data center

Internet è un luogo fisico (ed è anche un problema energetico)

Data center. Le aziende stanno spostando le farm di server nei centri dei luoghi abitati per ridurre i tempi di latenza. Ma il problema del consumo di energia dei data center è sempre presente

Michael Waters

Nel 1930, il gigante del telegrafo Western Union diede il tocco finale al suo nuovo gioiello della corona: un edificio art déco di 24 piani situato al 60 di Hudson Street, nella parte inferiore di Manhattan. Subito dopo, oltre un milione di messaggi telegrafici ogni giorno entravano e uscivano, trasportati da una rete di cavi, tubi pneumatici e 30 dipendenti su pattini a rotelle che sfrecciavano sui pavimenti di linoleum dell’edificio.

Oggi, gran parte dell’edificio ospita vaste sale di server di computer. È una manifestazione fisica del cloud: quando si trasmette in streaming un programma TV, si carica un file su Dropbox o si entra in un sito Web, è probabile che ci si affidi alla potenza di elaborazione di un data center proprio come questo. Centinaia di aziende affittano uno spazio in 60 Hudson Street, ed è uno dei numerosi edifici, a volte chiamati “colocation center” nel gergo del settore, che ospitano data center all’interno o vicino ai principali centri abitati.

Quando si pensa ai data center, probabilmente vengono in mente immagini di una gigantesca server farm in una zona rurale dove l’elettricità è a buon mercato e le agevolazioni fiscali sono abbondanti. Grandi aziende tecnologiche come Google, Amazon Web Services, Microsoft e Meta hanno collocato milioni di metri quadrati di spazio server in luoghi come la Virginia del Nord o Hillsboro, nell’Oregon. 

Ma ora, per ridurre i tempi di latenza, le aziende stanno sempre più intrecciando nodi nella loro rete cittadina. L’edificio One Wilshire di Los Angeles, per esempio, un tempo sede di diversi studi legali, ora controlla un terzo di tutto il traffico Internet tra gli Stati Uniti e l’Asia. A prima vista, questi nodi urbani di Internet non si notano. E non è un caso.

Equinix, il più grande proprietario di colocation center, ossia di esternalizzazione del servizio IT, con il 10,9% del mercato mondiale, gestisce data center “invisibili”. A Dallas, l’azienda possiede un vasto edificio industriale appena fuori dal centro città che funge anche da hub di data center e da sede di un college a scopo di lucro. A Tokyo, la dislocazione è su vari piani all’interno del mare di grattacieli della città, “quindi difficilmente individuabile”, afferma Jim Poole, vicepresidente dello sviluppo aziendale dell’azienda. 

A Sydney, in Australia, Equinix sta costruendo un nuovo data center in uno stile espressionista non dissimile da quello del famoso teatro dell’opera della città. E intorno a una delle sue strutture ad Amsterdam, Equinix ha costruito un fossato per mantenere la continuità dell’edificio con il sistema circostante di canali. “La nostra scelta è di essere in sintonia con l’ambiente“, spiega Poole, aggiungendo che a volte anche le autorità locali lo richiedono. 

La domanda di tali strutture, soprattutto nei centri urbani, sta crescendo rapidamente: l’anno scorso la spesa per i colocation center è balzata dell’11,7%. Le più grandi società cloud non sono da meno. Amazon Web Services ha privilegiato i data center di dimensioni modeste, le cosiddette Aree Locali, vicino ai principali centri abitati. Finora, con questi insediamenti ha raggiunto 32 città negli Stati Uniti. La tendenza ha anche suscitato l’interesse di Walmart, che potrebbe presto iniziare ad affittare sezioni dei suoi superstore per ospitare data center per società di terze parti.

Una spiegazione per questo balzo in avanti della domanda, dice Poole, è che i consumatori stessi sono cambiati. Poiché la maggior parte delle nostre vite è ora online, “la tolleranza delle persone per i tempi di latenza ha continuato a diminuire”, afferma. I driver principali sono quelle applicazioni in cui un ritardo nei millisecondi può rivelarsi critico: si potrebbe non notare un quarto di secondo di ritardo su Netflix, ma sicuramente sarà evidente quando si utilizza nei casi di app di scommesse sportive online, di scambia azionari o di partecipazione a un multiplayer gioco come Fortnite.

Aziende come Google, Amazon e Microsoft, per esempio, stanno scommettendo sul cloud gaming, che prevede lo streaming di giochi su Internet senza una console o un telefono per fornire potenza di elaborazione. Ma molti giochi popolari, come gli sparatutto in soggettiva, “richiedono tempi di reazione molto rapidi e quindi una connettività davvero veloce”, afferma Jabez Tan, responsabile della ricerca presso l’azienda Structure Research. Giochi del genere non funzioneranno su un servizio di streaming senza l’aiuto di un gran numero di data center.

Si prenda il caso del metaverso. Se un mondo di realtà virtuale avrà mai un fascino di massa, dovrà rispecchiare l’immediatezza del nostro. Ciò significa grafica dettagliata, movimento agile e reazioni audio con appena un millisecondo di buffering. Tutto sommato, scrive Raja Koduri, vicepresidente senior di Intel, sono necessarie “capacità di elaborazione più potenti di diversi ordini di grandezza” per renderlo possibile. 

È questa richiesta di potenza di calcolo, dice Tan, che ha stimolato il “decentramento” delle reti dei data center: le aziende tecnologiche stanno guardando alla loro infrastruttura esistente e si rendono conto che non sono in grado di offrire le stesse prestazioni a chi vive a Manila o a Singapore. Il modo in cui questi nuovi data center si integrano nel paesaggio urbano e suburbano di edifici per uffici, magazzini doganali o parchi industriali è comunque un’arma a doppio taglio. 

Da una parte la nuova invisibilità potrebbe avere senso dal punto di vista della sicurezza ed evitare il discutibile spettacolo di vasti corridoi pieni zeppi di server di computer. Dall’altra, il fatto di non avere le strutture sotto gli occhi ci porta a non pensare ai costi dell’utilizzo di Internet. Secondo un rapporto dello scorso anno, i data center rappresentano l’1,8% di tutto il consumo di elettricità negli Stati Uniti e lo 0,5% delle emissioni di gas serra del paese: tutt’altro che una quantità trascurabile. 

Michael Waters è uno scrittore di New York.

Image by Akela999 from Pixabay

(rp)

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