Ovvero, rivoluzionario e accessibile a tutti
di Alessandro Ovi
Disruptive Technology (DT) è un temine coniato nel 1995 da Clayton M.Christensen, professore a Harvard, che indica una innovazione tecnologica che in tempi relativamente rapidi si impone rispetto alle esistenti e conquista un mercato esistente o, praticamente, dal nulla ne fa nascere uno nuovo.
L’applicazione del digitale alla musica (con i CD che hanno cancellato i dischi di vinile e i lettori MP3 che stanno cancellando i CD) o la fotografia digitale che ha sostituito le pellicole sono un esempio del primo caso. L’avvento dei telefoni cellulari lo è del secondo.
Vi sono poi casi di innovazioni tecnologiche che promettevano di essere disruptive e non lo sono state (almeno per ora), quali i libri elettronici rispetto ai libri di carta.
Il tema, di grande interesse sia dal punto di vista della analisi storica sia da quello delle strategie dell’innovazione, è stato approfondito dallo stesso Christensen e da altri con analisi molto interessanti, per le quali rinviamo alla abbondante letteratura reperibile su Internet con qualunque motore di ricerca.
Ciò che più qui interessa è il punto di vista di quelli che fanno politica della innovazione tecnologica. Per loro è diventato molto importante cercare di comprendere quali, tra i tanti frutti della ricerca, possono portare allo sviluppo di DT, e ciò condiziona, anche profondamente in alcune situazioni, le strategie di organizzazione e di finanziamento della ricerca stessa.
La caccia alle DT si collega a un altro fenomeno descritto anch’esso da due parole a effetto: i big bets, un termine preso dal gioco d’azzardo, per indicare la caccia a risultati poco probabili ma di grande impatto.
Se ne parla sempre più spesso, non solo negli ambienti scientifici, ma anche in quelli industriali.
Come succede in tutte le grandi scommesse dare consigli è molto azzardato. Tuttavia, volendoci provare ne indichiamo qui una che, a nostro parere, vale certamente la pena di fare.
Non si tratta dell’argomento più promosso e dibattuto oggi, e cioè le ricerche sulle cellule staminali, embrionali o adulte che siano.
Sono ovviamente ricerche importantissime, in grado di aprire le porte della medicina rigenerativa e della ingegneria dei tessuti biologici .
Vi sono tuttavia motivi di ritenere che quando si passerà dalla ricerca alle applicazioni, non avranno la caratteristica di DT.
Non si tratterà di una tecnologia che potrà andar bene per tutti, ma di nuovi processi di personalizzazione delle terapie che richiederanno non solo un cambiamento della cultura medica, ma anche una profonda evoluzione delle infrastrutture sanitarie.
La loro diffusione non sarà perciò di tipo «virale» come quella dei telefoni cellulari, di Internet, dei motori di ricerca o dei lettori MP3.
Il big bet su cui ci piacerebbe puntare è un altro.
Si tratta della applicazione di nanotecnologie alla progettazione e produzione di celle solari a effetto fotovoltaico di nuova generazione.
Vediamo perché.
La conversione diretta dell’energia solare in elettricità, utilizzando l’effetto fotovoltaico, non è una novità.
La prima fase di sviluppo industriale si basava sull’utilizzo del silicio cristallino ed è iniziata trenta anni fa.
Ma l’efficienza con cui il silicio assorbe l’energia solare è bassa e di conseguenza le quantità necessarie sono alte. Il silicio è anche molto costoso ed è quindi stato sempre evidente che questa tecnologia, per quanto affascinante, avrebbe potuto essere utilizzata solo in applicazioni molto specialistiche, come quelle spaziali, a causa del rapporto molto elevato tra costi e prestazioni.
Inoltre, dato che i pannelli solari di questo tipo sono fragili, il loro montaggio è delicato ed esiste un serio rischio di degrado in condizioni ambientali avverse.
La seconda fase è iniziata dieci anni fa, con la comparsa delle prime celle solari a film sottili che, anziché essere a base di silicio, sono costituite dai cosiddetti CIGS (copper-indium-gallium selenide), nuovi materiali semiconduttori.
Grazie al loro uso, seguendo i metodi produttivi di diffusione sotto vuoto, già ben noti per la produzione delle memorie su disco fisso, è possibile raggiungere spessori delle celle centinaia di volte più sottili che con il silicio cristallino. Quando però si vanno a vedere i costi a livello industriale il quadro cambia.
Le memorie su disco fisso, infatti, hanno dimensione molto inferiori a quelle delle celle solari e per loro il costo per unità di superficie non è così critico. Lo diventa quando si passa dai centimetri quadri delle memorie alle decine di metri quadri dei pannelli.
La terza fase che sta partendo proprio ora grazie agli ultimi sviluppi delle nanotecnologie promette invece grandi miglioramenti.
La capacità di progettare e assemblare materiali a livello nanometrico con proprietà completamente nuove rende possibile una ottimizzazione spinta del processo fotovoltaico.
Il materiale da cui si parte è sempre un semiconduttore come CIGS, CIS (copper-iridium selenide), o polimeri fotovoltaici di nuova generazione.
La novità sta nel fatto che essi sono utilizzati sotto forma di inchiostro che viene depositato secondo tecniche tipiche e ben note della stampa rotativa. Caratteristica di questi inchiostri è che si può progettarli con formule che permettono l’autoassemblaggio a livello molecolare di strutture geometriche, in un preciso ordine tridimensionale, nell’intervallo tra 1 e 100 nanometri, raggiungendo efficienze dell’effetto fotovoltaico superiori a quelle del silicio e con costi di produzione industriale di un ordine di grandezza inferiori.
La tecnologia di deposizione per stampa permette poi di utilizzare materiali di supporto che sono anche essi meno costosi di quelli necessari alla diffusione sotto vuoto, possono essere flessibili (sono presentati sotto forma di rotoli), resistenti e facili da maneggiare.
Sulle nanotecnologie applicate CIGS e CIS sono impegnate rispettivamente Nanosolar in California e, in Germania, Solarium e Wurth Solar.
Con polimeri fotovoltaici di vario tipo sta lavorando Konarka nel Massachussetts.
Siamo oramai al momento in cui si esce dalla ricerca e stanno arrivando i primi investimenti di dimensioni significative per produzioni a livello industriale.
Nanosolar, per esempio ha già investito 100 milioni di dollari per una fabbrica in Silicon Valley che produrrà celle per 400 MW all’anno e ne sta progettando una seconda a Berlino.
C’è ancora tanta ricerca da fare in almeno sette linee di innovazione: nanocomponenti (che portano all’autoassemblaggio delle molecole), semiconduttori stampabili, elettrodi stampabili, processi termici rapidi, materiali di supporto a basso costo, processi di stampa rotativa, assemblaggio rapido.
I margini di miglioramento quindi sono ampi e se, come si dice, già allo stato attuale delle conoscenze il prezzo del pannello scende da 6.000 dollari al KW a 1.500, è possibile immaginare che tra non molto si possa arrivare ai 1.000 dollari, vicino alla soglia in cui può diventare attraente per un privato far «diventare solare» la sua casa.
Già oggi molti architetti che sentono arrivare una nuova moda offrono case solari ai loro clienti più ricchi. Quando la moda diventerà di massa allora può darsi davvero che assisteremo al lancio di una nuova DT, prima ovviamente solo per un uso complementare alla rete elettrica alimentata in gran parte bruciando carbone e gas e poi, chissà, con l’avvento di sistemi di stoccaggio e di trasporto di energia come l’idrogeno, anche per una vera e propria sostituzione della economia dei combustibili fossili con quella delle energie rinnovabili.
In questo scenario tre sono gli attori che dovrebbero «drizzare le orecchie» e lanciare la grande scommessa.
Prima l’industria, per essere pronta a lanciare produzioni di massa di pannelli fotovoltaici con le nuove tecnologie.
Poi i produttori e i distributori di energia elettrica, soprattutto quelli locali, quali le municipalizzate, ai quali toccheranno i piani di collegamento in rete per privati e aziende che in modo diffuso cominceranno ad autoprodurre energia con pannelli solari e dovranno essere messi in condizione di vendere quella comunque prodotta di giorno quando non saranno loro stessi a utilizzarla.
Infine i governi, cui spetta il compito di utilizzare i piani di incentivo previsti dalla necessità di rispettare i parametri del protocollo di Kyoto a favore delle energie rinnovabili; il loro intervento potrà accelerare l’affermarsi delle «nanocelle solari» fino al momento in cui avranno gambe per camminare da sole e diventare davvero disruptive.