Il successo della teoria dell’evoluzione deriva dalla capacità di integrare ripetizione e differenza, grazie a concetti epistemologicamente rilevanti, come quello di exattamento.
di Gian Piero Jacobelli
In un divertente racconto dedicato a un ipotetico soggiorno palermitano di Niels Bohr, Santo Piazzese, biologo e scrittore, ricorda una sorta di apologo del grande fisico danese, Premio Nobel nel 1922, a trentasette anni: «Sai perché nei film western sono sempre i buoni a vincere nei duelli alla pistola contro i cattivi?». La risposta di Bohr chiamò inaspettatamente in causa non tanto i principi della fisica, ma quelli della psicologia e della neurologia: «La ragione è psicologica, ma c’entra anche il meccanismo di trasmissione neuromuscolare. Il punto è che il buono, siccome è buono, non spara mai per primo: aspetta sempre che sia il cattivo a fare la prima mossa. E questa è la motivazione psicologica. Quando il cattivo decide di sparare lo fa con un atto di volizione; cioè, dal suo cervello parte verso la mano l’impulso che corrisponde all’ordine di estrarre la pistola dalla fondina e sparare. Il che implica un intervallo di tempo relativamente lungo. Il buono invece reagisce alla stimolazione sensoriale provocata dal movimento della mano del cattivo con il meccanismo dell’arco riflesso. Il cervello, cioè la volontà, resta tagliato fuori, perché al livello del midollo spinale c’è un punto di contatto quasi diretto tra le vie afferenti e quelle efferenti lungo le quali viaggiano gli impulsi. è un processo più veloce rispetto al primo meccanismo. Quindi il buono riesce a tirare fuori la sua pistola e a sparare prima del cattivo e a ucciderlo. A patto, si intende, che abbia una buona mira. E questa è la giustificazione fisiologica» (in Il sogno e l’approdo. Racconti di stranieri in Sicilia, Sellerio, 2009).
Il buono e il bello
Se non è vera è ben trovata, anzi doppiamente ben trovata. In primo luogo, perché questo vecchio saggio che, bevendo birra danese in un locale palermitano, rievoca più o meno scientificamente la grande cinematografia americana della frontiera, ci lascia intendere come le vie della mente siano infinitamente più estese di quelle del mondo. In secondo luogo, perché se ne deduce l’idea che anche i sentimenti, le caratteristiche caratteriali, l’essere buono o l’essere cattivo, abbiano giocato una partita rilevante nell’ambito della sopravvivenza. Ma, poiché la capacità di sopravvivere, e quindi quella di riprodursi, costituisce uno dei fattori determinanti della cosiddetta selezione naturale di matrice darwiniana – l’altro fattore è costituito dalla variazione genetica e somatica – se ne potrebbe argomentare che la bontà, cioè qualcosa che di solito viene inscritto nell’orizzonte culturale e non in quello naturale, rappresenta un tratto selettivo evolutivamente prevalente su quello della cattiveria, qualsiasi cosa significhino queste due qualificazioni apparentemente dipendenti da una norma morale o addirittura religiosa.
Per la verità, qualcosa di simile avevamo avuto modo di ascoltare dalla viva e convincente voce di Nicholas Humphrey, illustre psicologo assai noto per la sua collaborazione con Dian Fossey in Rwanda e per le sue opere sulla evoluzione dell’intelligenza umana. Humphrey, in un incontro a Tokyo di un paio di anni fa, illustrò la sua convinzione in merito al valore evolutivo del senso della bellezza, nel quale si esprimerebbe la connessione tra le forme della natura, quelle che l’uomo osserva intorno a sé, e le forme della cultura, quelle che l’uomo crea. Tale connessione costituirebbe la garanzia di una adesione all’ambiente e ai suoi segreti, che avrebbe agevolato la capacità di adattamento e quindi di successo e di proiezione nel futuro dei primi uomini in grado di fruirne.
Una volta di più – dal momento che abbiamo già avuto occasione di accennarne negli scorsi fascicoli – torna di attualità un fenomeno che potremmo sintetizzare nella considerazione che «tutto avviene altrove» e che ha trovato espressione nel neologismo «exattamento», dovuto al grande biologo evoluzionista Stephen Jay Gould, purtroppo scomparso qualche anno fa. In questo caso, exattamento significherebbe che un’attitudine connessa probabilmente alle sole funzioni di interpretazione e valutazione di quanto avviene dentro e fuori di noi, oggi descritte sotto l’etichetta dei neuroni specchio, ha finito per riproporsi nell’ambito di funzioni connesse ai processi identitari della specie umana, favorendo la scelta sessuale e quindi la sopravvivenza di un particolare patrimonio genetico, con le relative proiezioni comportamentali, fossero quelle del bene o quelle del bello.
Adattamento ed exattamento
Questo fenomeno dell’exattamento ci interessa per ragioni sia di merito sia di metodo. Per ragioni di merito, in quanto ci fornisce un principio interpretativo di grande potenza e portata, riferito a ogni sistema che debba cambiare e che, volente o nolente, resiste al cambiamento. Thomas Kuhn, il grande storico della scienza, quasi mezzo secolo fa ci aveva insegnato che anche le rivoluzioni scientifiche, per potersi realizzare, non richiedono soltanto un sempre complesso e delicato spostamento di idee, ma anche uno spostamento di uomini e di risorse. Da un lato, dunque, la storia della scienza, al di là dei suoi aspetti di contenuto, si risolve in una sorta di sociologia della scienza in cui conta la «struttura comunitaria», il contesto relazionale, oltre a quello epistemologico, in cui gli scienziati si trovano a operare e che li vincolano più o meno consapevolmente al rispetto di specifici paradigmi adottati tradizionalmente. Dall’altro lato, proprio alla fine del suo celebre saggio su La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Kuhn proponeva esplicitamente una connessione tra la teoria delle rivoluzioni scientifiche e la teoria dell’evoluzione darwiniana, purché si impari «a sostituire l’evoluzione verso ciò che vogliamo conoscere con l’evoluzione a partire da ciò che conosciamo». Inoltre, non a caso, il riferimento all’Origine delle Specie alludeva, anche se non in maniera esplicita, proprio alla problematica dell’exattamento, in conseguenza della complessità di organi che, per venire selezionati, avrebbero dovuto avere già conseguito un sufficiente grado di funzionalità, contraddicendo l’ipotesi di una progressione lenta e lineare: un problema a cui lo stesso Darwin rispose elaborando il concetto di «preadattamento», di una emergenza occasionale, che però avrebbe consentito eventuali, successive utilizzazioni.
Al termine di preadattamento Gould preferì quello di exattamento proprio per evitare le derive teleologiche che lo stesso Kuhn criticava ed escludeva: «Per molti, l’abolizione di questo tipo teleologico di evoluzione costituiva il suggerimento di Darwin più suggestivo, e meno accettabile. L’Origine delle Specie non riconosceva nessuno scopo stabilito da Dio o dalla natura».
Non è difficile associare a queste vecchie, ma sempre illuminanti considerazioni, quanto più di recente ha osservato Telmo Pievani a proposito del fatto che l’evoluzione ha bisogno di spazio e l’unico modo di darsi spazio è quello di muoversi (Homo sapiens e altre catastrofi, Meltemi, 2006).
Se, infatti, alcuni studiosi optano radicalmente per l’ipotesi genetica, che proietta la variazione individuale sullo sviluppo collettivo, altri studiosi restano più sensibili ai processi di separazione e di isolamento delle specie. A parte il nuovo scenario che così viene a comporsi, tumultuoso e drammatico, rispetto a quello lineare e progressivo di una evoluzione in cui la compattezza del gruppo di riferimento conta più delle lotta quotidiana con l’ambiente e con le sue imprevedibili e spesso repentine trasformazioni, la suggestione innovativa che se ne può trarre è quella del nemo profeta in patria, nella convinzione che, se la variazione è il carburante, lo spostamento è l’innesco del cambiamento.
Qualcosa succede, d’improvviso: sempre secondo le cadenze geologiche, milioni di anni, ma non più in maniera continua e, per così dire, coerente, come avviene quando due fattori si confrontano stabilmente e quindi si danno, per così dire, delle regole del gioco. Non più come se a ogni azione corrispondesse una reazione uguale e contraria, secondo il classico principio del movimento, ma per l’irruzione di qualche fattore imprevedibile e imprevisto, di origine cosmica o terrestre: la caduta di un corpo celeste, un terremoto, un cambiamento rapido e radicale del clima. L’evoluzione, che, al di là delle stesse strumentalizzazioni polemiche di tipo teologico e filosofico, si poneva comunque come una sorta di garanzia di senso, genetico o teleologico che fosse, si trasforma così in un campo di battaglia, dove i diversi fattori si incontrano e si scontrano, interpretando la logica di ciò che avviene in quella di ciò che ad-viene, la logica delle consecuzioni spaziotemporali in quella degli eventi: anzi, come lo stesso Gould, insieme a Niles Eldredge, hanno genialmente proposto, nella logica dei cosiddetti equilibri punteggiati, una lunga sequenza di rallentamenti estenuanti e di accelerazioni repentine, che, sempre sulla scala dei milioni di anni, a posteriori suggerisce come la storia, la storia del mondo, s’intende, ma anche quella dell’uomo, non si trovi dietro o davanti di noi, ma sempre dietro l’angolo.
Attraverso le «due culture»
A questo punto, si possono richiamare le ragioni di metodo che, dopo quelle di merito, motivano l’interesse per la nozione di exattamento. Proprio nella misura in cui anche il pensiero dell’uomo viene ricondotto nell’ambito delle dinamiche evoluzioniste, il vecchio sogno di infrangere le barriere delle due culture, che Charles Percy Snow individuava nella corretta elaborazione di principi metodologici comuni, sembra potersi realizzare, almeno in qualche significativa misura, in concetti come quello di entropia e, appunto, come quello di exattamento, di ciò che avviene proprio perché è già avvenuto altrove e altrove ha potuto assumere una forma non condizionata dalla funzione, rendendosi disponibile alla creatività dei
soggetti coinvolti ai vari livelli di pertinenza, genetica, individuale, specifica.
Lo spostamento che resta implicito nella stessa etimologia dell’exattamento, prima ancora che una constatazione di fatto, si pone come una constatazione di valore: in altre parole, e soprattutto in relazione alla ipotesi della ominizzazione come effetto di exattamento, anche quando sembra non piacere l’idea di una genesi, se non molteplice, quanto meno con-fusa dell’uomo, l’idea dello spostamento riemerge imperiosa, magari sotto la specie dello scarto metafisico. L’Ottocento lascia, infatti, in eredità al Novecento il compromesso di una evoluzione in cui una volontà creatrice divina avrebbe innestato conclusivamente la facoltà del pensiero, a conferma che l’idea della discontinuità non demorde. A conti fatti, la vera scoperta risiede nello scarto: in orizzontale, tra una parte e l’altra di una Terra devastata da cataclismi geologici o climatici, o in verticale, tra la terra e il cielo, che a un certo punto pretende i suoi diritti creativi. Come dire che ogni metafora è buona per motivare la metafora stessa: lo spostamento tra i regni di una natura che, naturans o naturata, resta comunque un sistema articolato in differenze, più che in ripetizioni.
Il proposito di estrapolare un concetto, quello di exattamento, e una teoria, quella secondo cui, perché avvenga qualcosa, è necessario che il mondo si articoli spazialmente e temporalmente, si fonda, per altro, sulle stesse considerazioni di Gould, che, da autorevole storico della scienza, amava portare le sue riflessioni alle estreme conseguenze metodologiche ed epistemologiche. Proprio nella introduzione al rivoluzionario saggio dedicato all’equilibrio punteggiato (L’equilibrio punteggiato, Codice, Torino, 2008), Gould sottolinea il passaggio da una impostazione funzionalistica, quella del darwinismo più radicale, secondo cui tutto ciò che è, è «adattato», a una impostazione strutturalistica che, nella sua interpretazione, si richiama alla forza della forma, a «spiegazioni delle morfologie al di fuori dei domini del funzionalismo». Contestualmente, coglieva anche come il predetto funzionalismo, più che su valutazioni prettamente scientifiche, si radicasse nella tendenza «narrativa» a interpretare la realtà secondo rapporti di causa ed effetto, quei rapporti che, come nei libri gialli, connettono sempre un inizio a una fine: «Il cervello umano ricerca modelli, schemi, mentre le nostre culture preferiscono fornire particolari tipi di storie per spiegarli: esse impongono così una forte predisposizione ad attribuire certi modelli (patterns), ben inseriti nel campo dei risultati attesi per i sistemi puramente stocastici, a cause deterministiche convenzionali».
Ancora una volta, i processi si configurano piuttosto come passaggi, nel senso che il passaggio costituisce un processo articolato in stati o in stadi, composti fra loro in maniera non lineare, ma discontinua, in ragione della emergenza dei rapporti costitutivi tra l’interno e l’esterno e tra il prima e il dopo.