La riflessione sulla funzione come volano dell’innovazione e garanziadi futuro
di Mario Morcellini
Nel “frullatore” del dibattito sull’università c’è un bel luogo comune in cui si incrociano vaghe aspirazioni alla modernità e molte soggezioni alle idee correnti: è il nodo dei rapporti fra l’università e il mondo esterno, che trova un punto di concretizzazione nelle risonanze tra formazione universitaria e lavoro. C’è il rischio che anche qui si crei una nuova retorica. Per evitarla, ci sono due sole strade: rifuggire dai luoghi comuni e dare conto di idee e iniziative che si qualificano come esperienze virtuose.
Non c’è dubbio che la disoccupazione e la precarietà del lavoro siano oggi fra i più gravi problemi che affliggono il nostro paese, come tornano a ricordare ormai quotidianamente le più autorevoli fonti nazionali e internazionali (prime fra tutte, Eurostat, OECD e ISTAT). Una questione che riguarda soprattutto le giovani generazioni e sempre più i laureati, ovvero quanti hanno deciso di investire il proprio futuro nella formazione.
Da una parte, i dati tornano a sottolineare un ruolo positivo della formazione e del cosiddetto life-long learning nel garantire migliori opportunità occupazionali e retributive ai laureati; dall’altra, il confronto internazionale richiama l’allarme su una generazione che rischia di trovarsi tradita (come ha scritto recentemente Pierluigi Celli) soprattutto dalla debole capacità di assorbimento dei laureati da parte del mercato del lavoro italiano, notoriamente polverizzato in un tessuto di piccole e piccolissime imprese (UnionCamere-Ministero del Lavoro, 2009). E soprattutto non può non colpire il dato che afferma un drammatico calo dell’occupazione fra i laureati, addirittura dal 51,9 per cento del 2007 al 39,1 per cento del 2009 (ISTAT). Pare dunque legittimo chiedersi se l’Italia sia un paese per giovani: una domanda, non a caso, risuonata in occasione della presentazione dell’ultimo Rapporto sulla condizione occupazionale dei laureati di Alma Laurea, che ha confermato un sensibile aumento della disoccupazione fra i laureati sia triennali sia magistrali.
Non a caso, ai rapporti tra Università, lavoro e futuro abbiamo scelto di dedicare il secondo numero di una nuova collana di tascabili sulla cultura dell’università, promossa dal Dipartimento di Comunicazione e Ricerca sociale della Sapienza per l’editore Logo Fausto Lupetti (1) a partire da un’ormai distintiva tradizione scientifica e di ricerca sui temi dell’innovazione e del riformismo universitario. Grazie anche al patrocinio della Direzione generale per l’Università del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (MIUR), la pluralità di linee di indagine sviluppate negli anni – di cui spesso ci siamo trovati a dar conto anche nei fascicoli di questa rivista – ha potuto essere “messa a sistema” entro un articolato progetto di ricerca-intervento e, in questi mesi, nell’idea dei volumi Minimum Universitas.
L’indagine nazionale presentata nel volume si concentra sull’approfondimento di una fra le più appassionanti questioni aperte del riformismo contemporaneo: il cambiamento del nesso strategico formazione/lavoro, visto con gli occhi di studenti e laureati. Di fatto, i risultati testimoniano che la rivendicazione di un più organico legame fra università e mondo del lavoro pare oggi letteralmente infiammare l’orizzonte di attese di studenti e laureati. Numerose restano tuttavia le contraddizioni irrisolte, destinate ad acuirsi in tempi di crisi economica e presunta “fine” del lavoro, e comunque di profondo cambiamento dell’esperienza professionale che attende i giovani.
Obiettivo centrale dell’indagine, quello di approfondire criticità e cambiamenti positivi indotti dalla riforma didattica nota come “3+2” in riferimento all’evoluzione del binomio formazione-lavoro. Un legame potenzialmente virtuoso, quest’ultimo, che – già al centro dei principi ispiratori del Processo di Bologna e della sua applicazione nel contesto italiano – si impone oggi come una dimensione decisiva della reputazione dell’università, della fiducia nella sua capacità di costruire futuro formativo e professionale per le diverse categorie di interlocutori e “portatori di interesse”: primi fra tutti studenti e laureati, ma anche famiglie, territorio, istituzioni e mondo produttivo.
Come noto, il ridisegno degli ordinamenti promosso alla fine degli anni Novanta con il D.M. 509/1999 ha innescato cambiamenti che, lungi dall’essersi stabilizzati, configurano la didattica universitaria come vero e proprio “cantiere aperto”. Al di là dei limiti e dello stress organizzativo, l’introduzione del sistema a due cicli è stata decisiva nell’abbassare le barriere all’entrata degli studi per giovani e adulti, funzionando da “moltiplicatore” della domanda e delle aspettative sociali nei confronti dell’università: tutto ciò anche nella prospettiva di facilitare il raggiungimento di un primo traguardo formativo con il triennio, in un contesto – quale quello italiano – tradizionalmente caratterizzato da tassi elevatissimi di fuori corso e da un’incidenza di laureati sulla popolazione fra le meno incoraggianti in Europa.
A ciò si sono aggiunte nuove norme che, intervenendo sulle regole del mercato del lavoro, hanno accelerato l’aggiornamento della mission universitaria in riferimento a questi temi. Come noto, la legge 30/2003 (più nota come “Legge Biagi”) ha infatti affidato agli atenei compiti specifici nel sostenere i laureati nell’inserimento professionale, mediante il consolidamento della piattaforma formazione-lavoro e delle opportunità professionali e di tirocinio.
Ma soprattutto, occorre ricordare che gli ordinamenti universitari hanno intrapreso una decisiva razionalizzazione e messa a punto dall’anno accademico 2008-09. Il percorso così avviato è significativo anche in relazione al tema dell’iniziazione al lavoro: il potenziamento di stage e tirocini curriculari, come pure delle esperienze professionalizzanti e di accompagnamento al lavoro, ha infatti puntato a ribadire nell’università il principio di una continuità dichiarata con il mondo delle imprese e delle professioni, già al cuore della riforma del 1999.
Molte restano, al tempo stesso, le contraddizioni che complicano il bilancio sui primi dieci anni della riforma dei due cicli universitari. Come noto, all’iniziale “bolla riformistica” ha fatto seguito dal 2005 una fase decisamente meno effervescente: esaurita l’iniziale spinta propulsiva sulle iscrizioni e sui laureati, nel medio periodo sono infatti prevalsi elementi di controtendenza e, forse, persino di generale indebolimento della fiducia nella tradizionale capacità della formazione universitaria di funzionare da decisivo “ascensore sociale” per giovani e meno giovani, innalzando la mobilità economica e di status dei laureati e delle loro famiglie.
Non c’è dubbio, allora, che le aspettative di studenti e laureati meritino di essere esplorate in profondità e continuativamente nel tempo, per tradursi in un nuovo e più efficace stile di interazione con le cosiddette “parti sociali” dell’università: ovvero le imprese e le istituzioni destinatarie del capitale umano dei laureati. Questa avvertenza appare tanto più decisiva oggi, nel secondo tempo della riforma inaugurato dal D.M. 270/2004: un percorso con il quale, di fatto, gli atenei hanno concretamente iniziato a porre rimedio alle principali disfunzioni applicative del modello 3+2, tentando di valorizzare a un tempo gli innegabili punti di forza e potenzialità dell’architettura formativa a due cicli.
Di fatto, in un tempo scosso dalla “tempesta” di un cambiamento senza posa, oggi soprattutto i giovani rischiano di diventare più facilmente vittime che protagonisti dell’innovazione. Ma c’è già troppa precarietà nell’aria di questa società per infliggere flessibilità compulsiva anche al tempo degli studi. Se gli atenei hanno già investito molto sul confronto con il mondo produttivo, non c’è dubbio che moltissimo resti da fare. E tutto ciò non in nome di un semplicistico asservimento della formazione universitaria alle richieste del mercato del lavoro, che pure alcuni sembrerebbero invocare; bensì nell’imperativo di potenziare la didattica e i servizi, la loro qualità e trasparenza, le reti di dialogo con il territorio e i “portatori di interesse” a monte e a valle della progettazione formativa.
Di fatto, il modello di sviluppo che urge all’università è oggi quello che sappia dotarsi di protocolli di condivisione del cambiamento, rilanciando la fiducia nell’intramontabile valore di futuro insito nell’università. Un valore che passa, anche e soprattutto, attraverso la sua capacità di coltivare nel dibattito pubblico e politico nuove e più “sostenibili” culture del lavoro per i tanti giovani, e per le loro famiglie, che scelgono di investire il proprio futuro nella formazione. Insieme alla ricerca, quest’ultima costituisce una decisiva risorsa anti-ciclica e di innovazione: l'”inchiostro” vivo con il quale – al di là delle affermazioni solo retoriche – si scrive il domani dei giovani e del sistema paese.
Giovani e università: un dialogo da innovare?
Rita Santarelli,
Vicepresidente dell’Università Luiss “Guido Carli” di Roma
Il ruolo dell’università si è fatto molto più complesso che nel passato. Accanto alla duplice “missione” storica degli atenei, sedi della ricerca scientifica e dell’educazione del capitale umano qualificato, oggi il sistema dell’alta formazione non può fare a meno di assolvere una terza funzione strategica: garantire un collegamento con il mondo esterno, ivi incluso l’accompagnamento dei giovani verso il futuro professionale. è chiamata a parlare, da un lato, al territorio nel quale è inserita e, dall’altra, allo scenario internazionale, con il quale non può esimersi dal confrontarsi.
In riferimento al legame fra mondo del lavoro e università, la situazione italiana resta variegata e senza dubbio controversa. Vi sono atenei che investono con convinzione sia nell’orientamento in ingresso, d’intesa con la scuola superiore, sia nell’accompagnamento al lavoro, durante e dopo gli studi. Numerose esperienze formative colloquiano fecondamente con il mondo produttivo e i risultati si vedono. Laddove l’università non si ponga il problema del collegamento con il mondo del lavoro, siamo di fronte a istituzioni “autoreferenziali” che, di fatto, rinunciano a cogliere le sfide di una società che cambia: quando questo accade, i giovani e le loro famiglie sono esposti a uno scenario poco trasparente e che rischia di condurre a scelte sbagliate.
L’XI Rapporto sulla condizione occupazionale dei laureati di Alma Laurea ha evidenziato come la crisi del mondo del lavoro e della sua capacità di assorbire chi esce dal sistema formativo rischi oggi di penalizzare anche “la generazione più giovane, migliore, più preparata”. La questione dell’accesso alle professioni interroga tanto il sistema economico, politico, sociale, quanto il ruolo dell’università, chiamata alla responsabilità di colmare una perdurante asimmetria informativa del mercato nei confronti del capitale di conoscenza e competenza dei laureati (anche triennali), coltivando una continua “manutenzione” delle relazioni con il mondo del lavoro e delle professioni.
Occorre sottolineare quanto il rapporto fra impresa e università resti in Italia meno moderno che in altri paesi. Questo dipende anche dalla peculiare conformazione di un sistema produttivo polverizzato, in larga parte, in un tessuto di piccole e piccolissime imprese. Non a caso, laddove l’impresa è grande e strutturata, il dialogo c’è: è forte, è paritario, è di collaborazione, perché la grande azienda possiede la cultura e le risorse necessarie per l’interscambio con gli atenei.
Volendo pensare al futuro dell’università, credo dunque si debba progettare un centro di elaborazione culturale di livello internazionale, ma anche di profondo radicamento nel tessuto e nelle strutture del territorio. Affinché l’università, di fatto, continui a contribuire all’innovazione e al rinnovamento della classe dirigente di questo paese, anticipando le sfide locali e globali del nostro tempo.