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    Un’America che sta cambiando

    di Alessandro Ovi

    L’iPad: rivoluzione o controrivoluzione?

    L’iPad, il nuovo tablet computer di Apple, è in vendita negli Stati Uniti dal 3 aprile. Entro maggio lo sarà in tutto il mondo. Steve Jobs lo ha definito «uno strumento magico e rivoluzionario». In effetti, lo hanno comperato in tantissimi, a centinaia di migliaia fino dal primo giorno in cui è stato messo in vendita. E si è iniziato a discutere se Jobs avesse ragione o no.

    Su tutti i giornali americani e non (anche nei paesi dove iPad non è stato ancora messo in vendita), su tutti i blog dedicati al settore sono comparse opinioni del tipo: Lap Top killer? Ci siamo molto vicini… («Wall Street Journal»), Verdetto su iPad: è un vincitore («USA Today»), oppure La preoccupante controrivoluzione dell’iPad («Financial Times»).

    Il primo punto è provare che l’iPad abbia le caratteristiche per rimpiazzare veramente lap top e net book nelle applicazioni più comuni. Può non essere facile, perché nel passato altri tablet computers non sono riusciti ad avere successo (HP, Microsoft…) e perché all’iPad mancano una tastiera reale, una webcam, porte USB, che gli utenti dei lap top e dei net book sono abituati a utilizzare.

    Se i suoi utenti vedranno l’iPad solo come un apparato in più da portare con sé, il suo appeal sarà limitato. Ma se invece, malgrado le sue carenze, riuscirà a sostituire personal computer più ingombranti e pesanti, per navigare sul web, scambiare e-mail, fare social networking, leggere libri, guardare foto e video, giocare, ascoltare musica, potrebbe rappresentare una vera rivoluzione, come è successo con l’iPhone.

    Dato che è un oggetto molto nuovo, in realtà bisogna averlo e usarlo per capire se fa per noi o no. Comunque è un oggetto molto bello da vedere e da tenere in mano. Sexy, dicono in tanti. Il prezzo del modello base, con la sola possibilità di collegamento alla Rete via Wi-Fi (499$) è ragionevole. Più cari saranno i modelli con connessione 3G e i costi del loro utilizzo dipenderanno dall’operatore telefonico con cui verrà fatto il contratto. Per ora, e solo negli Stati Uniti, l’unico schema disponibile è quello ATT per 30 $ al mese, senza limiti di utilizzo dati, e 15 $ al mese, con un limite di 250 megabyte. Ottima la vita della batteria, che è sigillata e che dura oltre le 10 ore.

    Su l’iPad possono funzionare quasi tutte le apps dell’iPhone e già un migliaio di nuove, progettate da terzi in modo specifico per l’iPad, sono disponibili.

    Vi sono altre carenze, oltre alla tastiera, alla webcam e alle porte USB. Il browser Safari, per esempio, non è in grado di gestire i video basati sullo standard, molto popolare, Adobe Flash Internet e quindi molti programmi video non sono accessibili. Ma sono tutte carenze su cui certamente Apple potrà porre rimedio con accessori optional o grazie ad apps messe a disposizione da terzi.

    Il vero problema dell’iPad, sollevato dai «duri e puri» di Internet, è un altro. Le prime critiche sono tutte partite da una definizione, forse riduttiva, dell’iPad come una via di mezzo tra iPod Touch o iPhone e MacBook. Ma non si tratta di critiche davvero rilevanti. La critica più incisiva è quella che definisce l’iPad come una via di mezzo tra un personal computer e un televisore che si tiene gradevolmente tra le mani. L’iPad, infatti, riempie molto bene il vuoto che fino a oggi è esistito tra due comportamenti: quello cosiddetto sit back, di chi guarda la televisione, e quello detto sit forward, di chi naviga in Internet o si cimenta nei videogiochi.

    Visto in questa ottica si capisce perché i «duri e puri» di Internet lo definiscono uno strumento controrivoluzionario, che ricaccia in un atteggiamento passivo e non più interattivo chi lo usa. Dando ragione a questo punto di vista, il settore che da subito ha detto più meraviglie dell’iPad è quello della editoria, che lo ha visto come uno strumento nuovo e molto accattivante per vendere in Rete i suoi contenuti, giornali, riviste, libri, film, in un ambiente certamente protetto come quello che Apple ha dato prova di sapere costruire con il suo iTunes.

    Dovranno comunque tutti investire molto per offrire i loro contenuti in versione Web e forse solo i più grandi, o chi risulterà vincente nel consolidamento del settore, potrà farlo. Tuttavia, con il suo schermo abbastanza grande, con i suoi colori e con la sua altissima definizione, l’iPad offrirà certamente un ambiente «portatile» e allo stesso tempo adatto a offrire prodotti a pagamento e spazi interessanti per la pubblicità.

    Lo stesso Steve Jobs, durante la sua ultima intervista alla stampa internazionale, ha enfatizzato il ruolo dell’iPad non solo come strumento elettivo per il social networking, la lettura e i video, ma anche, o forse soprattutto, come piattaforma pubblicitaria, capace di canalizzare miliardi di messaggi al giorno, mirati e in tutto il mondo. L’iPad, dice Jobs, offre finalmente agli operatori della pubblicità un mezzo davvero espressivo e ai produttori di apps un modo per guadagnare non solo dalla loro vendita (quasi mai a prezzi superiori a uno o due dollari l’una), ma anche dalla presenza, all’interno delle apps da loro prodotte, di pubblicità commerciale.

    L’iPod: rivoluzione o controrivoluzione? Vedremo presto come andrà a finire.

    La Riforma sanitaria americana: una autentica rivoluzione

    Il voto finale alla Camera USA è stato di 220 a 207 e al Senato USA di 56 a 43: una vittoria netta per la prima Riforma sanitaria americana, che propone assistenza sanitaria a tutti e conclude un cammino di oltre un anno. Il risultato finale non è stato proprio quello che il presidente Obama aveva messo in testa al suo programma elettorale, ma ha comunque rappresentato una grande rivoluzione nel sistema sanitario americano, che offriva, allo stesso tempo, il più alto livello qualitativo della medicina nel mondo, i costi più elevati e il più alto numero di persone prive di assistenza garantita tra i paesi sviluppati.

    La Riforma approvata si propone di mantenere l’alto livello tecnologico, di ridurre i costi e di offrire assistenza a tutti. Probabilmente non si riuscirà a fare tutto subito, ma il passo compiuto è straordinario.

    Ci aveva provato nel 1935 Franklin D. Roosevelt, non riuscendo però a inserire qualche forma di Assicurazione sanitaria nazionale nella Social Security. Anche Harry Truman aveva proposto senza successo un programma di Assistenza sanitaria nazionale. Bill Clinton, infine, aveva tentato nel 1993 di varare la proposta forse più ambiziosa, ma anche lui aveva fallito.

    La legge firmata dal presidente Obama presenta alcuni punti molto innovativi:

    – richiede a quasi tutti gli americani di avere una Assicurazione sanitaria, aiutando chi non ha mezzi sufficienti e aggiunge quasi 16 milioni di persone alle liste degli assistiti da Medicaid (l’organizzazione pubblica che già protegge i più poveri);

    – regola più rigidamente le Assicurazioni sanitarie private, abolendo per esempio la possibilità di rifiutare l’assistenza sulla base di «condizioni mediche preesistenti»;

    – introduce misure, concordate in buona parte con medici, ospedali e industrie, per ridurre i costi dell’assistenza.

    Ciò che la legge approvata non è riuscita a fare passare è stata la Public Option, ovvero la creazione di una Assicurazione sanitaria pubblica gestita dal Governo, osteggiata violentemente dalle Assicurazioni private, ma anche della maggior parte degli americani, culturalmente contrari all’intervento dello Stato in scelte che giudicano private.

    Tuttavia, la Public Option c’era quando, alla fine di marzo 2009, i presidenti dei cinque comitati del Congresso incaricati di proporre la legge trovarono un consenso su tre punti: Assicurazione sanitaria per tutti, contributo dei datori di lavoro alla assicurazione dei dipendenti, offerta di una Assicurazione sanitaria pubblica. I democratici avevano poi lavorato per tutta l’estate del 2009 su tre progetti separati, alla ricerca di un punto di accordo con i repubblicani, che però non arrivò mai. Anzi, a partire dall’agosto 2009, ebbe inizio una campagna durissima di discorsi e di messaggi a pagamento sulle televisioni nazionali e locali, con un vero «terrorismo verbale». Poi gli eventi si sono susseguiti con una certa drammaticità.

    9 settembre 2009: Obama cerca di recuperare consenso pubblico con un famoso discorso a Camere riunite. Grande tensione in aula e sorpresa generale quando l’onorevole Wilson urla: «tu menti» al presidente che negava di volere offrire assistenza sanitaria agli immigranti illegali.

    13 ottobre: il Finance Committee, presieduto dal senatore Baucus, approva un disegno di legge che impone una tassa sulle polizze a prezzo più alto per sussidiare quelle ai meno abbienti. Non prevede una Public Option e ciò gli fa guadagnare il voto repubblicano della senatrice Snow. Il voto viene poi ritirato quando Baucus dichiara, sotto pressione dei democratici più liberal, che per l’approvazione alla Camera la Public Option sarebbe stata di nuovo inserita.

    29 ottobre: i democratici presentano il disegno di legge che contiene una Public Option ridotta e che prevede controlli molto stretti sull’aborto, per il quale si dice che non verranno utilizzati fondi federali. Viene inoltre previsto che le Assicurazioni non possano più negare la copertura di spese sanitarie sulla base di preexisting conditions. Il Congressional Budget Office dichiara che la legge permetterà una riduzione del deficit di 108 bil$ in 10 anni.

    24 dicembre: dopo 25 giorni di feroce dibattito, il Senato approva, 60 voti contro 39, una legge che contiene una serie di compromessi per permettere alla maggioranza di raggiungere i 60 voti necessari a evitare il filibustering della minoranza.

    19 gennaio 2010: la vittoria del repubblicano Scott Brown nelle elezioni per il Senato nel Massachussetts toglie alla maggioranza democratica il voto necessario ad approvare eventuali modifiche rilevanti apportate dalla Camera senza incorrere nel filibustering. Viene lanciata l’idea di fare approvare alla Camera lo stesso testo del Senato, per poi fare passare al Senato una serie di emendamenti, per i quali non è necessaria la maggioranza del 60 per cento. Ma molti deputati democratici avrebbero voluto che fosse prima il Senato a fare la sua mossa, per cui la situazione sembra in stallo.

    27 gennaio: nel discorso sullo stato dell’Unione, Obama chiede al Congresso di portare a termine il lavoro ormai vicino alla fine e, malgrado il parere negativo del suo potente chief of staff, getta nella battaglia politica tutto il suo peso personale.

    6 febbraio: Obama annuncia un summit bipartisan sulla riforma sanitaria, trasmesso in diretta TV: un ultimo tentativo di trovare una soluzione comune e di mettere tutti di fronte alle proprie responsabilità in un contradditorio pubblico.

    22 febbraio: Obama fa conoscere le sue proposte che riprendono molto di quanto approvato dal Senato a Natale, con alcune concessioni ai democratici meno liberal, preoccupati del voto dei ceti medi, e alle richieste dei sindacati, anche senza nessuno specifico privilegio per i loro iscritti.

    25 febbraio: al summit bipartisan Obama cerca di dimostrare che le distanze tra democratici e repubblicani non sono tali da impedire un punto di incontro. I repubblicani, tuttavia, non desistono dalla loro richiesta di azzerare tutto quanto fino ad allora approvato.

    Obama decide quindi, con l’importantissimo sostegno di Nancy Pelosi, presidente della Camera, di procedere senza più ricercare una soluzione bipartisan. Ma prima di passare la mano al Congresso, si impegna in un lavoro capillare per convincere i democratici riluttanti. Due fatti segnano punti decisivi a favore del duo Obama-Pelosi: il Congressional Budget Office dichiara che la legge ridurrebbe di 130 bil$ il deficit in 10 anni; il deputato Stupack, antiabortista del Michigan, annuncia di avere avuto assicurazione da Obama della volontà di impedire l’uso di fondi pubblici per praticare aborti.

    21 marzo: la Camera approva il testo del Senato, cui invia un pacchetto di emendamenti (fixes), che vengono recepiti come reconciliation con minime variazioni poi definitivamente approvate dalla Camera.

    23 marzo: il presidente Obama firma la storica legge.

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