Si celebra la loro capacità di accompagnare il cambiamento e promuovere l’innovazione, ma si nega loro fiducia e spazio nel momento in cui aspirano a ruoli di responsabilità.
di Mario Morcellini
Un’attenta lettura del recentissimo messaggio di fine anno di Giorgio Napolitano può fornire molte delle parole-chiave per leggere la situazione attuale del paese, densa di problemi che solo a patto di restare lucidi possono essere trasformati intellettualmente in prospettive aperte. Affrontando apertamente il primo elemento di condizionamento dello scenario che abbiamo davanti agli occhi, quello di una crisi non solo dell’economia, ma anche e soprattutto della fiducia e del «capitale sociale» del sistema-paese, il Presidente ci ricorda che «c’è una cosa che non ci possiamo permettere: correre il rischio che i giovani si scoraggino, non vedano la possibilità di realizzarsi, di avere un’occupazione e una vita degna nel loro, nel nostro paese […] a tutti i giovani la società e i poteri pubblici debbono dare delle occasioni, e in primo luogo debbono garantire l’opportunità decisiva di formarsi grazie a un sistema di istruzione più moderno ed efficiente, capace di far emergere i talenti e di premiare il merito».
Non mancano gli indicatori di uscita dalla crisi economica, ma è difficile non ammettere che ci vorranno mesi e anni per ritornare ai livelli di competitività e di sviluppo precedenti e che fare coincidere l’uscita dalla crisi con un impossibile ritorno a condizioni preesistenti è una visione culturale disastrosamente insufficiente. Occorrono una capacità di pensiero e una lucidità delle istituzioni e della politica così forti e originali da cogliere la chance del superamento della crisi per offrire alla società, e soprattutto ai giovani, un patrimonio di fiducia che riapra il futuro, a partire da una riflessione strategica su ciò che ha significato l’introduzione massiccia di dosi di precarietà nel mercato del lavoro. Occorre aprire la questione dei benefici che il sistema delle imprese ha potuto registrare ricorrendo alla flessibilità, ma soprattutto valutare quanto diversamente sia stata spalmata la precarietà sulle diverse generazioni, ancora una volta aprendo la questione di chi ha pagato una crisi delle cui cause e condizioni è certamente innocente.
Ma un nodo ancor più interessante è quello della scarsa profondità del dibattito culturale sulla formazione dei giovani, una vertenza che riguarda soprattutto la lucidità con cui i soggetti depositari del potere di decisione e di influenza sui processi hanno chiaro il nodo del valore degli studi, e dunque anche la funzione dell’università. è un problema di cultura e di informazioni adeguate delle classi dirigenti, che riguarda in primo luogo il rilievo attribuito alla laurea e ai laureati nell’immaginario costruito dai media e dagli opinion makers, senza però escludere dall’attenzione quel sistema di ricompense pubbliche con cui un paese moderno dovrebbe selezionare, secondo talenti e meriti, i giovani prodotti dal sistema formativo.
Una politica che non sappia dare risposte chiare in questa direzione finirebbe per spingere verso il clientelismo e la soluzione fai da te dei problemi di vita e di realizzazione dei giovani che si presentano al mercato del lavoro. Premerebbe verso una sindacalizzazione di generazione, delineando i contorni di una vertenza dei laureati sottoutilizzati. La sola ipotesi che questo tema possa esplodere è di per sé un ulteriore indicatore di quanto il nostro sia un paese poco aperto ai giovani. E qui diventa importante una domanda che può apparire brutale. Le classi dirigenti italiane hanno chiaro che, in una società sempre più caratterizzata da spinte rivendicative e tentazioni corporative, l’unica prospettiva di salvezza consiste esattamente nell’affidamento alla centralità della conoscenza e dei saperi documentati come via d’uscita rispetto a una selezione ancor oggi drammaticamente segnata dal familismo e dalla lottizzazione? Scorrendo le dichiarazioni di ministri, politici, giornalisti che si mascherano da garanti del futuro, è difficile non riconoscere che questo paese sembra un impasto tra razionalità nelle dichiarazioni e comportamenti tradizionali nei fatti. Non di rado, il modo in cui la politica italiana parla dei laureati finisce per essere l’evidenziatore dei tic e degli standard della loro competenza tecnica a decidere. Ciò si riflette anche nell’ambivalenza con cui le culture pubbliche affrontano il nodo del numero dei laureati. Non c’è un solo dato che conforti l’adagio che essi sono troppi, rispetto a qualunque standard che non sia la chiusura rispetto al futuro e l’arroccamento sulla difesa di posizioni di privilegio. Eppure, non c’è niente di più rassicurante del claim che ci sono troppi laureati nel nostro paese. Da anni, ascoltiamo diagnosi dei più avanzati centri di ricerca che ci ricordano quanto modesto sia, in tutti i settori, il numero di laureati sul totale della popolazione e soprattutto sul numero di lavoratori attivi, e altrettanto da sempre sentiamo voci che si levano a segnalare la debolezza del capitale culturale degli addetti al settore più strategico dello sviluppo sociale: il terziario.
Al di là della evidente necessità di articolare diversamente il nostro sistema formativo, accompagnando all’offerta di banco delle università istituzioni più flessibili, che vedano anche un ridimensionamento del numero degli atenei, non si può trascurare la polemica giornalistica sugli scandali e sull’inefficienza complessiva di cui i corsi professionali hanno goduto nel nostro paese. Governare simili processi significa affrontare le criticità, assumerle con chiarezza, uscirne senza cadere nei pregiudizi e nelle banalità.
In quest’ambito, è calzante il caso delle polemiche sulla Facoltà di Scienze della Comunicazione. Per farsene un’idea, basterebbe ascoltare la sbrigatività con cui soggetti politici e giornalisti, accomunati dall’essere saldamente dentro il sistema delle ricompense e della visibilità, attaccano i giovani che vogliono studiare comunicazione. Non si sente un dato o una percentuale. Non c’è mai un confronto con la produzione sociale di Corsi di laurea e Facoltà comparabili, per esempio adottando confronti omogenei con il resto dell’area umanistica e politico-sociale. Ma ancor più, non c’è mai la capacità di distinguere situazione da situazione, eccellenze e criticità, e comunque gli sforzi di modernizzazione del sistema che anche dalla Facoltà di Scienze della Comunicazione sono partiti e si sono addirittura generalizzati. Per farsi un’idea sulla qualità di queste polemiche, basta confrontare gli asserti e le argomentazioni dei critici con alcune delle risposte pubbliche sull’argomento, a cui quasi nessuno ha avuto il coraggio di rispondere. Cito tra tutti gli interventi il lucido editoriale con cui Stefano Rolando ha aperto un numero della «Rivista Italiana di Comunicazione Pubblica» (Sull’idea che iscriversi ai corsi di laurea in Scienze della Comunicazione sia una «scelta catastrofica». Lettera a Bruno Vespa, in «Rivista italiana di Comunicazione Pubblica», n. 37, 2008).
Respingere il livello culturale degli attacchi non significa che il problema sottostante sia solo artificioso e retorico. è impossibile non riconoscere che le polemiche sono un prodotto distorto di una reale situazione di crisi del mercato del lavoro e della sua capacità di assorbire i prodotti del sistema formativo. Ma se da un lato tanto le performances di ingresso nel mondo del lavoro quanto il grado d’efficacia del titolo di studio per i laureati in Scienze della Comunicazione sono nella media, in ogni caso al di sopra dei dati relativi alle discipline del gruppo politico-sociale, e comunque a tutti i riferimenti omogenei, non è possibile ignorare un set di dati ben più preoccupante: negli ultimissimi anni, anche i laureati più preparati incontrano più difficoltà che in passato.
L’XI Rapporto AlmaLaurea consegna su questo nodo un quadro tutt’altro che incoraggiante, in cui la metà dei laureati di secondo livello, i «migliori» appunto, e cioè, quelli con le aspettative più elevate, si trovano di fronte alla scelta obbligata di un rapporto di lavoro atipico. Il rischio di penalizzare «la generazione più giovane, migliore, più preparata» è concreto e quasi drammatico. è un grido d’allarme che non può essere ignorato né ricondotto alla sola dimensione della rappresentazione pubblica del profilo dei laureati. Ma l’immagine problematica del rapporto tra l’università e un sistema produttivo che non assume, non aiuta a individuare le aree di crisi, né gli strumenti per interrogarsi sulla radicale incomprensione della portata dell’incertezza lavorativa e del suo reale riflesso sull’equilibrio sociale e sul vissuto delle persone. In un’epoca in cui tutti lamentano la crisi di rapporto tra nuove generazioni e istituzioni, ecco una prova lampante della impermeabilità delle istituzioni ai giovani. Esse si presentano a loro dichiarando che il pronostico più facile è quello del precariato. Ma è una scelta che ha il sapore del «senso unico». Evoca quella amarissima battuta che così dice: «sento parlar bene della flessibilità, ma tutti quelli che me ne parlano hanno il posto fisso».
Si celebra la capacità dei giovani di accompagnare il cambiamento e promuovere l’innovazione, ma si nega loro fiducia e spazio nel momento in cui aspirano a ricoprire ruoli di responsabilità. Si declama la società della conoscenza, ma quella che è davvero in vigore è la società delle conoscenze. In un paese affollato da garanti di ogni genere, chi salvaguarda un minimo di trasparenza e universalità nell’accesso giovanile al mercato del lavoro, e soprattutto di quello «sensibile», legato ai territori della creatività e della comunicazione, della conoscenza e dell’elaborazione delle informazioni? Proprio in questi settori resiste la Fortezza Bastiani della vera parentopoli, quella che non investe sui talenti, ma semplicemente specula sulla rendita del familismo.