Skip to main content

Inizia la Netval Summer School 2014.

di Matteo Ovi

La prima giornata della Netval Summer School 2014 ha dato il via a quello che il Prof. Piccaluga (Presidente Netval – Scuola Superiore Sant’Anna) ha presentato simpaticamente come “un incontro collaborativo informale su un tema importante e serio”. Dietro il tono rilassato e colloquiale dei partecipanti, però, si è intravista una coesione di pensiero abbastanza forte da promettere effetti più ufficiali sul sistema delle università italiane.

Dopo un breve ringraziamento alle Università di Messina e Catania, oltre che al comune di Aci Castello per il rispettivo contributo nell’organizzazione dell’evento, la parola è passata all’illustre Prof. Bart Van Looy dell’Università di Lovanio, in Belgio, esperto di innovazione, innovazione imprenditoriale e università imprenditoriali.

“Se guardate alle prestazioni innovative di un sistema, non potete ridurre la prestazione a un singolo fattore, anche se alcune società o enti tendono a dire diversamente. Esiste una forte interazione fra parti differenti (persone, istituti, società, governi… ) che con le rispettive mansioni permettono di definire gli ingredienti fondamentali per l’efficacia di un’innovazione”.

Stando a Van Looy, uno degli ingredienti fondamentali per la creazione di innovazioni si troverebbe all’interno delle università e sarebbe composto dal sistema di ricerca universitaria e dai brevetti che ne derivano. Per rappresentare al meglio la sua teoria, il professore ha interrogato i partecipanti sulle ragioni per cui le università italiane registrino un numero così basso di brevetti (in una classifica globale, la prima università italiana per numero di brevetti sarebbe il Politecnico di Milano, al 102° posto). “Perché le università italiane inoltrano così poche richieste di brevetto? L’attività imprenditoriale non è certo un ostacolo alla scienza. Anzi, è la qualità della scienza a determinare la qualità dell’imprenditorialità”.

Sempre secondo Van Looy, i TTO (Technology Transfer Office) sarebbero cruciali per raggiungere la giusta portata di un trasferimento tecnologico, e nonostante le attività imprenditoriali non costituiscano una sostanziale fonte di finanziamenti per le università, la formulazione di un sistema più incentrato sulla valorizzazione della ricerca universitaria potrebbe sicuramente portare a risultati maggiori. “Attenzione, però. Un orientamento imprenditoriale delle università non porta necessariamente a benefici in qualunque settore industriale o nuove sfide nella ricerca. Se un mercato funziona già, le università dovrebbero starne fuori”, avverte il professore.

Sul fronte dell’IP (Intellectual Property), Van Looy ha precisato come i diritti sui brevetti andrebbero conservati all’interno delle facoltà, mentre gli agenti (lo staffa accademico) andrebbero considerati il braccio imprenditoriale dell’università e incentivati di conseguenza.

Van Looy ha quindi passato il microfono al Prof. Stefano Paleari (Presidente CRUI), che ha parlato subito dei cambiamenti che stanno cominciando a intravedersi nello ‘scacchiere internazionale’. Paleari ha denunciato il calo demografico registrato all’interno delle università e dovuto principalmente alla scarsa attrattività delle università italiane a confronto con quelle estere. Il tono e le previsioni del professore sono allarmanti. “Entro il 2050 le università ospiteranno il 25% in meno degli studenti. Con il calo degli investimenti pubblici nelle università e nella ricerca, e la fuga degli studenti all’estero, non possiamo certo aspettarci che la crescita economica in Europa seguirà la crescita demografica. I nostri ragazzi di talento, educati in Europa, si muovono in giro per il mondo quando sono in cerca di finanziamenti e ritornano in Europa da anziani per farsi curare”.

Secondo Paleari, la sola leva a disposizione per modificare questa tendenza è l’innovazione. “Occorre creare le condizioni per attrarre nuovamente i talenti”. Nel suggerire una possibile soluzione per stanare talenti e innovazioni, Paleari ha parlato dell’esempio israeliano e della sua evoluzione negli ultimi 20 anni. “Questo modello è nato dai finanziamenti pubblici. Oggi, però, è un modello misto in cui la partecipazione pubblica viene limitata entro una certa soglia. Le idee innovative vengono segnalate al ministero che appunta uno specialista affinché le analizzi. Nel 95% di casi, l’innovazione non supera la valutazione dello specialista e passa a finanziamenti privati. Sarà quindi il mercato a stabilire se si trattava di un’innovazione reale. Nel 5% dei casi, però, l’innovazione riceve subito finanziamenti superiori a quelli richiesti e con un ritorno di investimento fissato a due anni”.

Paleari sembra aver le idee chiare su un altro grave difetto del sistema universitario italiano. “L’università è un insieme di obiettivi che sono accomunati fra loro dal senso di condivisione e trasferimento di conoscenza e coscienza. Le barriere disciplinari sono un grandissimo ostacolo al trasferimento della conoscenza. La capillarità del sapere, anche universitario, è importante per una cultura di trasferimento del sapere e della tecnologia”, dice.

Salta subito alla mente l’esempio offerto dal Media Lab del MIT, dove persino le barriere fisiche fra le diverse discipline sono state abbattute. Il Media Lab è un concentrato di innovazione trasparente che permette agli studenti dei diversi corsi di contemplare liberamente i risultati delle varie ricerche, siano esse analoghe o meno con i loro studi e interessi.

Sempre con tono di denuncia, Paleari ha sottolineato le difficoltà dei ricercatori, straziati dall’essere associati a dipendenti delle PA. “Bisogna dare più libertà ai ricercatori; libertà di creare, investire e guadagnare”, conclude.

I punti presentati da Paleari e Van Looy sono stati ripresi nel corso della tavola rotonda che è seguita alle loro presentazioni. A più riprese, il Prof. Riccardo Pietrabissa (Politecnico di Milano e Univeristà di Brescia), il Prof. Marco Cantamessa (Presidente PNICube e Politecnico di Torino), l’Ing. Ruggero Frezza (M31), il Dott. Cristiano Nicoletti (Presidente CODAU), il Prof. Francesco Svelto (Prorettore alla Terza Missione dell’Università degli Studi di Pavia) e il Prof. Maurizio Talamo (Prorettore delegato alle attività di terza missione dell’Università di Roma Tor Vergata) hanno parlato di una lacuna culturale, che impedisce a studenti e ricercatori di comprendere le potenzialità offerte dalle strutture universitarie, e della bassa reputazione delle università italiane.

“Cosa si fa nelle università. Si mettono strumenti a disposizione degli studenti. La terza missione è dunque la capacità di produrre progresso per la società. Il progresso dipende però dalla reputazione dell’università come strumento di divulgazione”, ha detto Pietrabissa. Il motivo dietro la crescita di un territorio sta nella presenza di innovazione sul territorio. è fondamentale, quindi, investire nelle idee che nascono all’interno delle nuove imprese.

Le università italiane dovrebbero saper parlare con il mondo e disporre di una struttura commerciale organizzativa allestita per il mondo.

Secondo il Prof. Svelto, la reputazione dipenderebbe anche dalla scarsa presenza e partecipazione di atenei e professori nel mondo esterno all’ateneo. “Le università italiane dovrebbero lavorare assieme come una rete”, ha detto.

Il Prof. Cantamessa ha sottolineato la necessità di creare un luogo che ospiti start-up e crei ponti con le imprese. “Le imprese devono potersi insediare all’interno del territorio universitario”.

Comune fra tutti i partecipanti di questa prima giornata della Summer School, quindi, è la convinzione che il sistema universitario debba innovarsi per favorire non solo la formazione degli studenti, ma anche la creazione e lo stimolo di innovazioni che sappiano incentivare la ricerca, premiare i ricercatori e creare ponti saldi con il mercato nazionale e internazionale. Avanti tutta con le università imprenditoriali, dunque.

(MO)