
Nonostante le cassandre di turno e la ricerca da parte di certa stampa di un sensazionalismo malposto, anche il 2024 ha fatto registrare un deciso balzo in avanti nella corsa globale a decarbonizzare i processi produttivi.
Nelle ultime settimane si è parlato molto dello stato di salute del settore degli investimenti in tecnologie per la riduzione dell’impatto ambientale legato al settore industriale, anche in relazione ad alcuni eventi politici rilevanti (elezioni statunitensi, prossime elezioni tedesche). La verità è che nel mondo si contano a migliaia imprese e investitori fortemente concentrati a raggiungere un vantaggio competitivo difendibile e duraturo per offrire soluzioni innovative al mercato e per consentire ai propri clienti di godere di maggiori benefici a costi inferiori. Non si tratta di fantasie ingenue: già oggi, in molti ambiti esistono tecnologie che garantiscono un green-discount rispetto alle soluzioni legacy, proprio grazie al fatto di essere state ripensate completamente a partire da piattaforme tecnologiche innovative e a minor impatto ambientale. È il caso, ad esempio, delle pompe di calore, o dei pannelli fotovoltaici ad uso residenziale, oggi divenute lo standard nei settori di riferimento.
Per misurare un impatto tangibile, l’industrializzazione dell’innovazione è un passaggio critico: al fine di raggiungere una significativa riduzione dei costi, occorre conseguire una rapida crescita dei volumi di produzione e il raggiungimento di benefici di scala industriale. Questo tema è fin troppo banalizzato, o addirittura misconosciuto dalla grande stampa che intende occuparsi di climate-tech. Chi scrive (e la Firm che qui rappresenta) è convinto che la transizione energetica è una occasione unica non solamente per aumentare il livello di sostenibilità del nostro modo di produrre, spostarsi, consumare; è invece anche un’opportunità straordinaria per rendere più semplici ed economicamente sostenibili tali processi, grazie all’adozione di soluzioni creative e radicalmente nuove. In altri termini, se il prodotto o servizio nuovo non raggiungono la cost-parity rispetto agli standard tradizionali (spesso realizzati in forte dipendenza dalle fonti fossili), è difficile che si riesca a convincere i potenziali clienti al loro acquisto, a meno di benefici esorbitanti rispetto agli extra-costi da sostenere. Strategie che puntano a “diventare green e rimanere fuori mercato” non sono né particolarmente intelligenti, né fortemente attrattive. Peraltro, l’esperienza di molti operatori ha dimostrato che le persone e le aziende non sono disposte a pagare un premio per nuove “soluzioni ecologiche” solo perché “sono ecologiche”.
Il settore è dunque impegnato nel trovare soluzioni pragmatiche e a maggior valore in una pletora di applicazioni verticali. Al di là di quelle maggiormente note (es.: mobilità elettrica, accumuli e batterie, fonti rinnovabili…), ci sembra che, nel settore del climate-tech, l’anno che si è appena concluso abbia fatto emergere quasi come “mainstream” molti filoni di attività interessanti, tra i quali meritano un’attenzione particolare i due mondi seguenti, certamente indipendenti tra loro ma fortemente intrecciati, che continueranno ad attrarre nei prossimi anni investimenti significativi.
1. L’ascesa dei data center a basso impatto
I data center sono la spina dorsale del mondo digitale, ma sono anche grandi consumatori di energia. Le notevoli esigenze computazionali dell’IA inoltre aumenteranno velocemente il consumo energetico di queste strutture.
In risposta a queste nuove esigenze, i principali operatori del settore si stanno attrezzando per assicurarsi approvvigionamenti adeguati e, al contempo, accelerare l’adozione di tecnologie sostenibili per soddisfarle. Poiché i data center richiedono energia senza alcuna interruzione, i grandi committenti di queste infrastrutture sono in grado di impegnarsi in contratti di acquisto di energia sul lungo periodo, fungendo di fatto da offtaker esclusivi. Ne sono un esempio Google, che ha siglato accordi con Fervo, frontrunner globale nel settore della geotermia di nuova generazione, (Project Red in Nevada), e Amazon, che ha firmato un accordo con X-Energy per installare quattro piccoli reattori modulari da 80 MW presso la Columbia Generating Station di Washington.

CANVA / MIT TR IT
La corsa sembra essere partita su tutti i fronti: ECL, grande sviluppatore di data center, ha annunciato l’intenzione di costruire vicino a Houston un impianto da 8bn USD alimentato a idrogeno, con una capacità iniziale di 50 MW, che si espanderà a 1 GW, utilizzando celle a combustibile e stoccaggio a batteria. Parimenti, ExxonMobil ha recentemente dichiarato che l’intenzione di sviluppare una centrale elettrica alimentata a gas naturale da 1,5 GW con cattura del carbonio, progettata per esclusivamente per i data center.
Ai lettori (di solito molto competenti) di questa prestigiosa testata, può interessare l’aspetto portatore del tasso di innovazione certamente più elevato in questo ambito, e cioè le nuove tecnologie di raffreddamento di questi grandi impianti. I data center tradizionali fanno molto affidamento sui sistemi di condizionamento dell’aria, che consumano però grandi quantità di elettricità. I moderni data center utilizzano invece tecnologie di raffreddamento avanzate, come il raffreddamento per immersione in liquido dell’intero sistema o il raffreddamento della sola unità computazionale (“direct-to-chip”), dove si genera la stragrande quantità di energia da rimuovere per mantenere il sistema in efficienza. Questo approccio viene oggi sviluppato lungo 2 direttrici:
- Raffreddamento con liquido monofase: utilizza refrigerante a base d’acqua che rimane liquido mentre assorbe il calore. Economico e affidabile per carichi termici moderati, questo metodo è ideale per i data center che danno priorità all’accessibilità e alla semplicità, anche se può avere una capacità di trasferimento del calore inferiore e richiede la gestione dei potenziali rischi associati ai refrigeranti a base d’acqua.
- Raffreddamento con liquido bifase: utilizza fluidi che passano da stato liquido a vapore mentre assorbono calore. Questo cambiamento di fase aumenta notevolmente l’efficienza del trasferimento di calore, rendendolo una scelta eccellente per carichi di lavoro ad alta potenza come l’intelligenza artificiale e l’HPC. Sebbene questi fluidi possano essere più costosi in anticipo, offrono affidabilità a lungo termine evitando i rischi dei refrigeranti a base d’acqua e richiedono una manutenzione minima. È molto interessante sottolineare che tra le soluzioni più innovative in quest’ambito di frontiera si trovano tecnologie che affondano le radici nel settore nucleare, che da decenni si confronta con il problema della rimozione di enormi carichi termici con soluzioni ad alta efficienza: per citarne una, l’americana Ferveret (il cui cuore tecnologico è però italiano, grazie al ruolo decisivo di Matteo Bucci, CTO dell’azienda) ha raccolto finanza da un parterre prestigioso di VC statunitensi. E questo ci porta al secondo “big thing” del 2024.
2. Il nucleare di nuova generazione
Dopo lunghi decenni, sembra davvero che l’era di “ibernazione” del nucleare come elemento chiave del mix energetico di sistemi moderni e complessi sia definitivamente al suo termine.
Mentre Cina, India e Russia non hanno mai smesso di investire su questo settore (la prima ha 28 centrali in costruzione, la seconda 7, la terza 4 sul territorio domestico e 19 all’estero), molti paesi occidentali hanno preferito altre soluzioni, a causa degli elevati costi di costruzione di questi impianti e dell’abbondanza di alternative più economiche. Il vento è cambiato anche in Occidente. Le ragioni di questa ripartenza sono legate sostanzialmente a fattori ambientali (l’EU ha addirittura collocato il nucleare all’interno della propria tassonomia tra le fonti rinnovabili) e geopolitici, che tendono a rendere volatili prezzi e disponibilità di approvvigionamento dei combustibili fossili. In più, gli investimenti in R&D nel settore, mai del tutto sopiti anche in Europa e USA, hanno contribuito a far emergere la possibilità di portare sul mercato soluzioni innovative, caratterizzate da maggiori efficienze di conversione energetica e da più elevati livelli di sicurezza intrinseca.

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Solo negli ultimi mesi, si sono susseguite forti dichiarazioni programmatiche. L’amministrazione degli Stati Uniti intende triplicare la capacità di energia nucleare entro il 2050 e ad attivare 35 GW di nuova capacità in poco più di un decennio. Il Giappone lavora per raddoppiare la sua capacità nucleare entro il 2040, puntando a una quota del 20% nel suo mix energetico; il Vietnam ha ripreso i lavori sulla sua prima centrale nucleare a Ninh Thuan, segnale importante per tutta l’Asia. Il Regno Unito (e ovviamente la Francia) hanno ribadito il proprio impegno a favore del nucleare come parte essenziale della sua strategia energetica. Analoghe riflessioni sono in corso in Svizzera e in Italia.
Lo sviluppo tecnologico è febbrile. Nel campo della fissione, solo tra le startup, TerraPower (Bill Gates) ha iniziato la costruzione del suo primo impianto SMR nel Wyoming ad agosto. Oklo, che annovera tra i suoi sostenitori Sam Altman, intende realizzare diverse piccole centrali nucleari entro il 2030. In Europa è giustamente sugli scudi newcleo (sulla quale ha investito anche MITO Technology), che proprio in questi giorni ha siglato un accordo con Maire Tecnimont per la realizzazione di nuovi impianti, e un primo prototipo già nel 2026.
Anche nel campo della fusione si assiste ad una forte accelerazione. Qui, nel 2023, gli Stati Uniti hanno stanziato 1,4 miliardi di dollari; la Germania ha impegnato 1,1 miliardi di dollari entro il 2028; e il Regno Unito è pronto a investire 827 milioni di dollari entro il 2027. La regolamentazione si sta orientando in senso favorevole, con UK e USA che tratteranno i dispositivi di fusione come acceleratori di particelle invece che reattori a fissione, il che consente iter autorizzativi più snelli e veloci.
Anche qui, alcune startup stanno muovendo i primi passi verso la commercializzazione. Longview Fusion Energy negli USA ha annunciato un accordo con Fluor per il primo impianto pilota di fusione laser al mondo, con l’obiettivo di entrare in funzione all’inizio del 2030. L’annuncio segue quello dell’inizio del 2024 da parte di Type One Energy. Commonwealth Fusion Systems ha già raccolto 2bn USD. Si continuano a esplorare strade innovative, come impianti basati su specchi magnetici concavi (Novatron), o sistemi che sostengano la reazione di fusione in assenza di plasma (Acceleron).
L’Europa sta riflettendo sull’opportunità di costruire almeno un campione continentale. Fa piacere ricordare che due delle iniziative di maggior potenziale (Renaissance Fusion e ProximaFusion) sono guidate da brillantissimi founder italiani, impegnati nella realizzazione di progetti “stellarator” di nuova generazione.
Più aziende attive nel settore nucleare nascono, maggiori sono le chance di costruire catene di approvvigionamento più robuste e sviluppare tecnologie di supporto adeguate (nel campo dei materiali, dei magneti, dei superconduttori, dei metalli liquidi e così via). Sarà necessario attendere ancora probabilmente almeno un decennio per avere reattori industriali su scala e investire ancora molti capitali, ma la direzione è senz’altro tracciata.
Alberto Calvo è Partner e Managing Director di Mito Technology, la prima piattaforma di fondi di early-stage Venture Capital per la sostenibilità in Italia. In precedenza, è stato Senior Partner di Value Partners e ha lavorato presso il CERN di Ginevra. Laureato in Ingegneria Nucleare presso il Politecnico di Torino, ha conseguito un MBA presso la SDA Bocconi di Milano.