Si può “deradicalizzare” un terrorista?

Dopo anni di iniziative per prevenire i fenomeni di radicalizzazione, non è ancora chiaro se le nuove misure volte a reinserire una persona nella società funzionino.

di Obi Anyadike

Malam Aminu è un uomo dal pizzetto pulito e uno sguardo inquietante. Quando l’ho incontrato per la prima volta, nel 2015, era un detenuto nella prigione di Kuje in Nigeria, e uno dei membri più anziani di Boko Haram. Era anche uno dei 41 soggetti coinvolti in un esperimento condotto dal governo nigeriano.

Di fronte a una lunga guerra contro gli insorti nel remoto nordest, la Nigeria aveva deciso una nuova strategia per combattere l’estremismo: un misto di amnistia e interventi “rieducativi” sulle reclute jihadiste. L’idea era di combattere Boko Haram non solo sul campo di battaglia.

Il programma è stato progettato e gestito da Fatima Akilu, una psicologa che si è formata nel Regno Unito e negli Stati Uniti. Akilu si è ispirata a piani di intervento nelle prigioni in Arabia Saudita, Singapore e Australia, riadattandoli alla Nigeria. Il nuovo approccio ha comportato cambiamenti in diversi campi: modifica del curriculum scolastico per promuovere il “pensiero critico”, revisione di un sistema giudiziario sclerotico, potenziamento dei servizi di assistenza psicosociale.

Le soluzioni sono complesse come le ragioni del radicalismo”, mi ha spiegato Akilu.

Gli interventi sono stati condotti prevalentemente a Kuje e sono stati portati avanti con prigionieri che erano stati condannati o sospettati di terrorismo. L’obiettivo era la completa deradicalizzazione: eliminare totalmente credenze, valori e comportamenti estremisti.

Ciò ha rappresentato un immenso cambiamento culturale per la Nigeria. Le sue prigioni sono famose per l’incuria e gli abuso sui detenuti, ma nell’ala “de-rad” di Kuje – costruita con fondi donati alla Nigeria dall’Unione europea – la situazione era diversa. L’idea era quella di costruire un rapporto umano tra i presunti estremisti, non considerati solo detenuti, e le guardie carcerarie, la cosiddetta “squadra operativa”. Il loro compito era quello di valutare le esigenze degli estremisti a loro affidati, per identificare i modi più efficaci per deradicalizzarli.

Quando ho incontrato per la prima volta Aminu, era vestito con un dashiki bianco e sedeva in un’aula climatizzata in una nuova ala separata dal resto della prigione sovraffollata e poco salutare. Sul lato de-rad, i “detenuti” venivano trattati in modo diverso. Potevano indossare i propri abiti e avere accesso a una nuova moschea, a un’area sportiva e a programmi di formazione professionale adeguatamente attrezzati. Non sorprende che fossero odiati dalle centinaia di detenuti regolari di lunga durata.

“Cerchiamo di fare il possibile per aiutarli”, afferma Wahaab Akorede, responsabile del programma Kuje. “Diciamo loro che non facciamo parte delle forze di polizia o della sicurezza, ma siamo medici. Ecco perché si parla di terapia”.

Proteggere e prevenire

Negli ultimi 20 anni, mentre le detenzioni di terroristi sono aumentate in tutto il mondo, i programmi di deradicalizzazione come quello di Kuje si sono ampiamente diffusi. Le autorità nigeriane e di altri paesi erano preoccupate che si trattasse semplicemente di una specie di porta girevole da cui i terroristi potevano ritornare nella comunità una volta che le loro condanne fossero state scontate. Tuttavia, le detenzioni a tempo indeterminato, come quelle nella baia di Guantánamo, non sono mai sembrate una risposta popolare o legale al problema.

Le iniziative in corso nelle carceri variano dalle chat informali monitorate con un imam locale (una tecnica privilegiata a Victoria, in Australia) a modelli strutturati come quello gestito dal governo in Arabia Saudita. L’approccio saudita comprende una fase di consulenza psicologica in prigione, la terapia riabilitativa e quindi una assistenza psicologica successiva alla scarcerazione.

Riad afferma che la recidività è estremamente bassa, ma i ricercatori indipendenti sono scettici sul numero ufficiale: ci sono stati almeno 11 casi di alto profilo di partecipanti che sono tornati al terrorismo. Anche i metodi sauditi sono stati messi in discussione. Per cominciare, i partecipanti sono generalmente semplici sostenitori di organizzazioni terroristiche e non militanti.

Il programma si concentra anche sulla prevenzione di attacchi terroristici interni. Potrebbe quindi chiudere un occhio sull’esportazione della jihad all’estero, il che significa che la deradicalizzazione “non avviene realmente”, ha scritto Tom Pettinger, un ricercatore dell’Università di Warwick, in un documento del 2017.

Altri modelli, molti dei quali in Europa, cercano in primo luogo di impedire alle persone di radicalizzarsi. Il programma britannico Prevent, per esempio, cerca sia di sensibilizzare le comunità sui rischi della radicalizzazione sia di attuare interventi. Chi lavora nelle scuole, nelle università e negli enti locali è tenuto a riferire su chiunque mostri tendenze radicali, un sistema che secondo il governo ha evitato a più di 1.200 persone di aderire a gruppi estremistici.

Sempre più, tuttavia, i programmi di prevenzione si sono concentrati su Internet. Il web è visto come una scorciatoia pericolosa per la radicalizzazione, fornendo “un modo economico ed efficace per comunicare, legare e fare rete con aderenti a movimenti estremisti”, afferma Daniel Koehler, direttore e fondatore dell’Istituto tedesco di studi sulla radicalizzazione e la de-radicalizzazione.

Osservando gli ex estremisti tedeschi di destra, Koehler ha scoperto che il presunto anonimato di Internet ha incoraggiato le persone a prendere posizioni estreme. La velocità e la saturazione della comunicazione online possono facilmente accelerare i processi di radicalizzazione. Bloccati in una bolla informativa, le persone più deboli emotivamente sono esposte a punti di vista sempre più estremi e passo dopo passo si ritrovano a condividere posizioni radicali.

Twitter, Facebook e YouTube sono tasselli importanti di questa macchina, guidata in gran parte dall’ISIS, che ha dato grande spazio alle sue operazioni sui social media. Al culmine del “califfato” nel 2014, l’ISIS aveva team dedicati alla creazione e alla diffusione di messaggi propagandistici dall’Afghanistan all’Africa occidentale in un ciclo ininterrotto di notizie 24 ore su 24. Nel 2014, sono stati stimati tra 46.000 e 90.000 account di supporto all’ISIS attivi in tutto il mondo, sia ufficiali che non ufficiali, in una varietà di lingue.

La maggior parte dei tentativi di sradicare il radicalismo online si è concentrata sulla chiusura degli account di coloro che predicano la violenza: Twitter ha affermato di aver sospeso più di 1,8 milioni di account dal 2015 al 2018. Questo tipo di provvedimenti sono efficaci se presi rapidamente e portati avanti con coerenza. La presenza dell’ISIS su Twitter è diminuita in termini di quantità e visibilità.

Ma la rimozione degli account sui social media arriva con ritardo e ci sono ancora molte piattaforme disponibili per gli estremisti. Twitter è semplicemente “un nodo in una più ampia struttura online jihadista”, ha sottolineato uno studio dell’anno scorso condotto da ricercatori britannici e irlandesi sulla eliminazione di materiale terroristico dalle piattaforme. Gli utenti che appoggiano l’ISIS si servono anche di servizi come Google Drive, Sendvid e soprattutto Telegram, in cui chi gestisce il gruppo ha uno spazio di autonomia molto alto.

L’ossessione online

I tentativi di controllare gli estremisti online sono di tipo repressivo più che preventivo, ma i critici affermano anche che finiscono per mostrare i pregiudizi dei proprietari di piattaforme e dei media piuttosto che concentrarsi sulle vere minacce. L’ISIS, per esempio, ha ricevuto un’attenzione sproporzionata rispetto ad altri gruppi jihadisti. E solo di recente, sulla scia di atrocità come le sparatorie alla moschea di Christchurch in Nuova Zelanda, l’estrema destra ha attirato l’attenzione dell’opinione pubblica e dei media, nonostante anni di crescente attività dei suprematisti bianchi online.

Il controllo delle attività online è stato privilegiato, anche economicamente, rispetto ad altre strade per combattere la radicalizzazione. Uno dei motivi è la “relativa facilità di creazione e quantificazione dei set di dati dei social media rispetto ad altre forme di lavoro sul campo”, ha scritto J. M. Berger, uno studioso di fenomeni estremistici, in un articolo dell’estate scorsa. Eppure non si è ancora stabilito un legame causale tra l’estremismo online e la violenza offline.

Un rapporto Unesco del 2017 ha concluso che “i social media costituiscono un ambiente di facilitazione piuttosto che una forza trainante per la radicalizzazione violenta o l’effettiva messa in atto di azioni violente”. Una inchiesta su 227 terroristi britannici condannati ha concluso che la stragrande maggioranza degli estremisti online non diventa terrorista. Tuttavia, coloro che commettono atti terroristici “si impegnano regolarmente in attività in entrambi i settori [online e offline]”, ha osservato Elizabeth Pearson del Kings College di Londra, in un documento del 2017.

Nessuno ha una formula magica per controllare il fenomeno della radicalizzazione ed è anche difficile tracciare il confine tra l’estremismo e ciò che è semplicemente offensivo per alcune persone o rappresenta una critica aspra a un determinato gruppo al potere. Ciò rende facile per i governi censurare i dissidenti in nome della repressione dell’estremismo: è così che la Cina giustifica la detenzione di oltre un milione di musulmani uiguri, per esempio.

Imparare dal passato

Sia che si concentrino sugli aspetti tecnologici o ideologici, molti programmi di deradicalizzazione hanno incontrato problemi nel lungo termine. La Nigeria è caduta in disgrazia quando il governo è cambiato e ora è sotto il controllo dei militari, con un ruolo molto meno strategico. In Francia, un primo progetto è stato chiuso tra le proteste dei locali e altre due proposte hanno seguito la stessa strada. L’anno scorso il primo ministro Édouard Philippe ha annunciato un nuovo piano di deradicalizzazione, ammettendo comunque che l’approccio tecnocratico era stato ottimista.

Ciò ha portato alcuni governi ad appoggiarsi a tattiche di comprovata efficacia. La programmazione radiofonica e televisiva è un modo consolidato per incoraggiare il cambiamento comportamentale. Dalla Bosnia al Mali, è stato dimostrato che i messaggi televisivi possono modificare i valori e i comportamenti del pubblico.

Nel nord-est della Nigeria, Radio Dandal Kura (“punto di incontro”) trasmette telefonate, programmi di istruzione e messaggi di pace in tutta la regione. Ha avuto successo e ha attirato l’attenzione di Boko Haram. Abubakar Shekau, terrorista e guerrigliero nigerino e leader del gruppo Boko Haram ha pubblicato un video minacciando le conduttrici radiofoniche e chiamandole “prostitute”.

L’ultima volta che ho visto Malam Aminu è stato nel 2018. Viveva tranquillamente in un villaggio nella Nigeria centrale, dopo essere uscito da Kuje, insieme ad altri 14 ex jihadisti.

“Prima credevo che con la violenza si poteva raggiungere qualsiasi obiettivo”, mi ha detto. Non era radicalizzato da Internet, ma dall’esperienza e dall’indignazione. Una volta era stato un comandante di Boko Haram e un membro della sua shura, o consiglio consultivo. Ora, aveva imparato la tolleranza e sapeva ascoltare i punti di vista degli altri. Gran parte di questo merito lo ha attribuito ad Akilu, la psicologa di Kuje. Ha aggiunto che gli imam del team terapeutico alla fine lo hanno indotto a riconsiderare le sue opinioni.

Ma la sua analisi della situazione è la stessa. La povertà della Nigeria settentrionale e l’indifferenza dei ricchi erano le molle della sua adesione al radicalismo, ha spiegato, ed è ancora convinto che la soluzione sia la sharia, la legge islamica. Quello che non condivide più è l’estrema violenza di Boko Haram.

Ma da quando vive fuori dalla prigione, si sente abbandonato dal governo nigeriano. Akilu gli aveva pagato privatamente gli studi a scuola, ma non vi è stato alcun programma di reinserimento da parte del governo, nemmeno un ufficiale per la libertà vigilata con il quale rimanere in contatto.

Sei degli uomini che sono stati liberati da Kuje con lui erano “i suoi ragazzi” ed è rimasto in contatto con loro. Tre da allora si sono uniti a Boko Haram. Ha detto che le motivazioni non sono state solo ideologiche: uno di loro era stato respinto dalla sua famiglia e dormiva per strada. I suoi ex compagni lo hanno trovato e convinto a ritornare con loro.

Aminu ha detto che non vuole fare uso della violenza. Ma le sue idee sarebbero ancora considerate radicali dalla maggioranza delle persone. “È solo perché mi sono pentito”, mi ha detto, “che non torno indietro.”

Non ho potuto fare a meno di chiedermi se non fosse stato Boko Haram a non volerlo più.

(rp)

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