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Cosa c’è dietro l’angolo della TV

Come tutti sanno, il presidente della Repubblica Ciampi è ripetutamente intervenuto sulla TV, pronunciandosi anche di recente con un messaggio chiaro e forte: troppi programmi e conduttori «talvolta ci appaiono inconsapevoli delle loro responsabilità. Sono parole che sembrano riportarci indietro di molti anni, quando la televisione era giudicata capace di anticipare i bisogni della collettività e di parlare un linguaggio collettivamente condiviso: un richiamo, quello lanciato a Cremona dal presidente Carlo Azeglio Ciampi, che induce a riflettere sul ruolo e sul rapporto della televisione con la società civile. Un’idea austera, che si insinua tra le paillettes e i lustrini dei reality, per riportare in primo piano il senso di consapevolezza delle nostre azioni, in particolare quando hanno risonanza pubblica. Perché siamo giunti al punto di portare sullo schermo non più solo il salotto buono, ma tutta la casa, spazzatura compresa?

La verità è che parlare al grande pubblico è diventato complicato. Nel passaggio all’era dell’interattività, in una condizione di sospensione tra la tecnologia analogica e digitale, la televisione attraversa inequivocabilmente una crisi di identità, scandita dalla difficoltà nel leggere i segni dei tempi moderni. Negli anni del monopolio, quando la TV era leader di processo e di prodotto, perno della scena mediale e sociale, la legittimazione del suo linguaggio si fondava sia sull’assenza di alternative sia sulle limitate competenze all’uso dei media da parte degli italiani. In quel momento, il mezzo televisivo riusciva a costruire una sintassi che, pur non essendo semplice e trasparente, finiva per diventarlo, perché strutturava la propria comprensibilità: era come una lingua colta che, attraverso il proprio vocabolario, imponeva ai parlanti le proprie esigenze.

Tuttavia, nel confronto con tecnologie più personalizzanti e sofisticate, la vecchia televisione generalista non sembra più in sintonia con «il mondo nuovo». La difesa del suo linguaggio, della sua marca distintiva, si è trasformata in un’ossessiva rincorsa alla quotidianità: la televisione di piazza degli anni Ottanta e Novanta, basata sulle storie di vita e sulla personalizzazione del consumo, è diventata la televisione di pancia delle ultime stagioni. Un continuo inseguimento dei luoghi comuni e delle esperienze del mondo, in una ripetizione immobilizzatrice che condanna la televisione all’incapacità di esplorare i nuovi territori dell’immaginario. Il risultato? Il linguaggio televisivo è stato inquinato dalla dialettica comune, cadendo in un’impasse in cui non vi è differenza tra la vita dell’uomo della strada e le immagini riprodotte nella scatola magica. Ma se la televisione non regala al suo pubblico qualcosa di diverso, che gusto c’è?

Del resto, anche un osservatore «sperimentato» della TV come Maurizio Costanzo ha recentemente segnalato l’opportunità di una radicale riforma dei palinsesti televisivi, con accenti che sembrano in linea con lo scenario fin qui brevemente descritto. Secondo Costanzo, siamo di fronte al «sintomo di un malessere serio della televisione generalista, dove ci sono scelte contraddittorie, dove si garantisce un approfondimento per poi ignorarlo, dove si guardano con apparente interesse alcune novità per poi, subito dopo, chiudersi all’interno di format conosciuti e in genere di buon risultato. Si dimentica, in queste occasioni, che le trasmissioni crollano all’improvviso e raramente danno segni, chiamiamoli pure avvertimenti. Chissà, forse sta avvicinandosi il momento da alcuni spesso auspicato – e mi metto tra questi – di rileggere e ridisegnare interamente i palinsesti».

Troppo spesso, la riflessione e l’analisi critica sulla TV si sono soffermate a scandagliarne i linguaggi. Ma la televisione non è una semplice sommatoria di immagine e suono; è piuttosto una complessa sintesi di funzioni socio-culturali. Nei linguaggi del «piccolo schermo», si compenetrano tradizione e innovazione: da un lato, elemento confermativo della nostra soggettività; dall’altro, anticipazione delle tendenze e delle aspettative collettive. Tra questi due estremi – tra i quali, ovviamente, non esiste mai equilibrio di tipo positivistico – si estendono le possibilità di concretizzazione del mezzo televisivo: mentre la televisione generalista è più passato che futuro, ci sono pochi dubbi in merito al fatto che le nuove forme di televisione – a dominante tecnologica digitale – incarnino oggi più l’innovazione che non la tradizione.

Un valore, quello della TV e della sua «forma culturale», nettamente superiore rispetto al resto d’Europa: per gli italiani la televisione è stata il libro di testo della modernità. Una modernità forse non sofisticata, forse arretrata e spesso sofferta, ma che ha gettato le condizioni del linguaggio comune, delle forme di interazione, della cultura e dell’identità nazionale. Più di altri sistemi di comunicazione, e forse di qualche agenzia di socializzazione, la televisione ha svolto la funzione di sistema unificatore, di districatore delle differenze, assurgendo a luogo di conferma, anche se simbolica, della nostra conoscenza e cultura condivisa. Non c’è dubbio: nel primo mezzo secolo di vita della televisione, poche cose come la TV hanno raccontato fedelmente il carattere degli italiani in tutte le sue sfaccettature.

Da questo punto di vista, i generi più diffusi – il quiz, il varietà, lo sport, ma anche l’informazione – costruiscono le grandi pagine intorno a cui la società italiana finisce per ricomporsi come pubblico, riacquisendo cioè una dimensione di identità collettiva. La grande molteplicità d’uso della televisione le ha dunque permesso di «spalmarsi» sulle disuguaglianze socio-culturali delle persone, poiché come ci ricorda lo stesso presidente della RAI, Claudio Petruccioli, in un recente intervento pubblico: «il mezzo in sé […] investe […] tutti in forma spudoratamente egualitaria. Se l’analfabeta si trova davanti lo scritto, dice non capisco. L’incolto trova difficile il discorso colto, e dice non capisco. Di fronte alle immagini di uno schermo acceso (lo specifico TV), nessuno dice non capisco. Ciascuno capisce a suo modo, sulla base degli strumenti e dell’esperienza di cui dispone».

La televisione non è stata e non può essere un mezzo di esclusiva esplorazione del nuovo, ma conduce i suoi pubblici, a piccoli passi, avanti verso la modernità. La televisione deve raccontare il cambiamento. E la ragione per cui ha avuto un’impressionante fortuna nella società italiana è che essa rappresenta il primo mezzo di comunicazione teso a fare del cambiamento culturale il proprio format, sottraendosi alla gabbia di essere semplice notaio della realtà sociale. Un modello, quello televisivo, che paradossalmente è entrato in crisi per l’incapacità di rinnovarsi, in una deriva che assiste allo sfaldamento delle basi culturali, ideologiche e normative che lo sorreggevano: si tratta del fenomeno – o meglio, dell’intreccio di fenomeni – descritto come «disinfiammazione televisiva». Un tema, quest’ultimo, su cui il nostro gruppo di studiosi e giovani ricercatori è da tempo al lavoro, nonostante molte e autorevoli opinioni discordanti soprattutto tra operatori e «addetti ai lavori».

Mentre «la società italiana è andata avanti nel suo processo di liberalizzazione, anche dopo la fine dei binari, fino all’esplosione delle identità sociali», la televisione ha infatti dimostrato di arrancare, esaurendo la propria spinta propulsiva. E, nei momenti di crisi, quel che occorre coltivare è proprio la restaurazione di un’identità, il rilancio di una vocazione, la difesa di una tradizione. Diventa, allora, tutt’altro che una scelta minoritaria rilanciare con spirito diverso il messaggio della media education, superando le «convergenze parallele» che dividono i media e la scuola. Nell’idea di televisione che lo stesso Ciampi ha manifestato nel corso di numerosi interventi, si può infatti cogliere un elemento importante proprio nella sua costante attenzione verso i giovani. Non si tratta solo di nutrire diffidenza verso il rapporto assai stretto che essi intrattengono con le tecnologie ed esperienze mediali, perchè di questo sono capaci tutti; si tratta, invece, dell’incitamento costante a investire sulla qualità di questo rapporto. Un intento senza dubbio ambizioso e persino difficile da tradurre in azioni e iniziative specifiche, ma infinitamente più realistico ed efficace delle riflessioni che, accanendosi contro le «quantità del consumo televisivo, finiscono per apparentare la televisione a un rubinetto che basta graduare.

Credo infatti che, sulle dimensioni del movimento post-televisivo, parli chiaro la segnaletica dei fenomeni sociali, prima ancora che i «numeri» e le percentuali. Il più vistoso dei trend in questione è certamente l’invecchiamento del pubblico: una tendenza che ha avuto l’effetto di mascherare le prime crepe nel consumo di TV proprio grazie all’allungamento della vita e al forte interesse per il teleschermo che tende a concentrarsi nella terza età. E ha stranamente rimosso, dal campo visivo di ricercatori e «addetti ai lavori», un tema che da diverse stagioni tentiamo di segnalare: la fuga dei giovani da un medium che, in passato, era considerato quasi sinonimo dell’età e della cultura giovanile. Si comprende allora come, in un paese in cui tanti hanno fatto fortuna attaccando la presunta «tele-dipendenza» dei minori, si faccia oggi fatica a riconoscere comportamenti di segno inverso, che si accompagnano a scelte culturali e comunicative indubbiamente più innovative e personalizzate, tali da prospettare persino una qualche forma di evoluzione della nostra «specie comunicativa». Qui le statistiche – e, in particolare, quelle ISTAT – non lasciano molti dubbi: nell’orizzonte giovanile la televisione non è più centrale da un pezzo, ma la sua presenza tende piuttosto a sfumare sullo sfondo come uno svago tra tanti altri.

E anche le contestazioni pregiudiziali e le infiammazioni che puntualmente si ripropongono contro l’Auditel e il suo sistema di rilevazione appaiono espressione di una rozzezza pre-scientifica che finisce, paradossalmente, per legittimare il paradigma culturale di cui l’Auditel è espressione. Senza fare difese d’ufficio, è difficile però ignorare un efficacissimo motto del nostro istituto nazionale di statistica, l’ISTAT, numerus rei pubblicae fundamentum: il numero, dunque, è fondamento di qualunque affare pubblico e dimensione di convivenza collettiva. Occorre riconoscere, tuttavia, che non sono gli ascolti il «buco nero» della televisione generalista. Tutt’altro. La televisione deve coltivare il pubblico e, al tempo stesso, coltivare la propria innovazione: di fatto, i dati provano che esistono condizioni per un rilancio del mezzo proprio nelle dimensioni esplorative di consumo, in cui si rintracciano le platee più sfuggenti e, in particolare, i pubblici giovanili. Così la televisione non si limita a «naufragare» nel presente, ma si candida anche per il futuro.