Fare ad arte

di Massimo Negrotti

L’avventura dell’artificiale, e dei convegni sulla Cultura dell’Artificiale che l’IMES-LCA di Urbino organizza dal 1990, ha inizio nel pieno della fase di decollo, negli anni 1980 dell’ambiziosa e affascinante impresa di ricerca internazionale sull’intelligenza artificiale.

In quegli anni, uomini che si dedicavano alla progettazione di macchine o programmi intelligenti – fra cui Herbert Simon, Marvin Minsky, Bob Wilensky, Roger Schank e, fra gli italiani, Marco Somalvico – e uomini che si opponevano alla possibilità stessa di una qualsiasi sfida fra intelligenza umana e artificiale – fra cui Hubert Dreyfus e John Searle – alcuni dei quali parteciparono alle prime edizioni dei nostri convegni, avevano dato inizio a un dibattito apparentemente senza fine.

Il gruppo, che allora coordinavo presso l’Università di Genova e poi quella di Urbino, aveva compiuto ricerche sociologiche – con tanto di questionario computerizzato – durante convegni e congressi di ricercatori di artificial intelligence a Karlsruhe, Los Angeles, Brighton e Pisa, traendo, pian piano, la conclusione che il dibattito di cui sopra mostrava una strana asimmetria. Sia da parte di coloro che credevano pienamente nella trasferibilità dell’intelligenza umana al computer, sia da parte di coloro che opponevano ragioni di principio a questa possibilità, l’accento era posto sull’intelligenza (Cos’è? Come funziona? Quali proprietà indispensabili deve avere?) e mai sull’aggettivo che la seguiva, ossia «artificiale».

L’idea centrale della serie dei convegni venne così esposta, da chi scrive, grazie alla cura di un volume (Capire l’artificiale, Bollati Boringhieri, Torino 1990), tradotto poi in inglese (Understanding the Artificial, Springer Verlag, Heidelberg 1991).

La tesi di fondo, che sarebbe poi stata sviluppata in una vera e propria teoria, partiva dalla constatazione che l’aggettivo artificiale non poteva essere assunto come scontato. Al di là dell’intelligenza artificiale, infatti, era facile rilevare come la tecnologia umana, e la stessa arte – basti pensare a Piero della Francesca e Leon Battista Alberti – da sempre custodisca il sogno di riprodurre la natura attraverso le proprie capacità, modelli e materiali quasi a voler testimoniare di sapere indagare e conoscere la natura a tal punto da impossessarsi delle chiavi stesse della sua rigenerazione. Una rapida escursione nelle tecnologie avanzate, al di là dunque della sola intelligenza artificiale, consente a chiunque di rendersi conto di quanto diffusa e con radici antiche sia una simile ambizione. Sarà sufficiente ricordare la robotica antropomorfa, la bioingegneria – che , praticamente, sta tentando di artificializzare tutti gli organi umani, dal cuore alla pelle, dalle cellule al fegato – nonché quelle tecnologie speciali, dai remakings a varie tecnologie per l’arredamento, l’architettura, l’abbigliamento e le stesse pratiche alimentari o di supporto a queste (casi particolarmente simpatici sono l’olfatto e il gusto artificiali).

Tutto questo dimostra come, a partire dalle ambizioni più antiche, consacrate dalle imprese di Icaro e dei vari animali artificiali presenti nella letteratura greca, ma anche in quella orientale, passando poi per il periodo felice del meccanicismo razionalistico degli automi, la disponibilità di tecnologie e materiali sempre più raffinati ha invariabilmente costituito, per l’uomo, un irresistibile stimolo per tentare di sostituirsi alla natura stessa nella sua riproduzione. Un tentativo oggi affiancato, ma da non confondersi con le biotecnologie che puntano direttamente a innescare processi strettamente naturali attraverso la manipolazione genetica.

La teoria dell’artificiale, divenuta poi teoria dei naturoidi – per precisare senza ambiguità il suo riferimento ai tentativi di riprodurre esemplari naturali e non solo all’invenzione di macchine – è stata esposta in varie sedi (fra cui «Technology Review» nel 1997, 1998 e 2001; altra letteratura è reperibile in rete) e discussa, appunto, in vari convegni e seminari. Al di là della sua rilevanza intrinseca, essa sta tuttora contribuendo a portare il vecchio dibattito sulla sola intelligenza artificiale a un punto di maturazione successivo: cosa accade ogni volta che l’uomo, attraverso la sua tecnologia, mette al mondo un naturoide? Sussistono vincoli logici e metodologici, dalla ideazione alla progettazione e alla realizzazione, che caratterizzano, di fatto, tutti i naturoidi, che si tratti di intelligenza o di ossa, di erba o di seta, di rocce o della visione? In definitiva, cosa possiamo e cosa non possiamo aspettarci da qualcosa che sia «genuinamente artificiale», cioè il risultato di qualche modello che noi siamo persuasi possa sostituirsi accettabilmente all’esemplare naturale?

Una delle conseguenze più vistose della crescente artificializzazione della nostra cultura, la trasfigurazione degli esemplari naturali, è oggetto particolare, anche negli articoli che qui pubblichiamo, dell’analisi in questione.

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