Clima: è tutta una questione di soldi

Il mondo finanziario deve andare oltre le chiacchiere

Adoro giornate calde e soleggiate come quelle che abbiamo avuto recentemente. In qualità di giornalista incaricata a seguire il clima sono, però, anche un po’ preoccupata. Fa troppo caldo. Sto cercando di seguire un consiglio ricevuto di recente: “Goditi il ​​tempo che fa, ma preoccupati per il clima”.

Per essere chiari, non ho visto nessuno studio attribuire questa particolare ondata di caldo al cambiamento climatico. Ma gli ultimi otto anni sono stati i più caldi mai registrati, motivo per cui mi sono sentita giustificata nell’attribuire la situazione al cambiamento climatico mentre girovagavo per la città in maglietta in pieno novembre.

Non sono l’unica con il pallino del cambiamento climatico in questo momento, visto che è appena partita la conferenza annuale sul clima delle Nazioni Unite, COP27.

Sarà una settimana decisiva sulle nostre prospettive climatiche, quindi prendiamoci il tempo necessario ad approfondire ciò che serve sapere, includendo anche la frustrazione di tanti incontri internazionali, tutte le chiacchiere spese sui soldi necessari e qualche reazione sulla politica climatica statunitense approvata di recente.

Il contesto: tante chiacchiere

COP è l’abbreviazione utilizzata per identificare la conferenza annuale delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (l’acronimo sta per “Conferenza delle Parti.”) L’evento di quest’anno è il 27°, ergo COP27. Si terrà a Sharm El Sheikh, in Egitto, per due settimane.

Queste conferenze è l’occasione in cui i leader mondiali e la comunità climatica si riuniscono per prendere nuovi impegni, chiedere supporto e parlare.

Proprio questo generico ‘parlare’ sta diventando sempre più controverso. Molti nella comunità climatica hanno espresso la propria frustrazione per il fatto che si continui a parlare di azione a favore del clima, mentre le emissioni di gas serra e le temperature non cessano di aumentare ogni anno. Trent’anni di promesse sull’azione per il clima si sono rivelati un inutile “bla bla bla”, come affermato dall’attivista Greta Thunberg l’anno scorso.

Non è che non accada proprio nulla alle conferenze, ma qualunque inziativa ottenga l’approvazione di un numero significativo di grandi nazioni “finisce annacquata al punto da non valere granchè“, spiegava il mio collega James Temple nella sua introduzione alla COP26 dell’anno scorso.

A proposito di promesse annacquate, l’Accordo di Parigi è un prodotto della COP21 del 2015. È la proposta più assimilabile ad un trattato internazionale sui cambiamenti climatici mai raggiunta, con un paio di obiettivi generali:

  • Ridurre il riscaldamento globale a 2°C entro questo secolo e fare il possibile per contenerlo entro 1,5°C.
  • Fornire finanziamenti per il clima ai paesi in via di sviluppo.
  • Rivedere i piani di ciascuna nazione ogni cinque anni.

Non c’è nulla di vincolante nell’accordo di Parigi, ma inquadra molte delle conversazioni internazionali sulle azioni necessarie a combattere il cambiamento climatico. E in questo momento, non ci siamo.

Rapporti recenti hanno chiarito che il mondo è ancora lontano dal limitare le emissioni abbastanza velocemente da raggiungere gli obiettivi di Parigi. Limitare il riscaldamento globale al di sotto di 1,5°C sembra essere sempre più fuori portata e persino non sforare i 2°C rimane in gioco.

L’argomento principale: i soldi

Uno dei discorsi principali da tenersi alla COP27 riguarderà una domanda: a chi spetta pagare il conto per il cambiamento climatico?

È stato un anno senza precedenti per i disastri climatici. Le inondazioni in Pakistan hanno ucciso oltre 1.000 persone, distrutto quasi 2 milioni di case e causato danni stimati per 15 miliardi di dollari. La siccità nell’Africa orientale ha spazzato via i raccolti, minacciando di carestia le persone in tutta la regione.

Questi disastri stanno colpendo più duramente soprattutto i paesi che poco hanno contribuito al cambiamento climatico, motivo per cui alcuni sostengono che paesi ricchi come gli Stati Uniti, responsabili di circa il 20% alle emissioni storiche mondiali, dovrebbero mettere mano al portafoglio. Al giorno d’oggi, è la Cina a rilasciare più emissioni di qualsiasi altra nazione. Storicamente, si attesta al secondo posto dei grandi responsabili delle emissioni, con l’11% del totale globale.

“Siamo su di un’autostrada diretta all’inferno climatico con il piede sull’acceleratore.” Antonio Guterres, segretario generale delle Nazioni Unite

In una mossa storica, la voce finanziamento climatico per “danni e perdite” è entrata a far parte dell’agenda ufficiale della COP27. Si tratta di finanziamenti che andrebbero ad aiutare i paesi in cui disastri climatici come inondazioni e siccità si stanno facendo sempre più comuni.

La scelta linguistica è il risultato di ore di negoziati e non è chiaro quali progressi potranno essere fatti nel raggiungere un effettivo accordo, soprattutto visto che i paesi interessati sono già in ritardo rispetto ad impegni presi in passato sul fronte dei finanziamenti climatici.

Nel 2009, un gruppo di paesi, tra cui gli Stati Uniti, si era impegnato a fornire, entro il 2020, 100 miliardi di dollari l’anno per aiutare i paesi in via di sviluppo a ridurre le proprie emissioni e adattarsi ad effetti del cambiamento climatico come la siccità e l’innalzamento del livello del mare.

La realtà non si è dimostrata all’altezza delle promesse, arrivando appena a 83 miliardi di dollari di finanziamenti nel 2020. E alcuni paesi come gli Stati Uniti, il Canada e il Regno Unito hanno proprio mancato di produrre la propria ” equa quota”, secondo una recente analisi di CarbonBrief intesa ad analizzare i contributi finanziari di ciascun paese messi a confronto con il il loro impatto climatico nella storia.

Aver mancato l’obiettivo sulle precedenti promesse di finanziamento climatico non fa ben sperare per coloro che cercano ancora più aiuto, ma seguiremo il discorso nelle prossime settimane per vedere dove si andrà a finire. Speriamo che non rimanga tutto un bla bla bla.

Nel frattempo, gli USA hanno appena passato l’Inflation Reduction Act, una legge che indirizza 370 miliardi di dollari di finanziamenti verso la lotta per il clima e la transizione energetica nel Paese.

Quando è stato approvato in agosto, molti hanno celebrato un ritorno alla “credibilità climatica” internazionale per gli Stati Uniti, ma non sono mancate voci critiche, in particolare nell’UE, a causa delle politiche protezionistiche che danneggeranno i loro paesi.

Uno dei principali obiettivi dell’IRA è, in effetti, proprio rilanciare l’industria americana, creare posti di lavoro e promuovere lo sviluppo economico, costruendo anche catene di approvvigionamento nazionali di batterie, energia solare e altre tecnologie essenziali per ridurre le emissioni e combattere il cambiamento climatico. Molti di questi prodotti sono realizzati principalmente in Cina e gli Stati Uniti vogliono recuperare terreno.

Le preoccupazioni espresse non sono che una finestra sui progressi climatici a livello internazionale: il cambiamento climatico è un problema globale, ma ciascun governo opera prima di tutto su programmi e interessi di politica interna.

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