Il Web 2.0 – il sogno di una rete Internet incentrata sull’utente, personalizzata e facile da usare – ha mantenuto tutte le promesse, a eccezione di quella relativa al profitto. Le reti sociali riusciranno a diventare remunerative?
di Bryant Urstadt
KickApps, un’azienda con 80 dipendenti che offre servizi per reti sociali, ha la sua sede centrale nei pressi della Fifth Avenue, a New York. In meno di due anni ha creato le piattaforme per oltre 20.000 siti di reti sociali, una specie di “mini-Facebook” che raggiunge i 300 milioni di contatti al mese. Probabilmente nessuno ne ha mai sentito parlare.
Gli organi d’informazione dedicano solo una modesta frazione del loro interesse a KickApps rispetto alla copertura giornalistica offerta a un gigante come Facebook, ma il suo ritmo di crescita è stato talmente impressionante da indurre aziende di capitale di rischio come Spark Capital e Prism Venture Works a finanziare KickApps con 18 milioni di dollari, nella speranza di un ritorno economico legato a una IPO (offerta pubblica iniziale) di grande valore. Il suo software permette alle aziende di mettere rapidamente in piedi reti sociali che possiedono gran parte delle caratteristiche di Facebook o MySpace. I suoi clienti – che includono stazioni radio locali, giornali, reti nazionali come NPR e ABC e aziende importanti quali AutoByTel, Harley-Davidson e Kraft – vogliono offrire al loro pubblico un luogo per incontrarsi e condividere la passione nei confronti di un prodotto, di un gruppo o di qualsiasi altra cosa.
L’amministratore delegato di KickApps è Alex Blum, già CEO di JumpTV, un servizio televisivo on line specializzato in sport. “Abbiamo 35 programmatori che lavorano in questo ufficio”, dice Blum, indicando un redattore tra una selva di scrivanie e di monitor piatti, “e solo due dipendenti che si occupano di marketing. Non dobbiamo dannarci per vendere il nostro prodotto”.
Come la maggior parte dei siti di reti sociali che godono di una crescita considerevole, KickApps distribuisce i suoi prodotti, in attesa che le nuove comunità in formazione generino profitti a partire dalle inserzioni pubblicitarie. Questo meccanismo ricorda da vicino il percorso della bolla della prima Internet: costruire la base di utenti e sperare che i ricavi arrivino da un’IPO, un acquisto in blocco o dagli avvisi pubblicitari. KickApps non rivela alcuna cifra sui ricavi, né sulla quota che prende per le inserzioni pubblicitarie. Anche in questo caso, tornano a galla ricordi del passato: non parlare dei profitti è sempre stato un segno che la situazione non è delle migliori.
Molti utenti, pochi dollari
La creazione di reti sociali è l’attività in crescita più rapida sul Web 2.0, il termine più sintetico per definire la nuova Internet orientata sull’utente, dove ognuno può modificare pubblicamente il lavoro di un altro, sia nel caso di una voce enciclopedica sia in quello di un album di foto. La crescita delle reti sociali è impressionante e si è diffusa in siti di diverse grandezze, che sono sempre più interconnessi come piattaforme aperte. Anche i protagonisti minori giocano un ruolo importante.
Ning, per esempio, è simile a KickApps, ma si rivolge ai singoli utenti. Fondato nel 2004 da Marc Andreessen, già creatore di Netscape, e da Gina Bianchini, un’ex analista di Goldmann Sachs, ha ricevuto 104 milioni di dollari di finanziamenti in capitale di rischio da parte di diverse aziende, tra cui Legg Mason. “Abbiamo creato 267.787 siti”, si vantava Bianchini nel maggio 2008. “E ne stiamo aggiungendo dai 1.500 ai 2.000 al giorno”. ComScore, un’azienda di analisi del traffico on line, riferisce che il dominio Ning, su cui risiedono tutti i siti, riceve 3 milioni di visitatori unici al mese.
Bebo, un sito di rete sociale più famoso all’estero che negli Stati Uniti, registra oltre 22 milioni di contatti al mese (AOL lo ha comprato per 850 milioni di dollari nel marzo 2008). Club Penguin, una rete per ragazzi, arriva a 5 milioni. Anche LinkedIn, un sito di rete commerciale, si attesta intorno ai 5 milioni di visite uniche.
Ma si tratta di pesci piccoli. A gennaio 2008 Facebook, secondo la ricerca più recente di ComScore, ha raggiunto la cifra di 33 milioni e 900 mila visitatori unici statunitensi, quasi raddoppiando i numeri del gennaio precedente (ma con una flessione di circa il 2 per cento rispetto a dicembre 2007). MySpace ha quasi duplicato nuovamente i risultati di Facebook, con circa 72 milioni di visitatori unici nello stesso mese.
Tuttavia, i siti non sembrano in grado di generare profitti in linea con la loro popolarità.
L’anno scorso, Microsoft ha acquistato una quota azionaria dell’1,6 per cento di Facebook per 240 milioni di dollari, attribuendo all’azienda un valore piuttosto generoso di 15 miliardi di dollari. Ma nel 2008 Facebook perderà probabilmente 150 milioni di dollari, secondo una conference call ascoltata da Kara Swisher di All Things Digital, un sito affiliato al “Wall Street Journal” specializzato in “notizie, analisi e opinioni sulla rivoluzione digitale”. Il calcolo si basa su previsioni di ricavi – senza interessi, tasse, svalutazioni e ammortamento – di 50 milioni di dollari e di 200 milioni di dollari di spese per investimenti in beni capitali, inclusi i nuovi server.
Nel 2008 Fox Interactive Media (che controlla MySpace) mancherà le previsioni di 100 milioni di dollari, portando a quanto pare al licenziamento del responsabile economico. Anche Google è delusa, dopo il pagamento di 900 milioni di dollari nel 2006 per comprare una quota del traffico su MySpace, acquisendo il diritto di far comparire per tre anni avvisi pubblicitari in presenza di parole chiave immesse nel sito sociale. Non credo che abbiamo trovato ancora la via giusta per fare pubblicità e profitti sui siti sociali”, ha affermato Sergey Brin, uno dei fondatori di Google, in un incontro con gli investitori dopo l’annuncio dei risultati aziendali del quarto trimestre del 2007.
Ning non rilascia cifre sulle vendite pubblicitarie. Tutto quello che Bianchini dice è: “il numero di reti che abbiamo è il nostro principale indicatore”. Se l’esperienza di Ning è simile a quelle di MySpace e Facebook, il suo principale indicatore mostra solo un alto numero di utenti.
In realtà, una rete pubblicitaria che acquista in blocco uno spazio pubblicitario su Facebook rivende quello spazio a 13 centesimi su una base di mille passaggi del messaggio pubblicitario o nel gergo industriale al costo di 0,13 dollari per mille impressioni (CPM). Facebook stabilisce un CPM minimo di 0,15 per la “pubblicità sociale”, che consente agli inserzionisti di indirizzare avvisi in modo mirato a utenti e gruppi di Facebook a seconda di caratteristiche come la locazione e l’età. Nel corso dello scorso anno MySpace ha ridotto il costo dei suoi banner pubblicitari da un CPM di 3,25 dollari a uno inferiore ai 2 dollari. Al confronto, un banner su Mashable, un blog che si interessa del mondo dei siti sociali, ha un CPM che varia dai 7 ai 33 dollari, a seconda della grandezza. I siti Web con un tipo di utenza ben definita di dirigenti ed esperti di tecnologia che acquistano prodotti e servizi aziendali, come TechnologyReview.com, hanno target più alti. Il sito di “Technology Review” arriva a un CPM di 70 dollari.
Ma neanche i prezzi bassi sono stati sufficienti ad attrarre gli inserzionisti e chi acquista spazio pubblicitario sui media verso i siti sociali. “Parecchi inserzionisti esitano a entrare in MySpace”, sostiene Anthony Acquisti, responsabile delle strategie per i media emergenti a OMD, un’agenzia pubblicitaria di New York.
Perché queste resistenze? I problemi con la pubblicità sui siti sociali ruotano intorno a tre questioni principali: attenzione, privacy e contenuto.
Deficit d’attenzione
Alla fine di aprile del 2008, circa 400 persone interessate a fare profitti con le reti sociali si sono incontrate al Skirball Cultural Center, a Los Angeles. La conferenza era intitolata EconSM, l’acronimo poco orecchiabile di Economics of Social Media.
L’argomento in discussione era abbastanza chiaro. Come Kara Swisher, una dei moderatori del convegno, aveva scritto ironicamente nel suo blog: “Sono in cerca di un profitto sfuggente, che temo non si lascerà acciuffare”.
Erano presenti tutti i protagonisti principali: piccole aziende con i loro amministratori delegati, come Alex Blum; banche d’investimento che volevano presentarsi pubblicamente; aziende come Yahoo, AOL e Fox Interactive Media, alla ricerca di qualche acquisizione (Facebook non ha mandato nessuno). “Si tratta di una conferenza importante”, ha sottolineato Blum. “Tutti quelli che contano sono qui”.
Ma la distrazione la faceva da padrone. Il pubblico era agitato, inviava messaggi a Twitter, il servizio di microblogging, controllava e-mail, leggeva blog, sfogliava quotidiani e, a momenti, ascoltava. I problemi specifici che venivano affrontati in sessioni speciali del convegno si sono trasformati in problemi generali, che hanno richiesto una risposta complessiva. Le persone non prestavano grande attenzione agli avvisi pubblicitari (allo stesso modo in cui, per esempio, chi era alla conferenza ascoltava distrattamente gli oratori). Uno degli esperti intervenuti, Seth Goldstein, l’ha messa in questi termini: “I messaggi pubblicitari “sociali” sono qualcosa che gli utenti dei siti di reti sociali in genere ignorano”.
Goldstein ha le carte in regole per parlare perché la sua azienda, Social Media, vende avvisi pubblicitari collegati alle applicazioni sviluppate per Facebook e MySpace (prodotti come Scrabulous e Compare People, largamente diffusi tra gli utenti dei siti). “Il problema”, chiarisce Goldstein, “è che sbattiamo la pubblicità in faccia agli utenti e loro la saltano tranquillamente. La strada giusta è piazzarla tra gli utenti”.
Il commento di Goldstein usava toni leggermente sfumati, ma ha avuto l’indubbio merito di evidenziare un problema che gli osservatori esterni descrivevano con tinte molto più accese. “Non è il posto giusto per fare pubblicità”, dice Jason Calacanis, fondatore di Webblogs e Mahalo.com, a proposito dei siti di reti sociali. Come ha scritto in una e-mail, i membri delle reti sociali “sono impegnati in conversazioni e non vogliono essere disturbati dai messaggi commerciali”.
La situazione appare più chiara, mettendo a confronto la situazione delle reti sociali con quella di Google, che fa profitti con gli avvisi pubblicitari disposti di fronte all’utente.
Con circa 140 milioni di visitatori unici al mese, Google ha guadagnato 16 miliardi di dollari nel 2007, in gran parte provenienti dai messaggi pubblicitari a cui le persone prestano attenzione (non a caso Facebook ha di recente assunto Sheryl Sandberg, fino a poco tempo in forza a Google in qualità di vicepresidente per le attività e le vendite on line, che ha portato avanti con successo il programma pubblicitario per la sua ex azienda). AdWords di Google è un’applicazione per la vendita all’asta di pubblicità sulla base del costo per clic: gli inserzionisti non pagano per migliaia di visualizzazioni, ma per ogni singolo clic su una particolare parola chiave. Gli inserzionisti scelgono quanto spendere in un determinato periodo di tempo e possono modificare la posizione sulla pagina dei loro avvisi con un esborso extra. I prezzi variano a seconda della parola chiave, ovviamente, ma nel corso del primo trimestre 2008 hanno ammontato in media a circa 70 centesimi per clic.
La pubblicità su Google funziona perché i visitatori si collegano al sito alla ricerca di informazioni specifiche. Se un utente che digita “scooter” nella casella di ricerca spera di acquistare una moto, i messaggi pubblicitari che appaiono alla destra della parola chiave sulla pagina dei risultati della ricerca possono rivelarsi più utili degli stessi risultati. Nelle reti sociali, d’altra parte, gli utenti entrano per trovare amici; per raggiungere questo obiettivo, gli avvisi pubblicitari sono, nel migliore dei casi, irrilevanti. Il numero di clic per avviso sui siti di reti sociali confermano queste considerazioni. Mentre circa il 2 per cento degli utenti di Google clicca su un avviso pubblicitario (e il numero è molto più alto se gli utenti stanno conducendo ricerche al fine di acquistare qualche prodotto), meno dello 0,4 per cento degli utenti di Facebook lo fa, almeno secondo una ricerca sugli acquirenti di media apparsa lo scorso anno su Valleywag, il blog di Silicon Valley.
Utenti nella rete
Se agli esperti di media sociali si chiede in che modo la pubblicità può riuscire a catturare l’attenzione dell’utente, essi rispondono inevitabilmente: targeting.
Cercare di arrivare al segmento di pubblico a cui è diretta la comunicazione è la tecnica alla base della pubblicità tradizionale; chi crea abiti mette annunci su “Vogue”, per esempio, per raggiungere i lettori che si interessano di moda. Nel caso dei siti di reti sociali, targeting significa vagliare attentamente i dati del profilo dell’utente per farsi un’idea dei suoi interessi. Le reti sociali sanno molto di più dei nostri interessi, delle nostre preferenze e dei nostri comportamenti rispetto alle aziende, e i profili on line sono in genere considerati, con le parole di Ross Levinsohn, ex dirigente di Fox Interactive Media, “oro digitale”. Scavare quell’oro rappresenta il modo migliore per un sito di rete sociale per fare profitti, ma allo stesso tempo il più insidioso, considerando il pericolo di violare la privacy dell’utente.
Le aziende che aiutano gli inserzionisti e i venditori a creare target di utenti dei siti di reti sociali sono investimenti allettanti per i capitalisti di rischio nordamericani ed europei. Queste aziende sperano di vendere agli inserzionisti informazioni dettagliate sulle singole reti sociali. Tra di loro spicca la appena nata 33Across (che abbiamo incluso nella nostra lista delle 10 aziende degne di nota, che appare a pag. xx) e la più conosciuta azienda finnica Xtract, che annovera Vodafone, T-Mobile e Blyk tra i suoi clienti e ha cominciato a vendere il suo software ad agenzie pubblicitarie e venditori ed editori on line.
Per i siti di reti sociali, creare un targeting significherà necessariamente “calarsi” tra gli utenti, come ha sostenuto Seth Goldstein. Si entra in una rete sociale perché si è interessati agli amici; quindi, per guadagnare l’attenzione dell’utente, gli inserzionisti devono fargli sapere cosa gli amici stanno comprando o pensano di acquistare o devono fare in modo che si spediscano tra loro “consigli” pubblicitari. L’idea può essere bella o raccapricciante, a seconda se si è un responsabile di una campagna pubblicitaria o un utente di una rete sociale.
Nel novembre del 2007, Facebook ha provato a calarsi tra i suoi utenti con il suo programma Beacon. All’annuncio del programma a New York, il fondatore di Facebook Mark Zuckerberg ha dichiarato: “I prossimi cento anni saranno una nuova frontiera della pubblicità e si comincia da oggi”.
Beacon era il sogno dei pubblicitari ma, come molte cose che hanno senso per i pubblicitari, non ha trovato il consenso delle persone normali. In collaborazione a siti web commerciali come Blockbuster ed eBay, Beacon monitorò gli acquisti degli utenti di Facebook e li mostrò ai loro amici.
Il problema era che gli utenti venivano inseriti automaticamente nel programma. Se un utente visitava, per esempio, il sito di Blockbuster e affittava un film, l’informazione era immediatamente spedita a chiunque facesse parte della sua rete su Facebook (è quello che è successo a Cathryn Elaine Harris, di Dallas; ella ha citato in giudizio Blockbuster per violazione del Video Privacy Protection Act). Le petizioni on line e le critiche della stampa si moltiplicarono e il programma venne ridimensionato. Sul blog dell’azienda Zuckerberg scrisse: “Abbiamo commesso una serie di errori a inserire determinate funzionalità e ne abbiamo aggiunti di ancora più gravi nella gestione. Questo programma è stato un insuccesso e me ne scuso”.
Comunque, “Beacon è ancora vivo e vegeto”, afferma Chamath Palihapitiya, vicepresidente per il marketing di prodotto di Facebook. “Si è trattato soprattutto di sfortuna”, egli afferma. “Abbiamo fatto un passo indietro, cercando di capire come migliorarlo”. Ora è un programma opzionale e gli utenti possono scegliere il tipo di informazione da condividere o di non partecipare affatto. Circa 30 aziende utilizzano ancora il servizio, conclude Palihapitiya.
Buona parte delle aziende che ha partecipato alla EconSM ha apprezzato Beacon, ha desiderato che funzionasse meglio e ha creduto nelle sue potenzialità future. Goldstein lo ha definito “un segno di ciò che verrà”. Ma saper mantenere la fiducia dell’utente su come vengono gestiti i dati è un obiettivo prioritario, sostiene Roger McNamee, un capitalista di rischio che ha scommesso fin dall’inizio su aziende come Electronic Arts e Intuit. “Facebook è molto più coinvolgente a livello personale di Google”, continua McNamee, che ha investito in Facebook ed è amico intimo di Zuckerberg. “Per le persone l’uso dell’informazione è una questione vitale”.
Non tutti i tentativi di stabilire un targeting hanno suscitato così tante proteste come Beacon. Nel 2007 MySpace ha lanciato il suo sistema HyperTargeting, che analizza i profili degli utenti alla ricerca di informazioni sui loro interessi e per le statistiche demografiche. Il programma inserisce i profili in 10 categorie generali – per esempio, sport e intrattenimento – che sono poi suddivise in più di 1.000 categorie ristrette, come il baseball o un film particolare (e-mail e messaggi personali non vengono presi in considerazione né da Facebook, né da MySpace). “Gli utenti si organizzano scrupolosamente ogni singolo giorno su MySpace e altri siti di media sociali. Noi vogliamo suddividere questa struttura in una serie di segmenti di facile acquisto”, spiega Adam Bain, presidente di Fox Interactive Media Audience Network.
Bain dice che MySpace ha condotto ricerche approfondite prima del lancio. “Gli utenti hanno sostenuto di aver compreso di dover convivere con gli avvisi pubblicitari e di non preoccuparsene”, egli continua. “Il concetto di rilevanza ha realmente un peso tra gli utenti”. L’algoritmo viene costantemente modificato da un gruppo di 150 persone; è già arrivato alla sua dodicesima revisione. Anche se il programma non è stato ancora rifinito, “ha già portato un numero senza precedenti di inserzionisti ad avvicinarsi a MySpace”, conclude Bain. “Stiamo acquisendo marchi famosi come Adidas, Schwab, Electronic Arts, Frito-Lay, Kraft, General Mills e McDonald’s”.
Ma questi inserzionisti condividono lo stesso entusiasmo di Bain? “Abbiamo fatto un modesto investimento”, afferma Marc Ruxin, direttore della strategia digitale e della innovazione all’azienda pubblicitaria McCann. “è stata una buona idea”. Certamente meglio che rimanere immobili. Comunque, non si è riuscito ancora a stabilire se un qualsiasi targeting, ammesso che non metta in discussione il diritto alla privacy dell’utente, riuscirà mai a oltrepassare la barriera dell’attenzione.
Cattivi vicini
Un altro problema che il targeting potrebbe non essere in grado di risolvere è rappresentato da ciò che gli inserzionisti chiamano “contenuti contigui”.
A differenza dei giornali e delle trasmissioni televisive, le reti sociali sono un media dal contenuto imprevedibile. Nelle pagine sportive di un quotidiano, un inserzionista sa pressappoco che tipo di materiale troverà accanto alla sua pubblicità. Ma un’azienda importante non vuole correre il rischio di vedere i suoi messaggi pubblicitari finire su una pagina come quella attuale del gruppo di Facebook “Ho fatto sesso con qualcuno di Facebook”, che vanta 59.353 membri. O di affiancare su MySpace il profilo (scoperto dopo soli due minuti di navigazione sul sito) del 18enne “Nikki AKA Death Angel!”, che è adornato dal seguente motto: “Non fotterti quella troia di ninjetta testa di cazzo a cui taglieremo la testa e la regaleremo a sua madre”.
Non è questo il tipo di contenuto che invita alla lettura, anche se ad alcuni acquirenti non fa né caldo né freddo. “A oggi, il settore più semplice è quello dell’intrattenimento perché è indifferente ai contenuti circostanti”, sostiene Goldstein. In effetti, il violento profilo di Nikki mette in risalto una pubblicità del film Get Smart della Warner Bros. Ma persino l’industria dell’intrattenimento si tiene alla larga dalle comunità create dagli utenti ospitate da Ning e KickApps. “Al momento non è un universo controllabile, con i siti porno e cose del genere”, chiarisce Ruxin. “è come comprare qualcosa a scatola chiusa”.
Ma non tutti sono così pessimisti. Andrew Braccia, un partner di Accel, uno dei primi investitori su Facebook, ritiene che gli inserzionisti accetteranno sempre più la natura “originale e dinamica” delle reti sociali e capiranno che la sua imprevedibilità è una componente strutturale del suo fascino. Palihapitiya, di Facebook, forse semplificando in modo eccessivo, non crede che il problema della contiguità rappresenti un ostacolo per il suo sito; Facebook, egli sostiene, ha “una tradizione di contenuti moderati, con al suo interno meccanismi molto semplici per bloccare materiali inadeguati”.
Quello che gli utenti ritengono appropriato, però, non coincide spesso con le convinzioni degli inserzionisti. Questi argomenti potrebbero non bastare per influenzare aziende che del culto della immagine del loro marchio hanno imperniato le loro campagne pubblicitarie. Palihapitiya, deliberatamente o non, potrebbe aver frainteso: gli inserzionisti non amano i contenuti violenti non tanto per le eventuali ripercussioni negative sui loro marchi, ma perché, molto probabilmente, le persone che leggono questo tipo di cose non si concentrano più sui messaggi pubblicitari e i possibili acquisti.
In ogni caso, i fautori dei siti sociali sono profondamente convinti che un pubblico così vasto debba avere un valore considerevole. Braccia fa notare che solo più del 6 per cento dei dollari spesi in pubblicità vanno al settore on line, mentre il 20 per cento del consumo di media ora si verifica in rete. “Si tratta di un’opportunità importante”, afferma Braccia. “Siamo ancora in una fase di pieno sviluppo”.
“Questi siti non hanno caratteristiche differenti dai media tradizionali”, dice Paul Kedrosky, che scrive Infectious Greed, un blog molto apprezzato su capitale di rischio e Internet. “Stiamo mantenendo questi siti su standard assurdi. La distribuzione della pubblicità segue i consumatori e, a oggi, questo meccanismo non funziona affatto”.
Roger McNamee rimane convinto che Facebook sia troppo utile, funzionale e radicato tra gli utenti per non dare profitti. La risposta è a portata di mano, anche se McNamee non la conosce. “Qualcuno”, egli dice, “è vicino alla soluzione. Sono sicuro di non sbagliarmi. D’altronde, sono un investitore e sono inevitabilmente parziale”.
Marc Canter qualche idea ce l’ha. Canter, uno dei fondatori di MacroMedia, è ora amministratore delegato dell’azienda che produce piattaforme per lo sviluppo di reti sociali come People Aggregator, che permette a comunità, strumenti, motori di ricerca e il resto del Web 2.0 di interconnettersi in un’unica rete mesh aperta. Canter immagina che i diversi tipi di pubblicità costituiscano solo un terzo dei ricavi, mentre i profitti dovrebbero arrivare da una “lunga coda” di sorgenti, da un sistema di mercato come quello di Craig’s List ai download di musica su richiesta, all’abbigliamento di marca e ai servizi premium senza pubblicità.
Chamath Palihapitiya è dell’idea che Facebook genererà ricavi vendendo agli utenti una varietà di servizi come quelli indicati da Canter. Il sito ha ospitato un programma di “doni”, in cui gli utenti spendono denaro reale per “regalare” agli amici articoli virtuali, come per esempio un’immagine di una confezione di fazzoletti di carta con un augurio di ristabilirsi presto. Palihapitiya propone anche che Facebook tragga profitto dai messaggi pubblicitari distribuiti attraverso le applicazioni sul suo sito, che rappresentano una fonte potenzialmente crescente di entrate da cui il sito attualmente non ricava nulla.
Forse il più ottimista di tutti è il capitalista di rischio Ron Conway, il protagonista del libro The Godfather of Silicon Valley, che ha investito inGoogle, PayPal e decine di aziende Web 2.0. “MySpace ha previsto un miliardo di dollari di ricavi quest’anno, ma si è fermata a 800 milioni di dollari”, ricorda Conway. “Rupert Murdoch ha pagato solamente 570 milioni di dollari per l’intero affare. è stata definita la migliore acquisizione di tutti i tempi. Credo che Facebook sia un paio d’anni dietro a MySpace, ma che stia seguendo la stessa traiettoria. Si tratta di un business con enormi potenzialità di profitto. Un’occasione da non perdere”.
La situazione precipita
I fantasmi dei giganti scomparsi aleggiano sulle reti sociali. Molte grandi aziende Internet sono in difficoltà o sono fallite. Si pensi a CompuServe, AOL, Netscape, Napster e persino Yahoo. Lycos, un motore di ricerca che è stato venduto a Terra Networks nel 2000 per 12,5 miliardi di dollari, è stato acquistato quattro anni dopo da un’azienda coreana per 95 milioni di dollari.
Ciò che CompuServe e molti altro hanno in comune è il fatto che erano dei portali: porte d’ingresso al Web. Facebook vuole essere qualcosa di simile: non solo un semplice strumento sociale utile e divertente, ma la prima pagina sul Web e la piattaforma che gli utenti usano per tutte le loro comunicazioni su Internet.
Come portali in erba, comunque, i siti di reti sociali sono esposti a uno dei problemi che hanno afflitto queste prime aziende su Internet. I portali erano “giardini protetti” nei quali gli utenti con poca esperienza della rete si soffermavano per un breve periodo, ma da cui si muovevano repentinamente per affrontare le selvagge praterie del Web. Facebook e MySpace hanno compreso la lezione e stanno cercando di operare un giusto bilanciamento tra apertura e controllo.
Un’altra battaglia è quella contro le tendenze passeggere. Danah Boyd, futuro PHD dell’Università della California, a Berkeley, studia le reti sociali come fenomeni culturali. Danah paragona i siti più frequentati ai pub più popolari. “è fantastico quando nel locale ti ritrovi con tutti i tuoi amici”, ella spiega. “Poi arrivano tante altre persone. Anche se il pub non è fisicamente affollato, ti sembra un ambiente soffocante quando il tuo ex è dall’altro lato del bancone a parlare con un tipo sgradevole circondato dalla sua “banda” di amici. Non passa molto tempo prima di dire: ‘Ma che sto facendo ancora qui?'”.
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Numerosi partecipanti alla EconSM hanno preso lo stesso aereo per tornare a casa e chiunque si trovava su quel volo notturno da Los Angeles a New York ha avuto modo di assistere a una lezione sul ruolo che giocano le reti sociali nella vita moderna.
Poco prima che l’aereo cominciasse la sua discesa, una signora 28enne di nome Erin è svenuta mentre si recava al bagno. Era probabilmente affaticata o sfiancata dalla inumana ressa della classe economica. Anche lei non sapeva dire esattamente cosa le fosse successo. Una volta arrivati sulla pista d’atterraggio, era ormai tornata alla normalità. La sua prima domanda all’assistente di volo è stata: “Chi ha preso il mio telefonino?”
Appena l’assistente le ha restituito il suo iPhone, Erin lo ha aperto e si è collegata a Facebook. Non era alla ricerca di messaggi pubblicitari, né li ha notati, anzi ne è rimasta anche infastidita. Lei voleva raggiungere i suoi amici, nient’altro.