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Se c’è una dimensione positiva della Brexit, consiste nel rafforzamento dell’idea che abbiamo bisogno di più Europa nel nostro futuro: un bel monito per tutti i paesi più o meno opportunisticamente scettici.

di Mario Morcellini

Quasi come un riflesso automatico, la prima risposta all’interrogativo sulle conseguenze della Brexit è una famosa citazione di Don Milani: «Ho imparato che il problema degli altri è eguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia».

E proprio di buona politica avremmo (avuto) bisogno per collegare l’inevitabile peggioramento delle condizioni materiali nell’Europa di oggi alla necessità di costruire più efficaci meccanismi di collegamento tra i tanti soggetti colpiti dalla crisi. Con la Brexit, invece, si è scelta la scorciatoia più cara al mix peggiore tra politica e media: il populismo.

Quando avremo modo di riprenderci dallo shock simbolico di una grande democrazia occidentale che decide di fare un passo indietro nel processo di integrazione tra nazioni, bisognerà studiare con attenzione il livello del dibattito pubblico che ha accompagnato la Gran Bretagna al voto sull’uscita dall’UE. Davvero una prova lampante di quei meccanismi di semplificazione della realtà di cui è capace la cattiva comunicazione.

Venendo al tema specifico, e cioè alle conseguenze della Brexit per la ricerca scientifica, le considerazioni sul bilancio tra contributi consegnati all’Unione Europea e finanziamenti ricevuti, lucidamente messe in evidenza da Alessandro Ovi, sono più che sufficienti a inquadrare i contorni di una scelta che rischia di essere economicamente perdente prima che eticamente discutibile. E se è vero che il sistema della ricerca europeo dovrà progettare dei meccanismi di correzione e di nuova inclusione per fare fronte alla nuova posizione della Gran Bretagna – e ben vengano questi correttivi, poiché l’unica risposta che si può dare alle spinte centrifughe è un maggiore impegno nella costruzione di ponti – la questione cruciale è l’assenza del Regno Unito nella cabina di regia del sistema europeo della ricerca.

Oltre a questa considerazione di carattere generale, vorrei entrare nel dettaglio rispetto al mio campo disciplinare. Sul versante delle scienze sociali e comunicative è forte il peso della variabile linguistica nella costruzione delle proprie riflessioni: costruiamo ipotesi esplicative e modelli di interazione tra variabili (sociologiche e comunicative, appunto) pensate, vissute e comunicate in una lingua specifica. E spesso condividiamo i risultati di quelle ricerche proprio utilizzando quella stessa lingua. Ma proprio per non tirarci indietro rispetto alla sfida dell’internazionalizzazione, ci impegniamo da anni a tradurre le nostre acquisizioni nelle lingue ufficiali della ricerca scientifica, anche a costo di subire il peso di una certa predominanza anglofona che, se non fosse necessario lavorare per ridurre i danni collaterali della Brexit, si potrebbe chiamare imperialismo culturale.

Eppure l’ipotesi che le condizioni materiali dello scambio tra Stati rendano più difficile il confronto con i colleghi britannici (fossero anche solo l’aumento della burocrazia e le difficoltà per la circolazione delle persone) è uno scenario davvero amaro.

Queste brevi considerazioni, che nell’immediato di un evento storico di tale portata assumono i contorni di uno sfogo, valorizzano un’ipotesi interpretativa di lungo periodo che stiamo portando avanti per reagire culturalmente a ipotesi esplicative della crisi europea troppo déjà vu. Anche se il paradigma dominante della crisi è di tipo economico, occorre ribadire con forza, a maggior ragione nell’immediato della Brexit, che la crisi è invece soprattutto simbolica e sociale. Abita dunque nell’erosione dei meccanismi di coesione e nella perdita di rilevanza dell’alterità nella costruzione dei processi decisionali individuali. Sotto questa angolatura, non è detto che l’uscita di un socio sempre perplesso e scettico sull’Europa non finisca per rafforzare i legami degli altri, senza dimenticare che i costi per inseguire chi vuole uscire da una comunità rischiano sempre in termini di equità e di par condicio.

Ma è certo un’altra cosa trasferire tutto ciò nell’ambito della produzione scientifica, dove i meccanismi economici contano, ma non quanto la circostanza che la ricerca, l’università e la mobilità studentesca sono stati il presidio più convinto non solo di un’unificazione di fatto, ma addirittura della crescita dell’Europa come società della conoscenza. È sotto questo profilo che l’infelice exit strategy del Regno Unito può rappresentare un vulnus gravissimo, come le culture universitarie e giovanili inglesi hanno polemicamente e rapidamente compreso. La Brexit rischia di aumentare i costi dell’import-export della conoscenza, e comunque è difficile oggi prevedere i costi a regime di un simile modello.

La ricerca scientifica ha bisogno della migliore politica, quella inclusiva. Lo shock della Brexit ci obbliga finalmente a prendere di petto il populismo e a interpretare politicamente le tante disperazioni sociali a cui la politica europea degli algoritmi non sa dare risposte. Se l’unico luogo dove si respira il clima degli Stati Uniti d’Europa è nell’armonizzazione dei titoli di studio e nei laboratori culturali dell’Erasmus, diventa più angusto lo spazio per l’interrogativo tra restare o lasciare. Se c’è una dimensione positiva della Brexit, consiste nel disastro delle strategie comunicative apparso evidente dietro la radiografia del risultato inglese. È più forte di prima l’idea che abbiamo bisogno di più Europa nel nostro futuro.

Un bel monito per tutti i paesi più o meno opportunisticamente scettici. Un elemento di forza per l’Italia, che è stata una delle culle in cui si è affermato il mito politico dell’unità europea.