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    Verso Kyoto. Oltre Kyoto.

    Il recente annuncio da parte di Putin della volontà di ratificare entro fine anno, Duma permettendo, il Protocollo di Kyoto, lascia prevedere che finalmente il mondo avrà uno strumento molto importante per continuare a svilupparsi senza provocare eccessivi cambiamenti del clima. Il Protocollo, per diventare efficace, deve essere ratificato da paesi sviluppati che complessivamente siano responsabili per il 55 per cento delle emissioni totali dei gas a effetto serra. Con l’adesione della Russia, che rappresenta il 17 per cento, il quorum verrebbe raggiunto.

    Si tratta di un grande passo in avanti, però non ancora decisivo, perché la storia della lotta contro i cambiamenti del clima indotti dalle attività umane, anche se iniziata oramai da un quarto di secolo, non potrebbe certo considerarsi conclusa.

    L’applicazione del Protocollo di Kyoto va considerata solo come un primo pezzo di un lungo cammino, che può e deve avere successo e che per durata e complessità è paragonabile forse solo alle prime riunioni del 1946 in cui un gruppo di 23 paesi decisero di ridurre le tariffe che frenavano il commercio internazionale. Perché ci sono ancora difficoltà, resistenze di paesi importanti, primi tra tutti gli Stati Uniti, e di importanti settori industriali come quello energetico soprattutto americano, ma è chiaro che esistono anche soluzioni possibili ed efficaci sia dal punto di vista tecnologico che da quello economico e sociale. Quindi non si può essere solo pessimisti.

    Per rendersene conto basta scorrere in modo sommario la storia della lotta per ridurre l’impatto delle attività umane sul cambiamento climatico.

    Il momento in cui venne riconosciuta per la prima volta a livello ufficiale la gravità del problema del cambiamento climatico è stata la Prima Conferenza Mondiale sul Clima del 1979.

    In quella occasione la comunità scientifica aveva esplorato i modi in cui esisteva una interazione tra attività umane e cambiamento del clima e aveva chiamato i governi a prevedere e prevenire situazioni che avrebbero potuto essere catastrofiche per l’umanità. Aveva chiesto alla World Meteorological Organization (WMO), allo United Nations Environment Program (UNEP) e all’International Council of Scientific Unions (ICSU) di collaborare per avviare un World Climate Program.

    Tra il 1985 e il 1990 una lunga serie di conferenze importanti, in tutto il mondo, da Toronto all’Aia, dal Cairo a Bergen, cui hanno partecipato scienziati, politici e ambientalisti, ha contribuito a rafforzare l’evidenza scientifica di queste preoccupazioni e a sensibilizzare l’opinione pubblica.

    Nel 1990 l’International Panel on Climate Change (IPCC), istituito nel 1988 da UNEP e WMO, pubblicava il suo primo rapporto. IPCC aveva avuto il mandato di definire lo stato delle conoscenze esistenti sul clima e sull’impatto ambientale e socio-economico dei suoi mutamenti.

    Approvato dopo un lungo e faticoso processo di peer review (revisione da parte di esperti), il rapporto confermava con evidenza scientifica tutti i timori fino ad allora emersi e gettava le basi per la Convenzione sul Cambiamento di Clima.

    Nel dicembre 1990 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvava l’avvio di negoziati per arrivare a un accordo globale. Venne così convocata la Intergovernment Conference for a Framework Convention on Climate Change (INC/FCCC) che si riunì cinque volte tra il febbraio 1991 e il marzo 1992.

    Il protocollo di Kyoto, anche se sta richiedendo tempi lunghi per diventare vincolante, segna comunque un cammino fondamentale verso la salvaguardia dell’ambiente.

    Avendo davanti a sé un termine vincolante, giugno 1992, data del Summit sulla Terra di Rio, i negoziati di 154 paesi, più l’Unione Europea, vennero conclusi in soli 15 mesi e la Convenzione fu approvata a New York il 9 maggio 1992. La firma della United Nations Framework on Climate Change (UNFCC) ebbe luogo a Rio con la partecipazione del più grande numero di capi di stato della storia. La Convenzione entrò in forza il 21 marzo 1994, novanta giorni dopo che era stato raggiunto il cinquantesimo strumento di ratifica da parte dei governi dei paesi che l’avevano sottoscritta.

    INC, che nel frattempo aveva continuato a lavorare sugli aspetti economici degli impegni proposti e sui meccanismi tecnici e finanziari per venire incontro ai paesi in via di sviluppo, venne sciolta dopo la sua ultima sessione, la undicesima del febbraio 1995 con un trasferimento della autorità della Convenzione alla Conferenza delle Parti, COP. La Prima Conferenza delle Parti, COP1, ebbe luogo a Berlino dal 28 marzo al 7 aprile 1995, alla quale parteciparono 117 paesi e 53 stati «osservatori».

    In quella sede venne trovato un accordo sulla inadeguatezza degli impegni dei paesi in via di sviluppo e vennero lanciati i colloqui di Berlino per definirne di nuovi più stringenti. Il problema di imporre ai paesi in via di sviluppo regole assai più severe di quelle che i paesi oggi sviluppati avevano all’inizio della loro crescita resta assai critico e non può essere risolto senza una buona dose di incentivi e di aiuti.

    Sempre nel 1995, a dicembre, IPCC pubblicò il suo secondo rapporto in tempo per la COP2 prevista a Ginevra nel giugno 1996. Rivisto da più di 2000 scienziati, il secondo rapporto confermò le conclusioni del primo e in più confermò l’esistenza concreta di misure in grado di prevenire efficacemente i cambiamenti climatici.

    In questo contesto l’Unione Europea è stata una della forze trainanti dei negoziati per affrontare con misure vincolanti il problema del cambiamento climatico provocato dall’azione dell’uomo.

    Gli Stati Uniti invece sono sempre stati visti come un freno, anche se sotto la amministrazione Clinton si era osservato un atteggiamento più positivo che nel passato, malgrado la opposizione della maggioranza repubblicana al Senato e al Congresso dopo il 1994.

    Già nel 1990 la Commissione Europea aveva promosso una dichiarazione importante, anche se non vincolante, dei ministri dell’Energia e dell’Ambiente, che richiedeva agli stati membri di stabilizzare l’emissione totale di CO2 per l’anno 2000 ai livelli del 1990. Questo impegno aveva giocato un ruolo incisivo nei negoziati che avevano poi portato alla firma dell’UNFCCC.

    Al Consiglio per l’Ambiente del marzo 1997 i ministri dei paesi dell’Unione si erano accordati per impegnarsi a tagliare del 15 per cento le emissioni europee di tre gas rilevanti ai fini dell’effetto serra: biossido di carbonio (CO2), metano (CH4), e ossido di azoto (N2O), con un obiettivo intermedio di riduzione del 7,5 per cento nel 2005.

    Gli altri tre gas, idrofluorocarburi (HFC), perfluorocarburi (PFC) ed esafluoruro di zolfo (PFC), originariamente previsti nella proposta, erano stati invece esclusi.

    L’Unione Europea aveva poi anche raggiunto un accordo per la suddivisione degli oneri (burden sharing agreeement) che fissava dei limiti specifici per ciascuno degli stati membri negli anni successivi al 2000.

    Il burden sharing agreement copriva solo due terzi del 15 per cento convenuto per l’Unione Europea nel suo insieme ed era comunque dipendente da quali stati avrebbero poi sottoscritto l’accordo previsto a Kyoto nel dicembre 1997.

    Nel corso del 1997 l’Unione Europea aveva definito le linee guida del suo comportamento alla Conferenza di Kyoto in tre Consigli per l’Ambiente e approvato la Comunicazione della Commisione sul Cambiamento Climatico, vale a dire La Posizione Europea per Kyoto.

    L’obiettivo europeo era di adottare un Protocollo che contenesse da una parte specifici obiettivi di riduzione delle emissioni e dall’altra una serie di politiche e di azioni per raggiungerli. Inizialmente erano previste le riduzioni di emissione solo dei primi tre gas, i più critici da affrontare; era comunque intenzione dell’Europa inserire gli altri tre entro il 2000 con obiettivi separati.

    Oltre a ciò doveva essere previsto che la riduzione potesse essere raggiunta dalla Unione nel suo insieme (il concetto della «bolla») permettendo una definizione di ripartizione delle emissioni tra gli stati membri.

    Gli Stati Uniti, anche in questa fase di negoziati preparatori del Protocollo di Kyoto, sono stati uno dei maggiori oppositori dell’Europa e hanno anche cercato, con solo parziale successo, di mettersi a capo di un gruppo informale detto JUSSCNNZ (Giappone, US, Svizzera, Canada, Norvegia, Nuova Zelanda); successo solo parziale perché poi soprattutto Giappone e Canada divennero sostenitori come l’Unione Europea di un Protocollo forte e vincolante. Il presidente Clinton aveva annunciato la posizione americana per il Protocollo di Kyoto nell’ottobre del 1997, proponendo un ritorno dei livelli di emissione dei sei gas a livello 1990, per il periodo 2008-2012, per iniziare una riduzione solo successivamente. Domandava inoltre l’inclusione di misure di joint implementation, con partecipazione significativa dei paesi in via di sviluppo e sosteneva la necessità di avviare contemporaneamente le procedure di emission trading, (ovvero la possibilità di chi era in grado di scendere sotto i livelli di emissione previsti di «vendere» le sue quote a chi invece non era stato in grado di farlo). Con l’emission trading inquinare di meno diventa un affare e inquinare di più diventa un costo.

    Il Protocollo venne negoziato alla Terza Conferenza delle Parti (COP3) che si tenne a Kyoto tra 1 e 10 di dicembre del 1997. Esso contiene obiettivi vincolanti per la riduzione delle emissioni dei gas a effetto serra emessi dai paesi sviluppati per un primo periodo di impegno 2008-2012.

    Il risultato ha finito per essere assai più vicino alla posizione americana che a quella europea dato che:

    – il totale delle emissioni riguarda non solo i tre gas proposti dall’Europa, ma tutti e sei i gas a effetto serra, includendo pertanto i fluorocarburi già in fase di diminuzione senza bisogno di ulteriori misure;

    – si è convenuto di inserire nei conteggi come elemento riduttivo delle emissioni anche i gas a effetto serra trattenuti nei cosiddetti «pozzi», quali per esempio le foreste, concetto avversato dall’Europa e sostenuto dagli Stati Uniti;

    – gli obiettivi di riduzione sono stati fissati a una via di mezzo tra quelle proposte dagli americani e dagli europei e per un periodo 2008-2012 con un margine di tolleranza del 5 per cento;

    – anziché definire un obiettivo intermedio per il 2005 il Protocollo richiede semplicemente che al 2005 vi sia un progresso dimostrabile.

    – l’insistenza europea per la adozione di politiche vincolanti dal punto di vista legale non ha fatto strada durante i negoziati.

    Sono stati invece inseriti su richiesta americana i meccanismi della joint implementation e dell’emission trading. L’Europa è riuscita a inserire nel Protocollo il Burden Sharing Agreement che permette ai paesi membri dell’Unione di raggiungere il suo obiettivo di riduzione di 8 per cento nel loro complesso.

    A Kyoto non vi era stato tempo sufficiente per completare i dettagli di come il Protocollo avrebbe dovuto in pratica operare; si tenne quindi una COP4 a Buenos Aires tra il 2 e il 13 novembre 19ò alla fine della quale si trovò un accordo su un piano di azione di due anni per completare il Protocollo; tale piano di azione rappresentò la base della agenda della COP5 che si tenne a Bonn tra il 15 di ottobre e il 5 novembre del 1999.

    I principi politici del Protocollo vennero definiti nei loro dettagli alla seconda sessione della COP6 tra il 16 ed il 27 luglio dell 2001 sempre a Bonn, dopo che la prima sessione tra il 6 e il 25 novembre del 2000 non era stata in grado di risolvere tutti i problemi.

    L’accordo di Bonn definisce le regole per tener conto delle riduzioni di emissioni derivanti dai «pozzi», il regime di attuazione e un pacchetto di aiuti finanziari e tecnologici per sostenere lo sforzo dei paesi in via di sviluppo a partecipare alla azione globale sul cambiamento climatico.

    Il lavoro di traduzione degli accordi di Bonn in testi legali sono stati poi completati alla COP7 di Marrakesh in Marocco tra il 29 ottobre e il 9 novembre 2001.

    Il Protocollo era allora pronto per essere applicato, ma la nuova amministrazione Bush decise di non aderire e denunciare gli accordi presi, mettendo seriamente in crisi la possibilità che il Protocollo diventasse uno strumento vincolante a livello internazionale dato il loro peso del 25 per cento delle emissioni globali.

    Nel frattempo, all’inizio del 1991 il terzo rapporto dell’IPCC arrivava alla conclusione che era oramai senza dubbio evidente il pesante impatto delle attività dell’uomo sul cambiamento del clima e forniva uno scenario estremamente dettagliato di come il riscaldamento globale avrebbe influenzato le diverse regioni del mondo.

    Veniva chiaramente denunciato il fatto che in un secolo la concentrazione di CO2 nell’atmosfera era passata da 280 parti per milione a 370 e che la combustione di combustibili fossili era responsabile dei due terzi di questo aumento mentre l’altro terzo derivava dalla deforestazione e che, se le misure possibili non fossero state prese, la concentrazione di CO2 sarebbe salita a 450-550 parti per milione entro il 2050 con un aumento della temperatura terrestre tra 0,5 e 2,5 gradi Celsius.

    Si metteva anche in evidenza l’esistenza di un certo numero di misure efficaci anche dal punto di vista economico per prevenire questi fenomeni; si indicava inoltre la necessità di sostanziali correzioni del comportamento delle istituzioni e del business perché tali soluzioni potessero sviluppare il loro potenziale.

    La COP8 di Delhi e la COP9 di Milano hanno stabilito le regole riguardanti l’uso del territorio e delle foreste e hanno fatto progressi nella applicazione degli accordi di Marrakesh.

    La COP10 che si terrà nel dicembre 2004 a Buenos Aires celebrerà il decimo anniversario della UNFCCC.

    Sarebbe un grande successo dell’Europa, che ha fatto continue pressioni sulla Russia perché desse la sua ratifica determinante, se in quella sede si potesse annunciare che Kyoto è divenuto vincolante in piena forza.

    In questo contesto è necessario agire ora con una accelerazione degli interventi sia di breve che di lungo termine.

    Fanno parte del breve termine le limitazioni delle emissioni nei limiti del possibile, come previsto dal Protocollo di Kyoto, pur continuando a dipendere dai combustibili fossili, petrolio per primo, come il realismo richiede.

    Sono a lungo termine tutti quei progetti che tendono a sostituire il petrolio come fonte energetica primaria e di questi il primo in lista è quello dell’utilizzo dell’idrogeno come vettore energetico.

    Su questo punto sono partite importanti iniziative di cooperazione internazionale attorno ai tre protagonisti «tecnologici» più importanti: Europea, Stati Uniti e Giappone con visioni però ancora una volta sostanzialmente diverse.

    Europa e Giappone sono orientati a privilegiare scenari in cui la fonte energetica da cui ricavare l’idrogeno siano le energie rinnovabili quali sole, vento, biomasse.

    Gli Stati Uniti sono invece più propensi a utilizzare il carbone, applicando però tecniche, tutte ancora da sviluppare, (dette CO2 sequestration) di raccolta e stoccaggio della CO2 generata dal processo di produzione dell’idrogeno, per evitarne l’emissione nell’atmosfera.

    Per tutti il nucleare resta interessante, ma ancora è da vedere la sua completa accettazione.

    Visioni strategiche diverse; diversa la scala dei loro tempi. Più lunghi quelli delle energie rinnovabili che portano però a soluzioni definitive; forse più brevi quelle del carbone che però lascia aperti ancora molti problemi ambientali.

    Il mondo ambientalista americano accusa l’amministrazione Bush di spingere per il progetto di CO2 sequestration solo per dare un futuro all’industria del carbone, ma anche la ricerca europea d’altra parte teme i tempi lunghi delle energie rinnovabili e non trascura questa opzione. Non si lasciano vie inesplorate in questo campo.

    Al di là dell’impatto sicuramente positivo del formale avvio delle misure previste dal Protocollo vi sono però altri elementi che dovrebbero portare, pur con lo sguardo a tempi lunghi, a un certo ottimismo.

    Primo: oramai è chiaro che abbiamo raggiunto, anche se ancora imperfetto, un livello di conoscenza abbastanza alto delle sfide e delle incertezze del problema del cambiamento del clima, così come dei tempi lunghi necessari a ottenere risultati.

    Secondo: molti paesi e molte aziende hanno oramai potuto sperimentare direttamente che le riduzioni delle emissioni non solo è economicamente possibile e non distrugge posti di lavoro, ma può perfino essere un fattore di incremento delle efficienze produttive. Molte società importanti sono uscite dalla Global Climate Coalition che aveva fatto forti pressioni su Washington perché gli Sati Uniti non ratificassero Kyoto. Tra le prime Shell e BP (non a caso europei) poi Ford, Dupont, Daimler Chrysler, Texaco, General Motors. Alcune di loro hanno addirittura aderito al Business Environmental Leadership Council secondo cui: «vi è oramai sufficiente evidenza scientifica sull’impatto ambientale del cambiamento di clima generato dall’uomo per preoccuparsene e prendere le opportune contromisure». La prima conseguenza positiva è che, come dimostrano Shell, Bp e Texaco, si comincia a guardare alla produzione di energia tenendo conto del suo «impatto sul cambiamento climatico».

    Terzo: scienza e tecnologia hanno fatto molti progressi su molti fronti, da quello della produzione energetica con sorgenti a livello di emissione zero di gas a effetto serra fino all’utilizzo di vettori di energia sostitutivi del petrolio.

    Quarto: si è oramai diffusa una coscienza pubblica del problema del cambiamento del clima non solo nei paesi sviluppati ma anche in quelli in via di sviluppo.

    Quinto: grandi paesi, quali India e Cina, che si affacciano con popolazioni gigantesche a consumi energetici significativi, intendono partecipare attivamente al processo di ricerca e sviluppo. Si rendono conto che si apre loro la possibilità di saltare (leapfrog) il lungo periodo di dipendenza dal petrolio che ha fatto del mondo oggi sviluppato non solo il «grande inquinatore», ma anche il «grande, tragicamente dipendente» da aree del mondo assai critiche quali il Medio Oriente.

    Guardiamo assieme tutti questi fatti e in più consideriamo che nel 2003 si è aperto a Chicago il primo emission exchange, che all’inizio del 2005 partirà in Europa il sistema più ampio e avanzato di emission trading, che le maggiori case automobilistiche del mondo stanno studiando auto ibride per ridurre drasticamente i consumi o, per il futuro, auto con celle a combustibile per utilizzare idrogeno.

    Ci rendiamo allora conto che Kyoto, anche se sta richiedendo tempi apparentemente troppo lunghi per diventare vincolante, ha comunque segnato un cammino fondamentale. Un cammino lungo il quale, se si continua a premere nella giusta direzione come ha fatto fino a ora l’Unione Europea, si può sperare di essere, presto e comunque, «oltre Kyoto».

    Alessandro Ovi è direttore di «Technology Review», edizione italiana.

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