di Gian Piero Jacobelli
Nel mondo dei segni, la «semiosfera» come la chiamava il grande semiologo russo Jurij Lotman, un segno da sempre ” dal sempre in cui l’uomo è uomo, ovviamente ” sembra essere più segno degli altri: l’arcobaleno. Lo è perchè nella Bibbia, dopo il cataclisma diluviano, ha segnato il nuovo patto tra la Terra e il Cielo e questa volta sarebbe stato un patto senza ritorno, proprio perché il segno garantiva un impegno che, per quanto divino, evidentemente agli scrittori del Libro sacro era sino ad allora apparso troppo soggettivo e quindi discrezionale. E lo è perché il segno dell’arcobaleno ha anche presieduto a un altro grande passaggio, quello della rivoluzione scientifica, sulla cui più o meno presunta oggettività si è basato l’impegno dell’uomo ad andare per quanto possibile oltre se stesso.
Non a caso, l’arcobaleno, il suo significato materiale e spirituale, ha costituito uno dei principali motivi di discussione per tutto il Seicento e il Settecento, sulla scorta dei fondamentali esperimenti di Isaac Newton. Nell’arcobaleno, che era diventato argomento ” nel senso classico del luogo comune che attira l’attenzione perché splende di luce propria ” di discussione tra scienziati e filosofi, si concretizzava, infatti, quella che allora appariva come una duplice eresia: contro la millenaria concezione religiosa che la luce bianca costituisse una sorta di ancoraggio ontologico della creazione: «et fiat lux», mentre le sue qualificazioni, i colori, derivassero dalle alterazioni provocate più o meno intenzionalmente dai materiali o dalle operazioni con cui veniva manipolata; e contro la concezione poetica della creazione stessa, che alla prova della scienza perdeva ogni incanto e soprattutto ogni mistero.
Ancora nei primi ani dell’Ottocento il più lirico dei poeti inglesi, John Keats, si doleva di «essere stato defraudato del mistero dell’arcobaleno», che, ridotto da Newton ai colori del prisma, non poteva più richiamare verso l’alto lo sguardo degli uomini alla ricerca di una ispirazione trascendente: «Splendido si inarcava un tempo in cielo / l’arcobaleno, oggi non più; la trama / oggi ne conosciamo, nel catalogo / delle cose banali».
Va detto che non si trattava semplicemente di fare sponda retorica sulla conoscenza scientifica per difendere la propria, immotivata visione del mondo (quante volte ancora oggi si sente ripetere che, se qualcosa fosse come la scienza vorrebbe, allora scomparirebbe quanto di bello o di buono si è sinora creduto, come se bello e buono non costituissero dei concetti culturalmente e storicamente relativi). In effetti, negli stessi anni in cui Keats lamentava la scomparsa del «mondo del pressappoco» a vantaggio dell’«universo della precisione», per usare la celebre contrapposizione di Alexandre Koyré, Wolfgang Goethe rivendicava una istanza di soggettività tanto incisiva dal punto di vista poetico quanto problematica da quello conoscitivo. Nella sua Teoria dei colori, infatti, il problema della percezione, vale a dire di un mondo che, con tutte le sue leggi, abita comunque nella mente dell’uomo, conferiva all’affascinante experimentum crucis newtoniano lo stesso carattere ideologico che Newton aveva attribuito alle concezioni della luce di Cartesio e degli studiosi della generazione precedente alla sua.
Percepire significa riportare al soggetto il processo del trial and error e non fare semplicemente del soggetto un astante o al massimo un testimone di ciò che succede. Ma lo scopo di queste riflessioni non è quello di ripercorrere gli esiti epistemologici e metodologici che questa considerazione contro corrente ha riscosso nella scienza contemporanea, né riproporre il problema della oggettività , che si può qui risolvere nel senso pragmatico in cui lo ha recentemente e brillantemente risolto il filosofo Maurizio Ferraris, polemizzando con la filosofia postmoderna: «Ci sarà pure un momento in cui, alla faccia della post-moderna relatività del tutto, si smette di credere di credere, e si crede per davvero, cioè si crede che ciò a cui si crede sia vero, ossia reale e fuori di noi». Quello che qui interessa, con riferimento anche alle splendide immagini pubblicate nelle pagine precedenti, è il ruolo che proprio l’immagine svolge in questo compromesso conoscitivo.
L’immagine consente di rappresentare la realtà (o quello che la realtà rappresenta nella inevitabile soggettivazione della conoscenza) in maniera oggettivata, come avviene in ogni rappresentazione in cui il punto di vista dell’osservatore viene espresso «come se» fosse un punto di vista esterno alla osservazione stessa. In questo senso, la scienza è bella – bella per tutti, s’intende – in quanto, come ribadiva Richard Feynman, l’immagine che sta sotto la superficie delle cose e che viene scoperta dall’occhio dello scienziato, esprime livelli di realtà più profondi, più inconsueti e quindi più belli anche per il cosiddetto senso comune.
Così prospettata, l’immagine sembra risolvere il dilemma che si esprimeva nel convenzionale confronto tra Newton e Beethoven. Qualcuno, a partire da Immanel Kant, ha autorevolmente detto che lo scienziato scopre e l’artista inventa, per cui la scoperta, a differenza della invenzione, può venire descritta nei suoi passaggi creativi. Ma, se così si può dire in termini di operazioni, per le immagini si deve dire, come faceva Ludwig Wittgenstein, che non vanno intese come riproduzioni del reale, ma come modelli, in quanto «l’immagine rappresenta ciò che rappresenta, indipendentemente dalla propria verità o falsità ».
Le immagine costituiscono una classe di oggetti del tutto autonomi rispetto alla classe di oggetti che si richiamo alla realtà e proprio questa loro autonomia produce una sorta di effetto stereoscopico, tra il vero e il bello: rendere bella la realtà , infatti, aiuta a conoscerla. In questo senso, l’idea newtoniana che nell’arcobaleno le gocce di pioggia agiscano come una nuvola di minuscoli prismi in cui si rifrange la luce del sole, non dovrebbe impedire di alzare gli occhi al cielo e di sentirsi rassicurati dal biblico patto, perché così avviene ogni qualvolta, forse paradossalmente, il mondo esteriore ripete il mondo interiore e viceversa, come due attributi della stessa sostanza, secondo la sublime concezione di Baruch Spinoza, che molava le lenti come Newton e che all’arcobaleno dedicò uno strano testo, tutto pieno di disegni simili a girandole.