Tempesta globale?

Entro il 2025, due terzi della popolazione mondiale potrebbero trovarsi in condizioni di stress idrico.

di Paul Betts (Fonte OIL)

Fino a 50 anni fa, l’idea che il mondo avrebbe potuto affrontare una profonda crisi idrica con conseguenze gravi e imprevedibili sarebbe stata considerata alquanto improbabile.

Nell’opinione comune, l’acqua rappresentava una risorsa infinita. All’epoca, però, la popolazione mondiale non era neppure la metà di quella attuale, gli abitanti delle regioni industrializzate, sviluppate e in via di sviluppo non avevano le medesime possibilità finanziarie e consumavano meno carne e calorie e, pertanto, anche la quantità d’acqua necessaria a produrre il cibo era più limitata.

La rapida urbanizzazione e lo sviluppo dei trasporti di massa e di automobili economiche hanno determinato un’esplosione della domanda di energia elettrica, uno dei principali settori industriali responsabili del consumo idrico.

UNA GESTIONE OCULATA

Eppure, già 50 anni fa, le prime nubi minacciose cominciavano a oscurare l’orizzonte. La maggior parte degli economisti e degli esperti di scienze sociali sostiene che la principale fonte delle crescenti pressioni sulle risorse idriche derivi innanzitutto dall’incremento costante della popolazione mondiale – soprattutto nelle zone più povere e meno sviluppate – nonché da un aumento ancora più rapido del consumo d’acqua per l’agricoltura, l’industria, l’urbanizzazione, la produzione di energia elettrica e le coltivazioni di biocombustibili (per citare solo alcuni dei “competitor” che si spartiscono le riserve idriche). Tutto ciò, senza tenere conto del possibile impatto dei cambiamenti climatici sulle forniture d’acqua in termini di ritiro dei ghiacciai, riduzione della portata di fiumi e ruscelli, periodi di grave siccità in varie regioni, più e meno sviluppate. Ecco dunque che da risorsa infinita, l’acqua è oggi sempre più scarsa.

In una relazione delle Nazioni Unite, intitolata “Living in a changing world” e redatta 13 anni fa, dopo la determinazione, da parte dei membri dell’ONU, degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio, si legge: “C’è acqua a sufficienza per tutti. Il problema che dobbiamo affrontare oggi è legato soprattutto alla gestione di tali risorse, che vanno condivise in modo equo, assicurando al contempo la sostenibilità degli ecosistemi naturali. Per il momento non siamo ancora riusciti a raggiungere questo equilibrio.”

ALLA RICERCA DI UN EQUILIBRIO

Realizzare tale obiettivo è sempre più difficile ma quanto mai urgente. La carenza d’acqua occupa una posizione prioritaria nei programmi e costituisce una delle principali preoccupazioni di governi, autorità politiche, industrialisti, ambientalisti, economisti e scienziati, al pari di problematiche strettamente dipendenti e correlate all’acqua, come fame, povertà, salute e igiene, produzione alimentare, elettrica e cambiamenti climatici. L’ONU ha già lanciato un campanello d’allarme: entro il 2025, 1,8 miliardi di persone vivranno in zone colpite da una grave carenza d’acqua, mentre due terzi della popolazione mondiale potrebbero dover affrontare condizioni di stress idrico. In altre parole, potrebbero avere difficoltà a ottenere acqua pulita a causa dell’esaurimento delle risorse. Secondo l’agenzia dell’ONU Unctad (United Nation Conference on Trade and Development), la domanda mondiale di cibo aumenterà del 70 percento entro il 2050, di pari passo con l’espansione della popolazione, che passerà dagli attuali 6,8 a oltre 9 miliardi di persone, e con il continuo cambiamento dei regimi alimentari determinato dai miglioramenti socioeconomici, soprattutto nei paesi

BRIC e dell’OCSE. La Banca Mondiale stima che 1,4 miliardi di persone vivano in condizioni di povertà estrema, ovvero con meno di 1,25 dollari al giorno, e molti, se non tutti, soffrono di una grave mancanza di acqua pulita. La Banca Mondiale sostiene inoltre che i cambiamenti climatici rischiano di alterare profondamente gli schemi futuri di disponibilità e impiego delle risorse, aggravando ulteriormente i livelli di stress idrico e insicurezza degli approvvigionamenti, sia su scala globale che in settori collegati al consumo intensivo di acqua.

ELETTRICITà A RISCHIO

Un esempio su tutti è l’elettricità. Uno studio recente – condotto dall’Institute for International Applied Systems Analysis con sede in Austria e incentrato su come l’incremento delle temperature dell’acqua e la diminuzione della portata dei fiumi potrebbero influenzare gli impianti idroelettrici, quelli nucleari e quelli a combustibili fossili che utilizzano l’acqua negli impianti di raffreddamento – ha dimostrato che molti paesi europei potrebbero assistere a una riduzione della capacità di generazione elettrica e a un incremento dei prezzi dell’elettricità in conseguenza dei cambiamenti climatici. Il problema, però, ha una portata globale. Da un altro studio, pubblicato all’inizio di quest’anno dall’Agenzia Internazionale per l’Energia, si evince che il consumo idrico annuale per la produzione di energia a livello mondiale potrebbe verosimilmente raddoppiare entro il 2035, passando dagli attuali 66 miliardi a 135 miliardi di metri cubi.

ACQUA E CIBO

Se il settore della produzione elettrica è un importante consumatore di acqua, l’agricoltura è di gran lunga il più dispendioso, responsabile dello sfruttamento ii circa il 70 percento delle riserve idriche totali, rispetto al 20 percento attribuibile all’industria e al 10 percento destinato ai consumi domestici. La Food and Agriculture Organisation (FAO) dell’ONU sostiene che, sebbene il fabbisogno quotidiano di acqua potabile sia molto contenuto – quattro litri pro capite – l’acqua utilizzata ogni giorno per produrre il cibo per una persona è molta di più, tanto che varia dai 2000 ai 5000 litri. Da anni, la FAO dichiara che, sebbene finora non vi siano state crisi idriche globali, i gravi problemi legati alla sicurezza idrica e alimentare in alcuni paesi e regioni in via di sviluppo necessitano di una soluzione immediata. L’agenzia ritiene che “se vogliamo evitare crisi alimentari

in futuro, dobbiamo investire di più per ottenere miglioramenti in termini di produttività agricola nei paesi in via di sviluppo, utilizzando tecnologie esistenti e nuove. Serve una politica mirata per creare un ambiente adatto all’aumento della produttività idrica.”Questi bisogni sono ancora più impellenti, dal momento che la FAO prevede che un paese in via di sviluppo su cinque soffrirà di mancanza d’acqua entro il 2030, con Medio Oriente, Nord Africa e parte dell’Asia interessati da scarsità e stress idrico. In uno studio recente, la Banca Mondiale ha sottolineato i costanti progressi compiuti per migliorare la produttività agricola negli ultimi 40 anni. L’evoluzione delle colture irrigate – aggiunge – rappresenta un esempio di successo, considerato che nella seconda metà del XX secolo la produzione alimentare è più che raddoppiata, in parte anche grazie all’innovazione e alla tecnologia. Al contempo, però, la Banca Mondiale ammonisce che “le riserve idriche saranno sufficienti solo se ci impegniamo a migliorarne l’utilizzo, soprattutto nel settore agricolo, che è il principale consumatore d’acqua.” Il problema è che sembra impossibile ottenere un consenso politico su quale sia il modo migliore per conseguire tale efficienza.

Al momento, ad esempio, i governi e le autorità politiche hanno pareri contrastanti sulla produzione di massa di biocombustibili. Infatti, poiché sempre più paesi inseriscono queste risorse nei loro mix energetici, è opportuno chiedersi se i biocombustibili siano effettivamente un’alternativa sostenibile, considerata la quantità d’acqua necessaria per sviluppare tali colture.

L’AVVENTO DEL FRACKING

Questo ci riporta all’attuale intenso dibattito sul fracking, il processo di estrazione di petrolio e gas di scisto tramite la fratturazione idraulica della roccia attraverso l’utilizzo di liquidi ad alta pressione. Il dubbio è se questa sia davvero un’opzione di energia sicura nel lungo termine o si tratti piuttosto di un pericolo per l’ambiente, con il conseguente rischio di contaminare preziose falde acquifere. Molti governi, soprattutto quello del Regno Unito, vogliono ora emulare gli USA, dove il gas di scisto ha registrato un boom, incrementando il gettito fiscale, la creazione di nuovi posti di lavoro e la riduzione delle importazioni di energia e di oli combustibili per riscaldamento. Finora, sembrano prevalere le argomentazioni economiche a favore del fracking, ma altrettanto decisa è la reazione popolare contro questo processo, non solo in Gran Bretagna,ma anche in altri paesi che stanno soppesando l’eventualità di adottare questa tecnica controversa di estrazione di gas e petrolio. Sebbene il governo britannico abbia incoraggiato il settore a proseguire e avviare una consistente campagna di perforazione, offrendo quello che George Osborne, Cancelliere dello Scacchiere, definisce “il più accomodante regime fiscale nell’universo del scisto”, le proteste cittadine per ora hanno avuto la meglio.

Cuadrilla Resources, la società britannica per il gas di scisto, presieduta dall’ex CEO di BP, John Browne, ha recentemente sospeso le proprie attività di perforazione nel giacimento di Balcombe, una cittadina a sud di Londra, divenuta scenario di contestazioni contro gli sforzi del governo di sviluppare il settore del gas e del petrolio di scisto.

“TECNOLOGIA BLU” PER IL MEDIO ORIENTE

Oltre al Regno Unito, anche Russia, Cina, Argentina e Australia guardano con ottimismo a un futuro energetico basato sullo sfruttamento dello scisto. Se dunque, come molti si aspettano, le tesi economiche a sostegno del fracking dovessero effettivamente prevalere – soprattutto qualora i nuovi sviluppi tecnologici riuscissero a calmare le preoccupazioni degli ambientalisti riguardo alla contaminazione idrica – la rivoluzione dello scisto avrà un impatto sostanziale anche sugli attuali “padroni del petrolio” nel Medio Oriente, alla luce dell’inevitabile diminuzione della domanda di greggio da Arabia Saudita, Iran ed EAU. Eppure, anche per questi paesi potrebbe esserci un risvolto positivo, che in ultima analisi apporterebbe notevoli benefici agli sforzi globali per preservare le sempre più carenti risorse idriche.

Il Medio Oriente potrebbe, infatti, diventare un laboratorio tecnologico emergente nel segmento dell’acqua. Questi paesi ricchi di petrolio hanno denaro e interesse a sufficienza per sviluppare nuove tecnologie idriche, piuttosto che impianti di desalinizzazione a elevato dispendio energetico. La regione del Golfo, in particolare, potrebbe trasformarsi in un centro d’eccellenza della “tecnologia blu”, non solo fornendo l’acqua necessaria per sostenere l’aumento della sua popolazione, ma anche come influente attore internazionale nella campagna contro il problema globale della scarsità idrica, diventando la testa di lancia e il finanziatore numero uno delle attività di ricerca e sviluppo necessarie in tal senso. L’acqua, infatti, non rappresenta solo una “criticità” geopolitica,ma è anche una cospicua fonte di business e un diritto umano. Sempre più società attribuiscono una grande importanza alla gestione dell’acqua, sia a livello interno che nella propria catena di fornitura. Con la sete che aumenta nei paesi ricchi come in quelli poveri, la questione compare con insistenza nelle strategie di responsabilità sociale d’impresa e sostenibilità di molte aziende.

L’IMPEGNO DELLE MULTINAZIONALI

Per molte grandi aziende si tratta non solo di un’opportunità filantropica,ma anche di un buon affare. Si prenda ad esempio il settore igienico-sanitario: attualmente, 2,5miliardi di persone al mondo non hanno accesso ad acqua pulita, non solo da bere,ma anche per i più elementari bisogni sanitari, e 1 miliardo di persone si addormenta ogni notte con la fame. In mancanza di soluzioni tempestive e concrete, la situazione è destinata a diventare ancora più urgente, a fronte di un continuo aumento della popolazione mondiale. Questo scenario ha persuaso la Gates Foundation a sponsorizzare un importante programma per affrontare il problema dei servizi igienico-sanitari di base, non solo per migliorare le condizioni di vita e salute dei più poveri e affamati del mondo, ma anche per i conseguenti benefici economici. L’Unicef ha infatti calcolato che ogni dollaro speso a favore dei servizi igienico-sanitari si traduce in un aumento di 5,50 dollari della produttività economica. Svariate multinazionali, come GeneralElectric, Nestle, PepsiCo, Kraft,Nike, hanno assunto un impegno attivo a favore di programmi di sostenibilità a lungo termine.

Da parte sua, il colosso dei beni di consumo anglo-olandeseUnilever, e in particolare il suo CEO, Paul Polman, si battono direttamente quando si tratta di mettere in discussione lo status quo dell’azienda e adottare quello che la società definisce un Piano decennale di vita sostenibile (10-year Sustainable Living Plan).

“Un’azienda non sopravvive in una società in declino, perciò è stupido pensare che basti stare a guardare da fuori quello stesso sistema da cui dipendono,” ha dichiarato Polman all’inizio di quest’anno, aggiungendo che “non si tratta di idealismo” e spiegando come tutte le azioni intraprese da Unilever siano strettamente correlate ai propri marchi e obiettivi di business. Infatti, l’azienda sostiene l’importanza dei servizi igienico-sanitari proprio tramite i suoi brand. Per Polman è solo una questione di buonsenso. Un esempio è il sistema di depurazione dell’acqua sviluppato da Unilever, che non richiede gas né elettricità e che il CEO ama descrivere come “il cellulare dell’acqua potabile”. Polman ha fatto appello a leader aziendali, politici e Organizzazioni Non Governative (ONG) affinché abbraccino la stessa mentalità e riconoscano l’impossibilità di affrontare da soli le sfide sociali e ambientali del mondo moderno. Il CEO ritiene anche che il contesto politico sia in preda a una crisi e che quindi, mai come ora, spetti alle aziende svolgere un ruolo più attivo. L’incapacità dei leader mondiali di stipulare accordi per combattere i cambiamenti climatici, così come i modelli di trading globali, sono sintomi di uno sfacelo politico. Polman è convinto che, in assenza di intese tangibili fra governi, sia possibile perseguire la sostenibilità tramite coalizioni di aziende e talvolta ONG, sebbene a suo avviso queste ultime siano spesso concentrate su singoli problemi.

UNA RESPONSABILITà DIFFUSA

Considerata la lacuna a livello politico, il mondo aziendale ha ora in mano le redini della situazione in numerose iniziative, come la moratoria sulla deforestazione illegale e lo spreco di acqua. Ciò presuppone, al contempo,l’adozione di un modello di business totalmente nuovo, in una società che sta tentando di riprendersi dalla crisi finanziaria e intende abbandonare un sistema basato sulle regole, a vantaggio di uno maggiormente orientato ai principi. La sfida di questo nuovo business consiste nel dimostrare come un’azienda non si limiti a prendere, ma sappia anche dare il suo contributo alla società e all’ambiente. Polman riassume così questo concetto: “Se pensate a ciò che è giusto e mettete il cliente al centro delle vostre azioni, vedrete che, alla fine, a beneficiarne saranno anche i vostri azionisti. Non sarà un obiettivo, ma una naturale conseguenza. E forse riusciremo a riportare il mondo sulla retta via.” Si potrebbe tranquillamente aggiungere che è necessario garantire risorse idriche sufficienti a migliorare le condizioni di vita di quei 2,5 miliardi di persone al mondo che soffrono di gravi stress idrici e a soddisfare i crescenti bisogni di una popolazione urbana sempre più assetata, fattori che, in assenza di un progresso significativo, forniscono tutti gli ingredienti necessari a generare una vera e propria “tempesta globale”.

Related Posts
Total
0
Share