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La tecnologia dell’artificiale, o dei naturoidi, tende a rendere obsoleto il vecchio concetto di «uso» della tecnologia e degli artefatti, strumenti, macchine che essa crea. Al suo posto, soprattutto quando si tratti di sostituti artificiali di entità che, in natura, sono capaci di autonomia, il concetto di «relazione» sembra essere più adeguato.

di Massimo Negrotti

I rapporti fra uomo e macchina sono notoriamente uno dei temi più ricorrenti nel dibattito e nella ricerca contemporanei. Tuttavia, se esaminiamo la questione sostituendo al termine «uomo» quello di «utente» e al termine «macchina» quello di «naturoide», scopriamo una serie di aspetti inattesi. Infatti, se per naturoide intendiamo l’insieme degli artefatti o macchine destinate a riprodurre esemplari naturali (ho introdotto il termine naturoidi, sostituendolo al più generico «artificiale», per indicare questi oggetti in «Technology Review», n. 5/1998) allora il suo rapporto con la figura dell’utente, in quanto essere osservato mentre usa qualcosa, assume una fisionomia piuttosto paradossale.

La cosa è già evidente considerando gli automatismi. è intuibile che l’affermazione «io uso la porta automatica» contiene qualcosa di contraddittorio poiché, se un artefatto è automatico, per definizione non necessita di interventi d’uso da parte dell’utente, ossia di un repertorio più o meno ampio e complesso di azioni e verifiche da effettuare nell’interazione con l’artefatto o la macchina. Quando, per uscire da un luogo, decidiamo di evitare la porta tradizionale, che implica effettivamente l’uso di qualche artefatto, come la maniglia o un pulsante, preferendovi la porta automatica, noi cessiamo di essere utenti per diventare, quanto meno, fruitori. In questi casi dovremmo semplicemente dire di «essere passati» da una porta automatica e non, rigorosamente, di averla «usata». Insomma, da un lato noi usiamo le macchine mentre, dall’altro, usufruiamo degli automatismi.

Sul piano degli oggetti naturali tutto ciò è più che mai evidente (chi affermerebbe di essere utente del proprio cuore o di un temporale, dell’amicizia o di un tramonto?). Sul piano dei naturoidi l’improprietà di cui stiamo parlando emerge in altra forma ma, a una attenta analisi, in modo altrettanto chiaro. Infatti, poiché un naturoide è, genericamente, per metà natura e per metà macchina, l’impiego del termine utente piuttosto che del termine fruitore indica la nostra inclinazione a ritenere di caso in caso un dispositivo artificiale, o naturoide, più vicino alla tecnologia che alla natura, o viceversa. 

Ovviamente la discussione non investe una pura e semplice questione linguistica. Si tratta invece di capire come, grazie alle citate incongruenze apparentemente solo linguistiche, si possa scoprire più da vicino tutta la serie di novità che le tecnologie avanzate, e quelle dei naturoidi in special modo, stanno proponendo nelle nostre relazioni con l’ambiente tecnico. 

SI PUò «USARE» UN ROBOT?

Il punto cruciale consiste nel grado di autonomia che siamo disposti ad attribuire, in via concettuale o di fatto, a un naturoide. Per questo, l’impiego del verbo «usare» nei riguardi di un trapano, che non è un naturoide, appare del tutto congruo mentre non è arduo avvertire qualche inadeguatezza nell’adottare lo stesso verbo nei riguardi di un robot, soprattutto se si trattasse di un dispositivo altamente flessibile, capace di attività di autoregolazione di alto livello e magari antropomorfo. Si può infatti affermare, dotando l’affermazione di senso compiuto, «fra un attimo io userò un robot»? In altre parole, con un robot del tipo accennato, ma la cosa può facilmente essere estesa a quasi tutti i naturoidi, di fatto si «entra in relazione». 

A ben vedere, questa realtà è già presente in molte attività umane, anche le più semplici e antiche, che abbiano al loro centro oggetti o eventi ispirati dalla natura: nessuna bambina direbbe che sta usando la propria bambola, bensì che sta giocando con lei così come nessuno si direbbe utente di un dipinto che riproducesse un paesaggio e, del resto, nemmeno del paesaggio reale. 

Più in generale, si può sostenere che per avvertire la congruità dell’espressione «usare», l’uomo ha bisogno, pregiudizialmente, di avvertire l’assenza, nell’oggetto in questione, di qualsiasi ordine o tipo di autonomia (o addirittura di autopoiesi). Quando, al contrario, nell’oggetto appare qualche forma di autonomia, o, per qualche ragione, si è inclini a riconoscerne la presenza (come nel caso della bambola, ma anche di molte forme di totemismo, animismo, magia eccetera), allora si percepisce l’instaurarsi di una relazione, ossia di un rapporto grazie al quale, ceteris paribus, non è affatto chiara fin dall’inizio la possibile evoluzione del sistema di cui si entra a far parte. In effetti, mentre un sistema uomo-macchina tradizionale può largamente definirsi come determinato e, comunque, si costituisce su una coppia master-slave univoca, un sistema costituito da un essere umano e un naturoide sufficientemente evoluto si presenta come una relazione aperta e incerta, dove i ruoli di master e slave possono scambiarsi con una certa frequenza, fino a generare fenomeni ricorsivi o di riflessività senza chiari e predeterminabili punti di convergenza o di equilibrio stabile.

L’AUTONOMIA DEI NATUROIDI E IL SUO RICONOSCIMENTO

Aldilà della questione linguistica, è allora rilevante il profilo antropologico, poiché, non esistendo alcuna misura oggettiva dell’autonomia (che non va confusa con i «gradi di libertà) di una macchina o, meglio, di un naturoide, la percezione della relazione che si sta instaurando dipenderà largamente dall’attitudine della cultura di cui facciamo parte a fissare più o meno «in alto» la soglia aldilà della quale si è disposti a riconoscere autonomia a qualsiasi entità esterna a noi.

Per esempio, nonostante la progressiva e vistosa evoluzione dei personal computer verso architetture in grado di autoregolazioni anche molto complesse, sia hardware sia software, noi tutti stentiamo ad abbandonare l’idea che, in fondo, si tratti di una mera macchina da «usare». D’altra parte, numerose macchine governate da uno o più computer, offrono situazioni di relazione che, di fatto, vengono percepite come tali e non come semplici circostanze d’uso. Basti pensare a certi giochi al computer particolarmente raffinati e potenti – di cui Big Blue è stata una delle massime espressioni – oppure a certi dispositivi di analisi medica avanzata dai quali attendiamo responsi diagnostici altrimenti non perseguibili. 

Passando poi dal mondo dei naturoidi basati sul computer ad altri ambiti, come la bioingegneria, si può osservare che la propensione a percepire la relazione piuttosto che l’uso nei loro confronti, aumenta notevolmente. Tutta la fenomenologia che attiene all’ambito degli arti artificiali, per esempio, genera presumibilmente nei portatori di tali dispositivi effetti ben diversi da quelli generati da un utensile tradizionale nella personalità di chi lo usa. Nel caso degli arti, o degli organi, artificiali, la relazione non solo è colta pienamente come tale, ma può giungere a produrre forti propensioni e sensazioni di appropriazione o assimilazione organica: l’arto, insomma, che diviene parte di noi a ogni effetto. In tali circostanze, emerge dunque la forma più elevata di attribuzione di dignità a classi di oggetti altrimenti percepiti come puramente strumentali ed esterni o estranei al nostro io. 

Un caso ulteriormente interessante e che andrebbe studiato più a fondo di quanto non si possa fare in questa breve nota, è poi quello di uno speciale tipo di sistemi human-in-the-loop nei quali alla macchina naturoide si cerca di conferire la capacità di adattarsi al comportamento dell’essere umano con cui è in relazione.

In una simile circostanza l’autonomia del naturoide (di valutazione e regolazione) è tutta orientata al tentativo costante di assecondare le azioni dell’uomo, ma, come è stato osservato, anche l’uomo, nei limiti in cui intuisce o conosce esplicitamente il ruolo adattivo del dispositivo con cui è in relazione, tende ad adattarvisi. Tutto ciò innesca una situazione potenzialmente riflessiva i cui esiti possono presentarsi in termini imprevedibili. L’adattamento di cui stiamo parlando, infatti, generalmente si attua, sia da parte dell’essere umano sia da parte del naturoide, principalmente attraverso euristiche predittive. Il dispositivo, sulla base dell’esperienza accumulata fino a quel momento nella relazione, prevede che l’uomo richiederà una certa prestazione e, dunque, la predispone. Tuttavia, anche l’uomo tenderà a effettuare le proprie previsioni sul comportamento del dispositivo – includendovi le probabili risposte adattive di quest’ultimo – e predisporrà le proprie azioni di conseguenza. Queste, a loro volta, entreranno a far parte della base di esperienza del dispositivo, innescando così un processo riflessivo, o di petitio principii, che richiama, fra l’altro, la logica dei paradossi. In mancanza di momenti di passività da parte dell’uno o dell’altro polo della relazione, cioè del naturoide – grazie ai quali il sistema potrebbe convergere verso una soluzione stabile – si potrebbe istituire una forma di oscillazione permanente. 

Non va però dimenticato che una simile situazione di paralisi del sistema è possibile solo sul piano puramente formale poiché, nella realtà, non sussistono mai identità paralizzanti come quelle immaginate dall’asino di Buridano. Ciò non significa, d’altra parte, che la maggiore inclinazione alla passività sia sempre e necessariamente solo dalla parte del naturoide. Quale sistema organico e psicologico, l’essere umano, nonostante la sua formidabile robustezza derivante dalla lunga evoluzione della specie, è comunque più labile e incline a vari ordini di crisi di quanto non lo siano le macchine. A meno di pensare a generazioni di macchine, o di naturoidi, le quali, avendo superato il mero livello delle trivial machines di cui parla Von Foerster, siano a loro volta esposte al rischio di involuzioni in tema di identità e, di conseguenza, disponibili a mutamenti più o meno graduali nei propri criteri di valutazione, di controllo e di autocontrollo.

Simili circostanze non del tutto inimmaginabili, sarebbero caratterizzate dall’occasionale tendenza verso il basso della volontà di controllo da parte dell’essere umano e, contemporaneamente, dalla tendenza verso l’alto dell’iniziativa artificiale del naturoide. A questo punto, la cosiddetta «simbiosi uomo-macchina» (già chiaramente preannunciata dalla stessa cultura giapponese in termini di kyousei) perverrebbe a un suo momento critico, o catastrofico, dalla cui soluzione il sistema uomo-macchina – o, su un piano collettivo, il sistema cultura-tecnologia – risulterebbe davvero trasfigurato. Il sistema, in quanto tale, sopravviverebbe, ma l’individuazione del ruolo di utente, o di master, potrebbe presentare qualche difficoltà rispetto alla relazione d’uso nei suoi termini antropocentrici classici.