L’esercito americano vuole leggere le menti

Un nuovo programma di ricerca della DARPA sta sviluppando interfacce cervello-computer che potrebbero controllare “sciami di droni, operando alla velocità del pensiero”.

di Paul Tullis

In agosto, tre studenti laureati della Carnegie Mellon University si sono ritrovati in un piccolo laboratorio sotterraneo senza finestre, per alimentare una fetta di cervello di topo con l’elettricità.

Il frammento di cervello, prelevato dall’ippocampo, era bagnato da un tubo stretto con una soluzione di sale, glucosio e aminoacidi, per mantenerlo in qualche modo in vita. I neuroni nella fetta hanno continuato a essere attivi, permettendo agli sperimentatori di raccogliere dati.

Una serie di elettrodi sotto la fetta emetteva stimoli elettrici, mentre una sonda metallica simile a una siringa misurava la reazione dei neuroni. Lampade a LED luminose illuminavano il contenitore.

Un monitor mostrava stimoli e risposte: le scariche elettricità degli elettrodi venivano seguite, alcuni millisecondi dopo, dall’attivazione dei neuroni. In seguito, i ricercatori hanno posizionato un materiale con le stesse proprietà elettriche e ottiche di un cranio umano tra la fetta e gli elettrodi, per vedere se potevano stimolare anche l’ippocampo del topo attraverso il cranio simulato.

Questo tentativo è stato fatto perché volevano capire se erano in grado di rilevare e manipolare i segnali nel cervello umano senza sezionare il cranio e toccare il delicato tessuto cerebrale. Il loro obiettivo, infatti, è quello di sviluppare interfacce cervello-computer accurate e sensibili che possano essere indossate e rimosse come un elmetto o una fascia per la testa, senza alcun intervento chirurgico.

I teschi umani hanno uno spessore inferiore a un centimetro e la misura varia da persona a persona e da luogo a luogo. Agiscono come un filtro di sfocatura che diffonde le forme d’onda, siano esse correnti elettriche, luce o suono. I neuroni nel cervello possono essere piccoli fino a pochi millesimi di millimetro di diametro e generare impulsi elettrici deboli quanto un ventesimo di volt.

L’esperimento degli studenti aveva lo scopo di raccogliere una base di dati con cui poter confrontare i risultati di una nuova tecnica che Pulkit Grover, il responsabile del team, spera di sviluppare. “Niente di simile è al momento possibile ed è davvero un compito complesso”, afferma Grover, che è a capo di uno dei sei team che prendono parte al Next-generation Nonsurgical Neurotechnology Program o N³, un progetto del valore di 104 milioni di dollari lanciato quest’anno dalla Defense Advanced Research Projects Agency, o DARPA.

Mentre il team di Grover sta manipolando i segnali elettrici ed ecografici, altri team utilizzano tecniche ottiche o magnetiche. Se uno di questi approcci avrà successo, i risultati rappresenteranno un cambiamento epocale.

Jan Burkhart (a sinistra) collabora con i ricercatori di Battelle allo sviluppo dell’interfaccia cervello-computer.Damian Gorczan

La chirurgia è costosa e, se l’idea è quella di creare un nuovo tipo di super guerriero, è anche eticamente problematica. Un dispositivo di lettura della mente che non richiede alcun intervento chirurgico aprirebbe un mondo di possibilità.

Le interfacce cervello-computer, o BCI, sono state usate per aiutare le persone con quadriplegia a riguadagnare un controllo limitato sui loro corpi e per consentire ai veterani che hanno perso gli arti in Iraq e in Afghanistan di controllare quelli artificiali.

N³ è il primo serio tentativo dell’esercito americano di sviluppare BCI a scopi bellico. “Lavorare con droni e sciami di droni, operando alla velocità del pensiero piuttosto che attraverso dispositivi meccanici: la ricerca mira a raggiungere questo scopo”, afferma Al Emondi, direttore di N³.

Lo scienziato informatico dell’UCLA Jacques J. Vidal ha usato per la prima volta il termine “interfaccia cervello-computer” nei primi anni 1970; è una di quelle frasi, come “intelligenza artificiale”, la cui definizione si evolve man mano che si sviluppa il campo di intervento che descrive. L’elettroencefalografia (EEG), che registra l’attività elettrica nel cervello utilizzando elettrodi posizionati sul cranio, potrebbe essere considerato la prima interfaccia tra cervello e computer.

Alla fine degli anni 1990, i ricercatori della Case Western Reserve University hanno usato l’EEG per dare un significato alle onde cerebrali di una persona quadriplegica, permettendogli di spostare il cursore di un computer attraverso un filo che si estendeva dagli elettrodi sul cuoio capelluto.

Da allora, entrambe le tecniche, invasive e non, per la lettura dal cervello hanno fatto progressi. Sono oggi disponibili dispositivi che stimolano il cervello con segnali elettrici per trattare l’epilessia. Probabilmente lo strumento più potente sviluppato fino ad oggi si chiama Utah array. Sembra un piccolo letto di punte, circa la metà delle dimensioni di un’unghia da mignolo in totale, ed è in grado di penetrare in una determinata parte del cervello.

Nel 2010, mentre era in vacanza nelle Outer Banks della Carolina del Nord, Ian Burkhart si tuffò nell’oceano e si procurò una lesione del midollo spinale, determinando una paralisi dal sesto nervo cervicale in giù. Poteva ancora muovere una spalla e gomito, ma non le mani o le gambe. La terapia fisica non ha aiutato molto. Ha chiesto ai suoi medici del Wexner Medical Center della Ohio State University se si poteva fare qualcos’altro.

Si è allora venuto a sapere che il centro medico Wexner sperava di portare avanti uno studio insieme a Battelle, una società di ricerca senza scopo di lucro, per vedere se potevano usare un Utah array per rianimare gli arti di una persona paralizzata.

Laddove l’EEG mostra l’attività aggregata di innumerevoli neuroni, gli Utah array possono registrare gli impulsi da un piccolo numero di essi, o persino da uno solo. Nel 2014, i medici hanno impiantato un Utah array nella testa di Burkhart. L’array ha misurato il campo elettrico in 96 punti all’interno della sua corteccia motoria, 30.000 volte al secondo.

Burkhart si è recato al laboratorio più volte alla settimana per oltre un anno e i ricercatori di Battelle hanno addestrato i loro algoritmi di elaborazione del segnale a decodificare le sue intenzioni mentre si concentrava su come avrebbe mosso la mano se avesse potuto.

Un grosso cavo, collegato a una base che fuoriesce dal cranio di Burkhart, inviava gli impulsi misurati dall’Utah array a un computer. Il computer li ha decodificati e poi ha trasmesso i segnali a un manicotto pieno di elettrodi che gli copriva quasi l’avambraccio destro. Il manicotto attivava i suoi muscoli per eseguire i movimenti che intendeva fare, come afferrare, sollevare e svuotare una bottiglia o rimuovere una carta di credito dal suo portafoglio.

Questo tentativo ha reso Burkhart una delle prime persone a riprendere il controllo dei propri muscoli attraverso un “bypass neurale”. Battelle – che partecipa al programma N³ – sta collaborando con lui per vedere se sono in grado di ottenere gli stessi risultati senza impianto nel cranio.

Ciò significa non solo elaborare nuovi dispositivi, ma definire migliori tecniche di elaborazione del segnale per dare un senso ai segnali più deboli e confusi che possono essere raccolti dall’esterno del cranio. Per questa ragione, il team di Carnegie Mellon N³ è guidato da Grover, un ingegnere elettrico di formazione, non un neuroscienziato.

L’Utah array impiantato nella corteccia motoria di Ian Burkhart nel 2014.Damian Gorczan

Poco dopo l’arrivo a Carnegie Mellon, Grover iniziò a partecipare alle riunioni cliniche per i pazienti con epilessia, durante le quali cominciò a sospettare che dall’EEG si potessero dedurre molte più informazioni sul cervello di quante si pensasse e che una manipolazione intelligente dei segnali esterni potesse avere effetti nel profondo del cervello. Alcuni anni dopo, un team guidato da Edward Boyden del Center for Neurobiological Engineering del MIT pubblicò un documento di grande valore che andò ben oltre l’intuizione di Grover.

Il gruppo di Boyden aveva applicato due segnali elettrici, di frequenze alte ma leggermente diverse, all’esterno del cranio, che non hanno influenzato i neuroni vicini alla superficie del cervello, ma quelli più profondi al suo interno. In un fenomeno noto come interferenza costruttiva, si sono combinati per produrre un segnale a bassa frequenza che ha stimolato l’attivazione dei neuroni.

Grover e il suo gruppo stanno ora lavorando per estendere i risultati di Boyden con centinaia di elettrodi posizionati sulla superficie del cranio, sia per raggiungere con precisione piccole regioni all’interno del cervello, sia per “guidare” il segnale in modo che possa passare da una regione del cervello a un’altra mentre gli elettrodi rimangono in posizione. È un’idea, dice Grover, che difficilmente sarebbe venuta ai neuroscienziati.

Nel frattempo, all’Applied Physics Laboratory (APL) della Johns Hopkins University, un altro team N³ sta sperimentando un approccio completamente diverso: la luce nel vicino infrarosso.

L’idea attuale è che il tessuto neurale si gonfia e si contrae quando i neuroni generano segnali elettrici. Questi segnali sono ciò che gli scienziati registrano con l’EEG, con l’Utah array o altre tecniche. Dave Blodgett di APL sostiene che il rigonfiamento e la contrazione del tessuto sono un segnale altrettanto significativo dell’attività neuronale e vuole costruire un sistema ottico in grado di misurare tali cambiamenti.

Le tecniche del passato non sono riuscite a catturare cambiamenti fisici così piccoli. Ma Blodgett e il suo team hanno già dimostrato di poter vedere l’attività neurale di un topo quando fa vibrare un baffo. Dieci millisecondi dopo un movimento del baffo, Blodgett registra i corrispondenti neuroni che si attivano usando la sua tecnica di misurazione ottica (Ci sono 1.000 millisecondi in un secondo e 1.000 microsecondi in un millisecondo).

Nel tessuto neurale esposto, il suo team ha registrato l’attività neurale entro 10 microsecondi, con la stessa velocità di un Utah array o altri metodi di misurazione elettrica.

La prossima sfida è fare tutto ciò attraverso il cranio. L’operazione è all’apparenza impossibile: dopo tutto, i teschi non sono trasparenti alla luce visibile. Ma la luce nel vicino infrarosso può viaggiare attraverso le ossa. Il team di Blodgett spara laser a infrarossi a bassa potenza attraverso il cranio e quindi misura la dispersione della luce da quei laser, sperando in questo modo di dedurre il tipo di attività neurale in corso. L’approccio non è collaudato quanto l’utilizzo di segnali elettrici, ma questi sono esattamente i tipi di rischi che i programmi DARPA hanno il compito di assumersi.

A Battelle, invece, Gaurav Sharma sta sviluppando un nuovo tipo di nanoparticelle che possono attraversare la barriera emato-encefalica. È ciò che DARPA chiama una tecnica minimamente invasiva. La nanoparticella ha un nucleo magneticamente sensibile all’interno di un guscio fatto di un materiale che genera elettricità quando viene applicata una pressione.

Se queste nanoparticelle sono soggette a un campo magnetico, il nucleo interno sollecita il guscio, che quindi genera una piccola corrente. Un campo magnetico è molto meglio della luce per “vedere” attraverso il cranio, dice Sharma. Diverse bobine magnetiche consentono agli scienziati di colpire parti specifiche del cervello e il processo può essere invertito: le correnti elettriche possono essere convertite in campi magnetici in modo che i segnali possano essere letti.

Resta da vedere se e quale di questi tentativi avrà successo. Altri team N³ stanno usando varie combinazioni di onde luminose, elettriche, magnetiche ed ultrasoniche per ottenere segnali all’interno e all’esterno del cervello.

La sfida scientifica è seria, ma resta da vedere come il Pentagono e Facebook, che a sua volta sta sviluppando BCI, affronteranno la moltitudine di questioni etiche, legali e sociali che questo tipo di interfacce non invasive sollevano. In che modo gli sciami di droni controllati direttamente da un cervello umano possono cambiare la natura della guerra? Emondi, il direttore di N³, afferma che verranno utilizzate le interfacce neurali solo nel caso siano necessarie. Ma la necessità militare è un criterio malleabile.

In agosto, ho visitato un laboratorio a Battelle dove Burkhart aveva trascorso le precedenti ore a pensare a un nuovo manicotto, dotato di 150 elettrodi che stimolavano i muscoli del suo braccio. Lui e i ricercatori speravano di riuscire a far funzionare il manicotto senza dover fare affidamento sull’Utah array per raccogliere i segnali cerebrali.

Se il midollo spinale è lesionato, pensare di muovere il braccio è un’impresa che ha del miracoloso. Burkhart appariva molto stanco. “I miglioramenti sono graduali. Per fare un movimento devo concentrarmi su come mi dovrei muovere”, mi ha detto, “mentre prima dell’incidente non dovevo pensare: “Apri la mano e avvicinala alla bottiglia. Ma sono super motivato, più di chiunque altro nella stanza”. Burkhart ha dato un grande contributo per valutare il potenziale della tecnologia.

Mi ha spiegato che da quando ha iniziato a lavorare con l’Utah array, è diventato più abile anche quando non lo sta usando, tanto che ora vive da solo, richiedendo assistenza solo poche ore al giorno. “Parlo di più con le mie mani. Posso tenere in mano il mio telefono”, egli afferma. “Se mi aiuta nella vita di tutti i gironi, sono disposto a tenerlo il più a lungo possibile”.

Immagine: Enrico Nagel

(rp)

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