, uno storico delle scienze, che ha mostrato come non sia più possibile utilizzare l’idea classica della natura, dal momento che l’universo è stato concepito come infinito e, come tale, non può essere immobile.

Esiste un’ampia discussione anche tra gli astrofisici sulla questione se l’universo sia da considerarsi infinito, nel senso che noi diamo comunemente a questo termine o, invece, illimitato, ossia difficilmente misurabile ma non infinito. Sebbene ci sia il rischio di perdersi nelle sfumature delle parole, certamente da quando abbiamo pensato che l’universo sia infinitamente grande e abbiamo scoperto, d’altra parte, che il piccolo è infinitamente piccolo, arrivando a dire che un atomo è enorme, sempre giocando sulle proporzioni, da quel momento, sostiene Koyré, non possiamo più parlare di un cosmo concluso. è chiaro, insomma, che l’idea di natura come elemento immobile perde senso.

A questa prima importante considerazione si giunge attraverso lo sviluppo della fisica, sia di quella astronomica sia di quella delle particelle. Ricordo sempre come un nostro grande fisico, Carlo Rubbia, un giorno mi spiegò che cos’è il vuoto. Confesso che non sono sicuro di aver capito, ma lui insistette a dirmi più o meno così: «Di solito il vuoto lo si associa al nulla, ma è scorretto: dentro a ciò che si chiama comunemente vuoto avvengono dei fenomeni a una tale rapidità e con dimensioni talmente infinitesime che non si riesce a vederle, eppure è affollato, esattamente un pieno di infinitamente piccolo e di grande accelerazione». 

A queste voci vorrei avvicinare quella di un altro personaggio della storia delle scienze, a cavallo tra il 1800 e il 1900, Cournot, che ha aggiunto un altro tassello per poter meglio comprendere il concetto di natura. 

Cournot ha riconosciuto che la natura ha una storia, una storia che non è solo quella tracciata da Charles Darwin, che aveva dimostrato che gli organismi si modificano nel tempo, secondo leggi date. Cournot sostenne, invece, che la natura si modifica e anzi procede modificandosi, nel senso che un momento prima non era quella che è adesso. Pertanto, certamente, non è quella che poteva essere milioni di anni fa. 

Esiste, dunque, una natura che ha una storia dentro di sé, una serie di movimenti che sono quelli dell’evoluzione, ma anche delle rivoluzioni, in altre parole una storia irreversibile. L’irreversibilità è, appunto, il segnale che quella che consideriamo natura in questo momento non è la natura che esisteva prima.

Rispetto alla concezione greca del cosmo fissato, queste scoperte ne stabiliscono l’infinità, da un lato, e, dall’altro, portano nella natura l’aspetto dinamico della storia. 

L’ultimo autore che intendo citare è Edmund Husserl, un filosofo molto vicino a noi per mentalità, attento a tutto quanto appartiene agli eventi, anche scientifici. 

Husserl sostenne che la natura è un’entità di cui abbiamo «esperienza», avendone coscienza. In altro parole, l’uomo, avendo coscienza della natura, ne dà una dimensione, un significato, uno status.

Amo particolarmente Husserl, perché mostra l’uomo, il singolo, non come individuo separato, ma come parte della natura, di quella natura che percepisce e alla quale in qualche modo attribuisce esistenza, proprio in quanto ne ha conoscenza.

Husserl era un fenomenologo e come tale spinse sino all’esagerazione questo ragionamento, al punto da affermare che la natura esiste in quanto l’individuo la fa esistere, attraverso la sua coscienza. 

La consapevolezza, secondo i fenomenologi, è ciò che permette l’esistenza stessa della natura, come entità prima di tutto dentro la coscienza dell’uomo. Senza tale elemento la natura non esiste. 

Questo è un ulteriore passo avanti per poter dire che la natura esiste in quanto l’uomo esiste ed egli non è soltanto uno spettatore che si pone di fronte all’oggetto natura, con la paura di poterlo scalfire, ma ne è invece parte così attiva, nel riconoscimento, che in qualche modo è la sua stessa coscienza a permettere che la natura assuma una percezione vivente. Ecco allora che la coscienza, l’individuo, diviene parte fondamentale della natura, fino a determinarne l’esistenza.

Quest’idea mi piace perché, in fondo, dice a tutti quelli che hanno paura che le biotecnologie alterino la realtà delle cose, di stare attenti a non idolatrare la natura.

Insomma, il rispetto della natura non deve confondersi con una sorta di idolatria della natura, pensata come oggetto immutabile, secondo un paganesimo che non tiene conto delle nostre conoscenze.

Quando usiamo le espressioni «contro natura» o «secondo natura», in realtà non teniamo conto di queste considerazioni appena esposte, che appartengono alla filosofia speculativa, alla filosofia teoretica, ossia che la natura è illimitata, che essa ha una storia e che esiste in quanto noi ne abbiamo esperienza e coscienza. 

Pertanto non dovremmo porci in alternativa a essa, come un oggetto a noi esterno che possiamo danneggiare. Noi siamo all’interno della natura e pertanto la sua modificabilità è a essa connaturata, trattandosi di una realtà assolutamente in divenire. Ritengo che questo sia straordinariamente bello e dovrebbe renderci meno timorosi di fronte aciò che accade nei laboratori.

ROBERTO DEFEZ

Per quanto riguarda gli organismi geneticamente modificati, ritengo che poi così modificati non sono e che in realtà fanno parte integrante della nostra cultura. 

Roberto Defez Innanzitutto, nessuno è uguale a ieri, io stesso non sono uguale al me stesso di ieri, tra ieri e oggi ho subito 50 mila mutazioni all’incirca, sono cambiato in 50 mila punti del mio patrimonio genetico. Alla luce di questo dato l’idea stessa di organismo geneticamente modificato non ci dovrebbe sconvolgere tanto perché appartiene all’abitudine quotidiana con cui ognuno di noi si confronta, ogni singola mattina. Ma forse è più importante incominciare la storia di come l’uomo ha interagito con la natura nel tempo, di come l’uomo sia entrato in essa: la considerazione chiave per capire questa storia sta in un’innovazione straordinaria introdotta poco più di 10 mila anni fa con l’avvento dell’agricoltura. 

Se osserviamo le statistiche della crescita della popolazione umana, per esempio quella degli aborigeni australiani, sappiamo che il loro numero è rimasto costante, 300 mila, sempre, finché non sono arrivati gli inglesi. Prima, il territorio dell’Australia non poteva accogliere più di 300 mila individui, in quanto non erano coltivatori, ma cacciatori e raccoglitori e le risorse bastavano alla sopravvivenza di quel numero. Sull’intero globo c’erano 5 milioni di persone prima dell’avvento dell’agricoltura, pochi anni dopo erano 50 milioni. 

La scelta di coltivare, che è una incisiva modalità di interferire negli equilibri naturali, è stata vincente per la specie umana, una scelta che ha consentito da un lato di riprodursi in maniera molto più sicura per l’uomo e, dall’altro, di decidere di che cosa nutrirsi, modificando il territorio, creando campi, coltivando e selezionando di anno in anno il seme migliore, il più produttivo o il più resistente alle varie condizioni climatiche, da trasferire alla generazione successiva. 

Insomma, c’è stato un affinamento costante negli anni, nei secoli, che ha portato l’agricoltura a esser la sorgente principale di cibo per l’uomo, non più la caccia, non più la raccolta. Eppure, solo nel 1800, si è raggiunto il primo miliardo di persone sulla Terra. Poi la popolazione si è accresciuta, prima 2 miliardi di individui, quindi 3 nel 1960 e, da quella data a oggi, più meno ogni dodici anni si è aggiunto un nuovo miliardo di persone a cui dare da mangiare. Le previsioni non cambiano per i prossimi cinquant’anni anni, forse con un leggero declino, ma, comunque, ci dobbiamo aspettare circa 10 miliardi di persone sulla faccia della Terra entro il 2050.

Le innovazioni tecnologiche debbono precedere di molto eventi di questo genere. Attualmente la situazione è la seguente: la produzione di cibo nel mondo aumenta all’incirca dell’1,3 per cento all’anno, l’aumento della popolazione procede al 2,2 per cento all’anno. Questi sono i numeri bruti, non voglio entrare nel merito della distribuzione del cibo e di tantissimi altri aspetti che competono a questioni politiche, economiche e commerciali. Ma il cibo può essere distribuito se c’è, se manca non c’è nulla da distribuire. Quindi l’unico punto di cui noi, come scienziati, ci possiamo occupare è di creare cibo e di renderlo disponibile, mentre il compito di altri ben più in alto di noi è di distribuirlo in maniera equa. Forse è questo il nodo sostanziale della questione: cominciare ad affrontare concretamente il fatto che 10 miliardi di persone, se li vogliamo tenere in vita, dovranno utilizzare una superficie di area coltivabile probabilmente inferiore a quella odierna, certamente meno acqua di quella di cui disponiamo oggi e assolutamente meno fitofarmaci e meno fertilizzanti, per poter far crescere tutto quello che occorre per poter mangiare.La scelta di coltivare, 

che è una incisiva modalità di interferire negli equilibri naturali, ha consentito all’uomo di decidere di cosa nutrirsi, selezionando il seme migliore, il più produttivo e resistente da trasferire alla generazione successiva. 

Queste sono le vere sfide che ci stanno davanti al di là di speranze, desideri, ambizioni personali: penso che ognuno di noi coltivi la speranza di poter tornare alle cose più immacolate e naturali possibili nel privato, ma sui grandi numeri tutte queste considerazioni non valgono. Per fortuna ci sono atteggiamenti di ricerca che, in questi anni, hanno consentito un aumento straordinario della produzione agricola mondiale, ci sono intere aree del globo che non soffrono praticamente più la fame, perché negli anni Sessanta e Settanta è avvenuta quella che è stata chiamata la rivoluzione verde, ossia l’impianto di sementi selezionate e incrociate in maniera molto particolare, unite all’apporto di fitofarmaci e fertilizzanti che ha consentito un grande salto in avanti della produzione agricola.

Ma la produzione agricola ha tuttavia raggiunto un limite: i miglioramenti ottenibili in maniera più o meno approssimativa, attraverso incroci di varietà vegetali, si sono esauriti. Questo è quello che viene detto dagli addetti ai lavori, dal padre stesso della rivoluzione verde, Norman Borlaug, premio Nobel nel 1970 per la pace. Insomma non c’è altra via di uscita se non quella di scegliere cosa aumentare come produzione agricola, ovvero di individuare obiettivi singoli e non incrociare per decenni e decenni tipi di piante differenti che portino a un aumento di produzione. Questo è esattamente quanto avviene nella produzione di organismi geneticamente modificati per l’agricoltura. Quando se ne parla in Italia, l’impressione generale è che stia arrivando una tempesta o minacci di arrivare una strage, una epidemia. 

Vorrei anche qui cominciare con il dare qualche numero. Spero che tutti temano abbastanza le farine animali come sistema di nutrimento per gli allevamenti zootecnici e che sia chiaro a tutti che forse è meglio dare da mangiare un vegetale a un vegetariano come la mucca piuttosto che altri animali. Allora la domanda è: quali sono le sorgenti di proteine alternative alle farine animali? La prima sorgente di proteina per l’allevamento zootecnico è la soia: l’Europa produce 1,8 milioni di tonnellate di soia, ma ne consuma 28 milioni. Quindi l’Europa produce il 5 per cento del suo fabbisogno, ma ne importa un altro 95 per cento. 

Da ormai sei anni ben più del 50 per cento di questa soia che viene importata è geneticamente modificato. Non stiamo parlando di un evento a venire, ma di una realtà che permette di produrre nutrimento per mucche, maiali e pecore che hanno in questo modo una sorgente diversa di alimentazione, una sorgente di gran lunga più sicura delle farine animali. Un discorso analogo vale per il mais, che, con percentuali leggermente inferiori, anch’esso viene importato in Europa sistematicamente. 

Quando si ascolta il dibattito in Italia, si omettono alcuni importanti dettagli, per esempio che i grandi paesi che forniscono cibi geneticamente modificati sono anche i principali produttori di agricoltura biologica. Non c’è assolutamente alcuna contraddizione in questo: il primo paese al mondo che fa agricoltura biologica è l’Australia, il secondo è l’Argentina. Il 90 per cento della soia argentina è geneticamente modificata. Le due cose non sono in contrasto; non è vero che scegliere una direzione significa penalizzare l’altra: negli Stati Uniti, che sono il simbolo forse dei prodotti geneticamente modificati, esiste anche il mercato straordinariamente più rilevante in termini economici per l’agricoltura biologica. Le due cose sono illusoriamente messe in contrasto tra di loro, ma non hanno nessun punto di contrasto, anzi esistono decine di progetti di biotecnologia per salvare varietà che sono scomparse dalle nostre tavole, perché attaccate da virosi, da funghi, da vermi, da malattie. 

In questo scenario, vorrei aggiungere un dettaglio quasi personale della vicenda: nel mondo si coltiva una quantità straordinaria di ettari a piante geneticamente modificate, esattamente 52 milioni di ettari: una superficie assolutamente spaventosa che invade tutti i continenti. Tanto per dare un ultimo dato, è la Cina l’ultimo paese che più di ogni altro ha aumentato le coltivazioni biotecnologiche nel 2001, triplicando gli ettari dell’anno precedente, e l’ingresso sullo stesso mercato dell’India, l’altro paese tra i più popolosi al mondo, farà fare un ulteriore balzo in avanti a questo tipo di statistica nel 2002. Una metà di tutti questi ettari coltivati nel mondo sono coltivati a un certo tipo di soia, e forse i più specialisti la conoscono come la soia RoundupReady, un brevetto privato della famigerata ditta americana Monsanto. Ebbene quel brevetto è scaduto, il che significa, dal nostro punto di vista, che chiunque può utilizzarlo. è come se lo stemma della Ferrari fosse disponibile a chiunque, il quale potrà fare la propria Ferrari casalinga, ossia appiccicando al proprio assemblaggio questo nome. La domanda è: ma la sapete fare una Ferrari? 

In Italia, vista la politica che si è condotta in questi anni, la Ferrari non la sappiamo fare. Il che, fuori dalla metafora, significa che un prodotto biotecnologico che copre 26 milioni di ettari in giro per il mondo, cioè un prodotto di una ricchezza assolutamente straordinaria, è adesso libero, ma non si è seguito da noi un percorso preciso per poter costruire una macchina così straordinaria che ha conquistato i mercati per la bontà e per l’efficienza del prodotto: noi oggi non siamo in grado di offrire una alternativa commerciale a un prodotto non più tutelato da brevetto. 

Solo un dato per quantificare la situazione delle coltivazioni biotecnologiche nel mondo: nel 2000 erano 3 milioni e mezzo gli agricoltori in giro per il mondo che coltivavano piante ingegnerizzate, nel 2001 sono diventati 5 milioni e mezzo. Questo significa che non sono i latifondisti a sceglierle, ma i piccoli coltivatori, quelle centinaia di migliaia di coltivatori, per esempio, dei campi di cotone nel Sudafrica di Mandela, nell’Indonesia musulmana, nella Cuba di Fidel Castro, nella Cina popolare e nell’India di tutte le religioni. Sono i piccoli coltivatori che hanno scelto di smetterla di morire per aver sparso pesticidi. Mille all’anno ne muoiono in Cina, mille coltivatori che muoiono solo per aver sbagliato l’irrorazione con pesticidi e in alcuni casi stiamo parlando di tre spargimenti alla settimana di uno dei peggiori veleni. Le statistiche dicono che con la produzione, per esempio, di cotone ingegnerizzato la quantità di pesticidi utilizzati diminuisce di oltre il 70 per cento. Ci sono entomologi in brodo di giuggiole perché nei luoghi dove viene coltivato il biotech hanno visto riapparire una fauna sconosciuta, insetti che non vedevano dalla loro infanzia. Sono riapparsi nuovi tipi di piante. è un risveglio della natura perché, invece di spargere un pesticida che ammazza tutto quello che incontra, improvvisamente il pesticida non viene sparso più, la pianta da sola si fa il suo pesticida e il parassita smette di attaccarla. 

Il discorso è estremamente semplice e lineare: funziona ovunque nel mondo e tra le piccole cose che non vengono mai raccontate, tanto per citarne una, è la dichiarazione della direttrice dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, una autorità in materia, secondo la quale gli organismi geneticamente modificati possono essere mangiati dall’uomo senza effetti collaterali. 

Non sto parlando del cotone, a parte che indossiamo tutti vestiti di cotone e gli euro che abbiamo in tasca sono fatti su trama di cotone, il che vuol dire che ognuno di noi ha in tasca una banconota geneticamente modificata mediamente per il 20 per cento, perché oggi arriva al 20 per cento il cotone mondiale geneticamente modificato. A proposito, vi garantisco che tra cinque anni sarà difficile trovare cotone non geneticamente modificato perché con l’ingresso sul mercato di Cina e India praticamente scomparirà il cotone non geneticamente modificato. 

Ma perché la direttrice dell’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dovuto fare questa dichiarazione? Per uno dei paradossi di cui in qualche modo io come europeo mi sento colpevole, ed è il fatto che è in atto una delle più feroci carestie nell’Africa australe, sei paesi stanno soffrendo di una siccità terrificante da due anni, 14 milioni di persone sono a rischio di morte. L’ONU, attraverso il programma alimentare, sta spedendo aiuti in questi paesi e un singolo presidente di questi stati, quello dello Zambia, sta rifiutando gli aiuti umanitari perché gli Stati Uniti, che per metà contribuiscono agli aiuti alimentari, stanno mandando quello che mangiano loro, cioè mais geneticamente modificato nelle stesse quantità del mais non modificato. 

Il presidente dello Zambia, dunque, preferisce mettere a repentaglio la vita di 1 milione e 300 mila concittadini piuttosto che credere alle parole della FAO, dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, delle Nazioni Unite e di decine di altre organizzazioni internazionali, praticamente di tutte le Accademie delle Scienze sparse per il mondo, che hanno confermato che non c’è problema di salute alimentare. 

Però, la cosa più difficile in questo campo è riuscire a comunicare e a sgombrare la mente dalle paure, per mettere sul piatto della bilancia le potenzialità, le difficoltà e i vantaggi.

Credo che siamo ormai arrivati al punto in cui la sfiducia e il dubbio di fronte alle emergenze alimentari dovrebbe cedere il passo a uno strappo di raziocinio, all’analisi dei dati scientifici per cercare di affrontare situazioni concrete e prendere decisioni importanti.

GIUSEPPE REMUZZI

La malattia che incute più paura nell’uomo di oggi è probabilmente il tumore. Tre persone su dieci muoiono di una malattia tumorale, e la gente ha l’idea, in parte anche giustificata, che la ricerca scientifica non sia ancora riuscita a fare qualcosa di veramente importante per sconfiggere questo «flagello». 

Eppure non è così, perché la ricerca in questo campo è molto attiva e ha ottenuto grandi risultati. 

Ricordo la notizia che un gruppo di ricercatori di Torino, guidato dal prof. Forni, ha messo a punto un nuovo metodo di cura che si basa sulla manipolazione del DNA. Se vogliamo, questo metodo potrebbe essere considerato molto innaturale, perché manipola il materiale genetico, ma se si rivelerà efficace, questa terapia si tramuterà in un vantaggio, per molti pazienti. 

Televisione e giornali hanno dato molta enfasi a questa notizia molto importante, ma come spesso succede, ci hanno anche detto che ancora non si sa come e quando questa ricerca sarà applicabile in pratica, lasciandoci di fronte al fatto che quotidianamente di tumore si muore ancora.

Il fatto di interferire con gli equilibri naturali è stata una scelta vincente per l’uomo. 

Come per la coltivazione dei campi, lo stesso si potrebbe dire per la lotta contro malattie mortali come il tumore, che in effetti altera un equilibrio naturale, sia pure indotto da una malattia. 

In questa logica sono stati creati i farmaci, come per esempio la chemioterapia. Qualche anno fa fece enorme scalpore il cosiddetto caso Di Bella.Con la biotecnologia del DNA ricombinantesono state ottenute sostanze a scopo terapeutico, come l’insulina per la cura del diabete, più sicure e meno costose di quelle ottenute per estrazione dagli animali.

Questo professore di Modena affermava che si potevano curare con grande successo i tumori senza ricorre a metodi così innaturali e devastanti come la chemioterapia. Egli sosteneva che si potevano ottenere risultati molto migliori con cure più naturali. Sappiamo tutti come è andata a finire: la cosiddetta cura Di Bella, studiata con i metodi propri della ricerca clinica, si è dimostrata completamente inefficace, se non pericolosa.

Al contrario, proprio la chemioterapia, che è nata – come la stragrande maggioranza dei farmaci – nei laboratori, e che interviene nell’equilibrio naturale, ha dato risultati molto importanti: oggi, grazie alla chemioterapia, il 90 per cento dei bambini che si ammalano di leucemia acuta guarisce e conduce una vita normale, avrà dei figli. Magari tutte queste persone, pazienti e loro discendenti, contribuiranno al successo dei prodotti della agricoltura biologica…

Ma voglio raccontare un’altra storia, che sta a dimostrare come, interferendo con la natura, i medici siano riusciti a dare la vita a delle persone. 

Fino alla a metà degli anni Sessanta chiunque si ammalava di reni moriva, intossicato dalle scorie metaboliche che si accumulano nel sangue quando i reni smettono di funzionare. 

A partire dagli anni Quaranta del XX secolo i ricercatori speravano di trovare il modo di sostituire la funzione del rene. Sulla base delle conoscenze della fisiologia di questo organo pensavano che fosse possibile costruire una macchina in grado di depurare l’organismo da quelle scorie. 

Certo, niente di più innaturale dal punto di vista teorico di tentare di sostituire la funzione di un organo così complesso come il rene con una macchina!Grazie al fatto che i ricercatori sono riusciti a evitare il rigetto con farmaci che hanno forzato il ricevente ad accettare l’organo trapiantato, centinaia di migliaia di persone hanno la possibilità dopo il trapianto di tornare a una vita normale.Eppure la ricerca è proseguita, specie per opera del dottor Kolff che viveva in Olanda. 

Il paese fu invaso dai nazisti nel 1940, mentre Kolff era nel pieno delle sue ricerche, per cui dovette ritirarsi in un piccolo ospedale per continuare gli studi. Alla fine della guerra aveva predisposto il prototipo di un rene artificiale, come fu chiamata la macchina. 

Continuò poi i suoi studi negli Stati Uniti in mezzo allo scetticismo dei nefrologi americani (tra i quali straordinarie persone che hanno contribuito in modo fondamentale alla ricerca sulle malattie renali), che pensavano fosse impossibile sostituire la funzione di un organo con una macchina. 

Essi evidentemente non avevano la lungimiranza di Kolff, che andò avanti nonostante le critiche. A un certo punto il prototipo fu perfezionato, fino a diventare una macchina efficiente. 

Oggi, grazie alla dialisi, cioè grazie a una macchina artificiale, ci sono un milione di dializzati nel mondo, dei quali 45 mila vivono in Italia. Tutte queste persone vivono nei paesi ricchi, nei paesi poveri non esiste la dialisi, perché la sostituzione della funzione del rene con la macchina costa moltissimo. 

Un altro modo piuttosto innaturale di intervenire nella cura delle malattie è trapiantare gli organi di un individuo nel corpo di un altro. 

Nella prima metà del XX secolo, ci sono state alcune persone straordinarie che hanno creduto possibile modificare il corso naturale delle malattie, con un rimedio così estremo come quello di sostituire con una operazione chirurgica un organo malato con uno sano, preso da un donatore vivente, per esempio da un fratello, da un genitore, o da un cadavere. 

Da un certo punto vista, il trapianto si può considerare una forzatura della natura, tanto che ancora oggi qualcuno è molto contrario a questa pratica accampando proprio questo argomento. 

Nel caso del trapianto la forzatura è doppia: non solo perché si prende un organo da un individuo e lo si dà a un altro, ma soprattutto perché chi riceve l’organo riconosce come estraneo a sé quel tessuto, e lo respinge, o meglio, per dirla con il termine corretto, lo rigetta. 

Infatti quando iniziarono i primi tentativi di trapianto sugli animali e anche sull’uomo, l’insuccesso era assicurato: nello spazio di ore dall’operazione, l’organo trapiantato smetteva di funzionare. Ma i ricercatori hanno perseverato. Per esempio, alcuni chirurghi particolarmente illuminati hanno dedicato la loro vita a fare esperimenti sugli animali, pur senza successo. 

Il primo scienziato, determinato a riuscire a ogni costo, per mettere a punto una operazione perfetta ha dovuto sacrificare 600 cani, perché i reni non funzionavano mai. Ma, grazie anche al suo lavoro, oggi le persone che hanno una malattia renale e non vogliono vivere legate alla macchina di dialisi, hanno la possibilità dopo il trapianto di tornare a una vita normale. 

E grazie anche al fatto che i ricercatori sono poi riusciti a evitare il rigetto, grazie all’impiego di farmaci che hanno forzato, ancora una volta, il ricevente ad accettare l’organo estraneo. Grazie alla forzatura fatta sulla natura, centinaia di migliaia di persone hanno ricevuto un organo, e vivono molto bene.  

Oggi abbiamo a disposizione molti farmaci che impediscono il rigetto: essi però devono essere presi per tutta la vita, sono talvolta tossici, e in ogni caso, riducendo le difese immunitarie, espongono al rischio di infezioni e tumori. E comunque un organo trapiantato dura 10-15 anni, un periodo che può essere considerato sufficiente se si riceve un organo a 60-65 anni, non certo se ad aver bisogno del trapianto è un bambino.

Da noi, per esempio, è stato appena operato per una malattia rarissima del fegato un bambino in cura da quando aveva 45 giorni; pesava 2 chili e due etti. Un bambino che adesso è sano grazie a una piccola parte del fegato di un donatore adulto. E questo bambino vivrà probabilmente una vita normale. Almeno per 10-15 anni. E poi?

Dobbiamo cercare alternative, dobbiamo riuscire a far riconoscere all’organismo quegli organi come se fossero propri. Non vogliamo il rigetto degli organi trapiantati né subito dopo l’intervento, né ad anni di distanza. 

In un futuro, non sappiamo quanto lontano, i ricercatori sapranno costruire organi in laboratorio e sfruttare le proprietà delle cellule staminali o delle cellule embrionali, di trasformarsi in altre cellule, proprietà che possono essere sfruttate per costruire organi e tessuti. 

Possiamo immaginare uno scenario futuro in cui grazie a queste metodologie non avremo più bisogno della dialisi, se non per un breve periodo in attesa di effettuare un trapianto che durerà per sempre, e poi addirittura non ci sarà più bisogno del trapianto perché con nuove tecniche si potrànno risanare gli organi malati.

Certo, bisogna continuare a fare ricerca e trovare la soluzione ai molti quesiti che oggi accendono il dibattito sull’impiego delle cellule embrionali, o addirittura della clonazione. 

Comunque, spero di aver documentato con esempi significativi quanto la manipolazione della natura da parte dell’uomo possa essere importante per difenderci dalle malattie.

SILVIO GARATTINI

Non c’è dubbio che la rivoluzione biotecnologica sia arrivata dappertutto, interessando moltissimi campi del vivere. In un certo senso è entrata anche in campo farmacologico. Ma la cosa è avvenuta con una tale rapidità che nessuno se ne è accorto e, non essendosene accorto nessuno, non ci sono state neanche le proteste e le contestazioni sollevate in altri settori. Dobbiamo sapere, invece, che molti dei farmaci che noi utilizziamo sono il frutto di modificazioni di organismi viventi. Ormai, ci sono due grandi aree in cui la biotecnologia è entrata: da un lato la produzione di alcuni – e sempre più – farmaci, dall’altro, ed è futuro, lo sviluppo di nuovi farmaci, che avranno probabilmente poco a che vedere con quelli che ci siamo abituati ad assumere. 

Per quanto riguarda la produzione, molti sanno che fino a un certo periodo si è sviluppata quella che potremmo chiamare la farmacologia estrattiva: avendo bisogno di una proteina, per esempio l’insulina per il diabete, normalmente si prendeva il pancreas di bovini o suini e da lì si estraeva la sostanza per la terapia. Naturalmente per estrarla si sottoponevano quei tessuti a una serie di procedimenti e di verifiche, fino a ottenere il materiale che, poi diluito in liquidi e inserito in una fiala, arrivava al letto dell’ammalato di diabete. Però questo creava qualche problema: innanzitutto era molto complicato sviluppare e migliorare le tecniche per l’estrazione dell’insulina. Così si è pensato di prendere vantaggio dalle conoscenze acquisite: la biologia molecolare ci ha insegnato come si produce di fatto nel nostro organismo l’insulina e precisamente ci ha insegnato che esiste un gene, un pezzo di DNA, la cui funzione è di trasmettere le sue informazioni a un altro polimero, che è il RNA, che a sua volta crea una sorta di matrice su cui si mettono progressivamente tutti gli acidi che formano quella proteina che è l’insulina. Da questo si è proceduto, in modo assolutamente innaturale, per fare produrre a dei batteri che non sono patogeni, oppure a dei lieviti, oppure a delle cellule di mammifero – ci sono varie modalità – l’insulina, inserendo in essi il DNA di questo gene che dà l’ordine di produrre l’insulina. Così, con la messa a punto di apposite tecnologie, si ottengono grandi quantità di insulina che dovranno essere purificate, estratte e confezionate. 

Il grande vantaggio è che siamo noi a dire quale gene inserire e, per esempio, possiamo decidere di inserire il gene umano. In questo modo, avendo un gene umano, abbiamo l’insulina umana, cioè qualcosa che è molto più simile a quello che fisiologicamente abbiamo nel nostro organismo. Si crea, insomma, un circolo un po’ strano: procediamo con una tecnica assolutamente innaturale per avere qualcosa che invece è più vicino a quello che spontaneamente abbiamo nel nostro organismo e che ci fa un po’ confondere sui rapporti tra il naturale e l’artificiale. 

Questo si può fare in modo adeguato anche per altri fattori, perché vi sono alcune proteine che possono essere utilizzate a scopo terapeutico, ma non possono essere estratte dagli animali perché sono così diverse da indurre l’uomo a sviluppare anticorpi per disattivarle. Servendoci di questa tecnologia, che si chiama DNA ricombinante, abbiamo creato una nuova catena di produzione, una nuova tecnologia industriale che ci permette di produrre cose che non possiamo ottenere chimicamente perché sono straordinariamente complicate o, comunque, che sarebbe economicamente svantaggioso procurarsi secondo quel percorso. 

Sono molte ormai le proteine, che utilizziamo in terapia, che vengono prodotte in questo modo: l’eritropoietina, per esempio, è una sostanza preziosissima che ci aiuta a curare certi tipi di anemia, soprattutto nelle situazioni di dialisi. In questo modo abbiamo a disposizione una sostanza che sapevamo che era importante, sapevamo necessaria per l’anemia, ma non ne disponevamo in quantità sufficienti. Analogo discorso vale per quanto riguarda l’ormone della crescita, un’altra sostanza che viene utilizzata, per esempio, nella terapia di certe forme di nanismo. Una volta si otteneva estraendo dalle ipofisi dei cadaveri l’ormone della crescita per poterlo poi somministrare ai bambini. Così come per i fattori della coagulazione che si dovevano estrarre con grande difficoltà, perché sono presenti in piccole quantità. Adesso abbiamo la possibilità, sempre con le tecniche del DNA ricombinante, di ottenere questi fattori per tutti i tipi di emofilia.

Insomma questo modo di produrre, che è una biotecnologia, ha permesso di avere alcuni vantaggi, prima di tutto di evitare infezioni: basti pensare a tutti i casi di emofilici che sono stati contaminati e hanno avuto l’epatite virale o peggio che hanno contratto la malattia dell’AIDS. Ma la stessa cosa è avvenuta quando si estraeva l’ormone della crescita dall’ipofisi, con la possibile trasmissione di malattie neurologiche gravissime. Si tratta, evidentemente, di un grandissimo vantaggio. Certo, non c’è mai niente che sia completamente sicuro, ma abbiamo ridotto il rischio, grazie alla possibilità di produrre meglio e di più e a un prezzo sostanzialmente meno caro di quello dei prodotti estrattivi, considerando il rapporto beneficio-rischio.

Una seconda modalità attraverso la quale le tecniche della biotecnologia stanno entrando nella farmacologia si riferisce al futuro, perché per adesso siamo ancora a livello sperimentale. Mi riferisco alla terapia genica. Vi sono delle malattie che sono dovute al fatto che uno o più geni non svolgono bene la loro funzione e allora, invece di produrre una proteina che è essenziale per la nostra sopravvivenza e per la nostra integrità fisica, ne producono una sbagliata o non la producono affatto. Sono malattie attualmente spesso mortali o fortemente inabilitanti e necessitano la messa a punto di nuovi sistemi: in questo caso, quello che si cerca di fare esattamente è inserire nelle cellule quel gene che manca o che non funziona in modo corretto. Però tutti ci rendiamo conto che è straordinariamente più complicato, perché dobbiamo portare il gene nel posto in cui è necessario e in quantità che non siano né troppo basse né troppo alte. Abbiamo il problema di stare attenti che, a causa di quel gene, non succeda qualcos’altro, qualcosa di peggio di quello che vogliamo cercare di curare. Siamo, quindi, ancora in una situazione molto sperimentale, che è bene si accompagni a grande prudenza. 

Siamo sicuri che otterremo il risultato perché almeno in un caso il problema è stato risolto. Ci sono bambini che hanno un grave deficit genetico per cui le loro difese immunitarie sono terribilmente carenti, tanto che non possono vivere in ambienti normali, dove coesistono molti tipi di germi, dai più banali ai più patogeni, verso i quali generalmente il nostro organismo ha la capacità di difendersi. Questi bambini, invece, non ce l’hanno e sono, quindi, obbligati a stare in un sistema artificiale, una specie di pallone di plastica dove tutto deve arrivare in modo assolutamente sterile dall’esterno, perché qualsiasi cosa che non sia sterile li conduce a infezioni gravissime, anche mortali.

Ebbene, alcuni ricercatori francesi hanno trovato il modo di ripristinare uno di questi geni anomali, e i bambini ammalati, che attualmente sono due, perché per nostra fortuna si tratta di una patologia estremamente rara, oggi possono vivere fuori dai sistemi artificiali, nei quali dovevano stare per via delle infezioni. 

Insomma, c’è la speranza che anche per altre malattie si sviluppi una terapia genica adeguata. Senza troppi trionfalismi o troppe promesse, adesso cominciamo ma non sappiamo quando finiremo. è utile, comunque, che sappiamo che queste vie sono possibili e il percorrerle e avere successo dipende certamente non solo dalle capacità dei ricercatori, ma anche dall’appoggio del pubblico, dipende dal fatto che si capisca che cosa vuol dire fare ricerca e che ogni ricerca comporta certamente anche un minimo di rischi, ma che al tempo stesso è l’unico modo attraverso cui l’uomo possa fare progressi. è l’unico modo che abbiamo imparato fino a oggi per poter andare avanti. Quindi abbiamo bisogno dell’aiuto del pubblico, dei pazienti, soprattutto quando le terapie richiederanno l’introduzione, per esempio, di cellule come le staminali, che dovremo probabilmente modificare per ottenere funzioni specifiche e che dovremo magari iniettare nel cervello perché avremo bisogno di ripristinare delle cellule degenerate. Sorgeranno anche problemi di natura etica, ma li dovremo risolvere perché il nostro compito è quello di curare le malattie e non soltanto qualche malattia, di curarle tutte, anche quelle più difficili e complicate su cui nessuno punterebbe denaro.

è compito della ricerca progredire. L’uomo deve andare avanti e conquistare, in un certo senso, la terra, intendendo per terra tutto quello che ci circonda. Ma, lo ripeto, abbiamo bisogno dell’aiuto e della comprensione di tutti. Soprattutto è necessario non avere atteggiamenti ambigui. Ne ricordo uno, a titolo di esempio: nel campo dei farmaci abbiamo, da un lato, la paura per i vegetali geneticamente modificati, ma, dall’altro, si vendono nelle erboristerie vegetali di tutti i tipi di cui non si sa quasi niente, né a che cosa servono, medicamenti che nessuno ha mai studiato neanche lontanamente in dettaglio e che potrebbero essere contaminati.

Non solo: abbiamo bisogno dell’aiuto di tutti anche per quanto riguarda la comprensione per l’impiego degli animali. Abbiamo già detto quanto siano necessari gli animali nella ricerca, prima di sperimentare sull’uomo. Non ci divertiamo a utilizzare gli animali per la sperimentazione: ne abbiamo bisogno, non ne possiamo fare a meno ed è ridicolo pensare che si possano sostituire con le cellule in vitro, entità che sono di una semplicità estrema rispetto alla complessità di un organismo vivente.

Non possiamo fare test sull’uomo senza prima aver fatto tutto quello che è possibile sugli animali.

VITTORINO ANDREOLI

Vorrei solo brevemente ritornare sull’atteggiamento al quale ho già accennato e che connota le nostre reazioni rispetto al tema delle biotecnologie: ossia la paura. 

Sebbene possa sembrare che non c’entri nulla, vorrei che venisse ricordata come la cornice entro cui si spiegano molti atteggiamenti. 

Bisogna tenere conto che la paura è un meccanismo di difesa, una strategia della nostra mente, della nostra psiche, che permette di percepire i rischi per evitare dei danni. Così, se il bambino non avesse paura del buio, finirebbe per sbattere contro qualche cosa, ferendosi. 

Allora la paura come difesa è utile, per cui non si deve assolutamente definirla un sintomo, la paura può essere l’incipit della prudenza. 

Tuttavia esiste anche una paura che noi curiamo, la malattia da paura. In questo caso la paura non ci aiuta più a risolvere i nostri problemi, ma in qualche modo ci blocca: chi ne soffre rimane immobile. Il meccanismo di difesa diventa in qualche modo un meccanismo di offesa.La paura come difesa è utile perché permette di percepire i rischi ed evitare eventuali danni. Quando, invece, si manifesta come meccanismo di offesa, si traduce in un pericoloso immobilismo.Allora, rispetto alla scienza e, specificamente, a questo tipo di scienza che viene chiamato biotecnologia, credo che ciascuno di noi di fronte al nuovo sia giustificato ad avere paura come meccanismo di difesa, per capire che bisogna analizzare anche i rischi. Insomma c’è un problema di limite ed è giusto avere una grande considerazione per chi si occupa dei problemi etici della ricerca.  

Il mio invito è di tenere conto che la paura, se diventa un meccanismo di offesa, ci blocca sia sul piano individuale sia su quello sociale. Esistono anche le paure che impediscono alle società di avanzare.

Naturalmente io mi intendo forse più di paura che di genetica e mi sembra comunque chiaro che di fronte a questo tema ci troviamo a confrontarci con la paura. Appoggio la paura come meccanismo di difesa, ma in una società che ha troppa paura si impediscono le scoperte e le evoluzioni.  

Il testo è tratto dalla discussione che si è tenuta il 26 ottobre 2002 al Teatro Comunale F. Torti di Bevagna sul tema Biotecnologie: progresso o pericolo.

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