
La tecnologia può trasformare davvero l’istruzione? Letizia Sbarbaro, Lead Educational Manager di WeSchool, non ha dubbi: non è solo questione di strumenti digitali, ma di un cambiamento di metodo e ci racconta come la didattica partecipativa può preparare gli studenti alle sfide del futuro.
Oggi la scuola si trova di fronte a trasformazioni urgenti che non riguardano solo il miglioramento dell’istruzione, ma anche l’affrontare le sfide sociali e tecnologiche del futuro.

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Il rapporto ASviS 2024 “Coltivare ora il nostro futuro” presentato lo scorso 17 ottobre , ci ricorda che i progressi verso un’educazione di qualità sono troppo lenti e in alcuni casi addirittura in declino. In Italia, il 48% dei diplomati mostra competenze inadeguate in matematica e il 44% ha difficoltà con l’italiano. Questi numeri preoccupano, soprattutto se pensiamo che dietro le medie si nascondono disparità significative: gli studenti provenienti da contesti socio-economicamente svantaggiati o con bisogni educativi speciali hanno risultati scolastici inferiori rispetto ai loro coetanei più privilegiati.
L’imperativo di “non lasciare indietro nessuno”, pilastro dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, sottolinea l’urgenza di politiche e strumenti educativi più inclusivi per offrire a tutti gli studenti pari opportunità di crescita. In questo scenario, iniziative come “5G Smart School” assumono un valore strategico: non si tratta solo di introdurre tecnologia nelle aule, ma di ripensare la didattica in modo partecipativo e inclusivo.

Letizia Sbarbaro, Lead Educational Manager di WeSchool
Ne abbiamo discusso con Letizia Sbarbaro, Lead Educational Manager di WeSchool. Classe 1995, è laureata in Filosofia all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, dove oggi collabora come cultrice della materia per le cattedre di Filosofia morale, Etica e Antropologia. Da cinque anni lavora in WeSchool, dove oggi guida il team Education. In questi anni ha lavorato a più di 90 progetti educativi in Italia e all’estero, tutti accomunati da un duplice obiettivo: da un lato aiutare gli studenti ad acquisire le skills del terzo millennio già tra i banchi di scuola, dall’altro supportare i docenti nel rendere le loro lezioni più collaborative, coinvolgenti e inclusive.
WeSchool è nata nel 2016 con l’obiettivo di introdurre nella scuola italiana la didattica collaborativa, promuovendo un approccio di partecipazione attiva e co-creazione del sapere. Con l’arrivo della pandemia, molti insegnanti hanno affrontato la sfida senza precedenti della didattica a distanza, adattandosi in tempi brevissimi a una situazione completamente nuova. In questo contesto, la tecnologia è stata vista da molti come un modo per continuare la lezione frontale da remoto. In questo contesto la vostra piattaforma si è rivelata una soluzione formidabile per rispondere alla emergenza. In realtà, la mission di WeSchool è molto più ambiziosa e afferma: “Portiamo alle nuove generazioni gli strumenti per cambiare il futuro”. In quest’ottica, qual è la tua visione di innovazione didattica?
Per risponderti parto col dire cosa “innovazione didattica” non è: nel dibattito comune si associa esclusivamente all’utilizzo della tecnologia in classe. Ma questo è un bias. La tecnologia è un pezzo importante del puzzle, ma quello che fa la differenza sono le metodologie didattiche. Il dibattito dovrebbe essere sul passare dalla didattica frontale alla didattica partecipativa, in cui le studentesse e gli studenti imparano non solo le derivate e i Promessi Sposi, ma acquisiscono anche le competenze fondamentali per il loro futuro. Imparano ad esempio a parlare in pubblico, a lavorare in gruppo, a smascherare le fake news e ad applicare il pensiero critico. Questo è possibile solo se si passa da una classe che seduta al banco ascolta e – nel caso dei più diligenti – prende appunti, a una classe che progetta, crea, collabora e si confronta. Questa è innovazione didattica. E i docenti sono come sempre la chiave: senza di loro questo cambiamento non è possibile. La tecnologia viene dopo, come strumento che velocizza e amplifica questo processo.

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L’adozione di approcci innovativi e l’integrazione delle tecnologie digitali consentono la personalizzazione dell’insegnamento e contribuiscono a rendere il sistema scolastico più equo e inclusivo, sia per studenti provenienti da contesti socio-economicamente svantaggiati, sia per quelli con bisogni educativi speciali. In che modo le proposte didattiche di WeSchool favoriscono questo percorso?
Molto spesso proponiamo attività di apprendimento cooperativo, che valorizzano le capacità di ciascuno studente e promuovono la socialità e la collaborazione. Forniamo sempre strumenti per una valutazione formativa, volta al miglioramento dei processi di apprendimento e allo sviluppo di processi metacognitivi negli studenti. O ancora, alcuni dei nostri progetti si basano sul framework dell’Universal Design for Learning (UDL), che prevede l’utilizzo di diversi mezzi per il coinvolgimento della classe e per l’espressione e azione degli studenti. Ad esempio, quando chiediamo loro di consegnare un project work, sono liberi di sceglierne il formato a seconda del loro stile cognitivo e di apprendimento: chi ha uno stile visuale ci ha restituito moodboard o presentazioni, mentre chi ha uno stile verbale ci ha condiviso schede descrittive o pitch. Infine, proponiamo l’utilizzo di strumenti digitali – a partire dalla piattaforma WeSchool – che permettono non solo di personalizzare il percorso di apprendimento, ma anche di rendere le lezioni attive e collaborative.
“5G Smart School” rappresenta un esempio significativo di innovazione didattica, mirata a generare impatto; per questo motivo il concetto di addizionalità è cruciale. La scelta del luogo in cui intervenire è determinante perché l’impatto è tanto maggiore quanto più il contesto ne ha bisogno e beneficia di risorse che altrimenti non sarebbero disponibili. Puoi illustrarci come decidete dove concentrare i vostri sforzi per garantire il massimo impatto? Quali criteri utilizzate nella scelta dei territori e delle scuole, specialmente in contesti dove l’intervento può fare la maggiore differenza?
Siamo partiti da un’analisi e mappatura delle scuole italiane, regione per regione. A cominciare dagli istituti in contesti rurali e di piccole città, abbiamo analizzato dati quali i risultati delle prove Invalsi e il tasso di dispersione scolastica, ma anche la ripartizione dei fondi del Piano Nazionale Scuola Digitale e i progetti PON (programmi operativi nazionali finanziati dalla Commissione Europea) attivati dalle scuole. L’obiettivo è infatti combattere la povertà educativa grazie a metodologie didattiche innovative e strumenti digitali che difficilmente prima del PNRR entravano a scuola. Nelle scuole partecipanti abbiamo realizzato dei laboratori che, grazie alla connettività 5G, supportassero l’uso di Chromebook e visori per la VR per attività di project-based e cooperative learning con Minecraft e CoSpaces. Abbiamo ricevuto molti feedback da parte dei docenti che ci raccontavano di come anche gli studenti normalmente poco partecipativi si siano messi in gioco e abbiano collaborato con i loro compagni. Anzi, a volte insegnavano direttamente ai loro prof, non proprio familiari con la VR!

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L’iniziativa è stata finanziata da Qualcomm nell’ambito del programma Wireless Reach. Quale ruolo ritieni che le aziende possano e debbano giocare nell’accelerare lo sviluppo del sistema scolastico italiano?
Hanno un ruolo fondamentale: ci lavorano i professionisti che hanno le competenze e conoscenze che gli studenti devono iniziare a sviluppare già a scuola. Non solo, spesso sono testimonianza dei “lavori del futuro” (tra virgolette, perché ormai sono il presente) che a scuola non si conoscono. Nelle ore di orientamento, ad esempio, vengono introdotte professioni importantissime come quelle del medico, dell’avvocato o del veterinario, ma mancano le professioni emerse negli ultimi anni: chi è AI Engineer? Cosa fa? Cos’ha studiato? Che competenze ha? Io stessa quando ho finito il liceo (peggio, quando ho finito l’università!) non sapevo che il mio lavoro esistesse: credevo di voler fare la prof, perché questo mi hanno insegnato.
Cosa si può fare per favorire l’adozione di nuove metodologie da parte delle istituzioni scolastiche, garantendo che queste innovazioni non rimangano iniziative isolate, ma possano scalare e integrarsi efficacemente nell’intero sistema educativo?
Per prima cosa serve partire dalla formazione docenti che, come dicevo, sono la chiave del cambiamento. Non basta però una formazione teorica, serve anche mostrare come mettere in pratica le metodologie apprese. 5G Smart School va proprio in questa direzione: prima i docenti si formano sul project-based e il cooperative learning, poi li mettono subito in pratica con le attività didattiche proposte da WeSchool. Insieme ad ARCO abbiamo lavorato a una valutazione dell’impatto del progetto e il risultato emerso è che questo modello funziona: la quasi totalità dei docenti (98%) dichiara di usare queste metodologie anche per le loro lezioni ordinarie, e il 45% dice di farlo “spesso” o “molto spesso”.

Alcuni dei partecipanti al progetto del Liceo Statale “Quinto Orazio Flacco” di Portici. WeSchool
Il progetto è stato valutato utilizzando il quadro di riferimento definito dall’OCSE per misurare l’efficacia e l’impatto delle iniziative di cooperazione allo sviluppo e dei progetti finanziati da donatori internazionali. Questo metodo è stato sviluppato per valutare progetti, programmi e politiche da diverse prospettive, con l’obiettivo di migliorare l’efficacia degli interventi e garantire che essi rispondano adeguatamente alle esigenze delle persone beneficiarie. Nel vostro caso, avete raccolto le opinioni di studentesse, studenti e insegnanti coinvolti, focalizzandovi su aspetti come la pertinenza, l’efficacia e la sostenibilità, quest’ultima intesa come la capacità del progetto di mantenere i benefici nel tempo, anche dopo la conclusione dell’intervento o la fine del supporto finanziario. Dopo due edizioni, quali lezioni avete appreso riguardo l’impatto generato e le aree di miglioramento? Avete già pensato a qualche cambiamento in future edizioni per massimizzare ulteriormente i benefici per le scuole coinvolte?
Le due differenze più rilevanti sono relative proprio alla formazione docenti. Abbiamo capito che l’applicazione pratica delle metodologie da sola non basta per saperla replicare nella didattica ordinaria. Per questo abbiamo deciso che quest’anno saranno gli stessi prof a costruire il lesson plan del progetto: date le metodologie e gli strumenti digitali selezionati da WeSchool e dati gli spazi, i tempi e gli studenti con cui lavorano, saranno loro a costruire la lezione in modo tale che gli studenti raggiungano gli obiettivi di apprendimento. In questo modo impareranno come fare progettazione didattica applicando queste metodologie innovative. Inoltre, quest’anno gli studenti avranno un ruolo ancora più attivo: saranno loro ad insegnare ai loro docenti come usare Minecraft e CoSpaces.
Abbiamo parlato fin qui della vostra esperienza in Italia ma voi siete presenti in 5 paesi. Quali sono le differenze più significative che hai osservato nelle pratiche educative e nell’adozione della tecnologia, e come queste influenzano la vostra strategia a lungo termine?
I problemi che vediamo in Italia sono presenti anche in altri Paesi. Per quanto riguarda le metodologie innovative e lo sviluppo delle soft skills, ci sono dei Paesi che sono più avanti: in Francia, ad esempio, soft skills, come il critical thinking, fanno parte delle materie curricolari, mentre in UK è spesso utilizzata la metodologia del debate. Per quanto riguarda l’adozione della tecnologia, invece, la situazione è più delicata: le scuole fanno fatica a trovare i fondi per acquistare le tecnologie per la didattica. In alcuni casi manca proprio l’infrastruttura di base, come in Grecia. Tutto questo ci fa capire che siamo sulla strada giusta: progetti come 5G Smart School sono fondamentali tanto in Italia quanto all’estero. Quest’anno il progetto approda anche in Spagna, ma contiamo di poterlo portare presto anche in Francia e altri Paesi.